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Donatella Finocchiaro, «Uomini che hanno odiato me»

10 venerdì Nov 2023

Posted by Cristiana Allievi in Attulità, cinema, Serie tv

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Capri Revolution, cinema, Donatella Finocchiaro, donne, Film, I leoni di Sicilia, Luca BArbareschi, Svenduti, uomini, violenza

HA CONOSCIUTO LA SOFFERENZA DI RELAZIONI TOSSICHE. «LA PRIMA A 24 ANNI: MI PICCHIAVA E MI INSULTAVA. LA SECONDA A 37: HA MINATO LA MIA AUTOSTIMA. LA TERZA, L’ANNO SCORSO: DOPO TRE MESI BELLISSIMI, È DIVENTATO RABBIOSO». MA SI È PRESA LA RIVINCITA. IN TV, AL CINEMA E NON SOLO

di Cristiana Allievi

Pelle vellutata, occhi scuri, fascino mediorientale, Donatella Finocchiaro appare proprio bella quando la incontriamo a pochi giorni dagli inizi delle riprese di Svenduti, la commedia in stile francese con il collega d’Oltralpe Bruno Todeschini che Luca Barbareschi sta girando a Filicudi.

Qualche settimana prima, racconta, era in coda per prendere un gelato davanti al Palazzo del Casino al Lido di Venezia. Sua figlia ha pestato inavvertitamente il piede a un uomo, che si è voltato e ha rovesciato il caffè avanzato nella tazzina addosso alla bambina, andandosene. Quando si è girata, ha visto Nina, nove anni, vestita di bianco, macchiata e in lacrime. Lei ha gridato all’uomo che, scappando e di spalle, le ha risposto “mi ha fatto sporcare la camicia…”. «Mi ha stupita il fatto che, pur assistendo a una violenza su una bambina, nessuno abbia alzato un dito», dice Donatella Finocchiaro. L’aneddoto, come si scoprirà leggendo, non capita a caso. Ma l’intervista non può che partire dalla prima parte della serie I leoni di Sicilia, diretta da Paolo Genovese, sulla sagra dei Florio, la famiglia calabrese che arriva in Sicilia e crea un impero nel sud Italia del primo Novecento, visibile sulla piattaforma Disney +.

Una siciliana è normale che giri storie siciliane, e in Sicilia,  corretto?  «La sicilianità è un valore aggiunto, nel Sud c’è tanta bellezza, e di noi si dice che abbiamo una teatralità naturale».

Ma? «In Italia la sicilianità è anche un limite. Spesso finiscono per chiamarti solo per i film del sud, e non solo: se non sei napoletana non giri film napoletani, così come non hai accesso a pellicole romana se non sei nata nella capitale.  Il neorealismo ci ha un po’ segnati, questa settorialità è troppo forte. Come Germano, Favino e Lo Cascio dimostrano, noi attori sappiamo essere personaggi diversi, fateci almeno fare i provini per dimostrarlo».

In I leoni di Sicilia lei è Giuseppina, moglie di Paolo Florio, patriarca della dinastia.  «Una donna ingabbiata in un matrimonio senza amore, che ha vissuto nel rimpianto del passato e della sua Calabria e non ha mai lottato per nulla. Morirà a 85 anni, quindi ogni giorno affrontavo quattro ore di trucco, come tutti gli altri attori».

Donne e cinema, come siamo messi? «Male, nonostante presenze forti come quella di Emma Dante. A Venezia non c’era una regista donna in concorso, e a parte nel film di Saverio Costanzo, non c’era nemmeno una donna protagonista. Il maschilismo è imperante, e risponde alla tesi “io sono io, voi non siete niente…”».

Il maschilismo domina nonostante i nuovi movimenti di emancipazione, quindi? «È diventato più subdolo. La violenza che le donne subiscono fra le mura di casa è ancora importante, facciamo tanto rumore per quelle che muoiono, e per carità ci mancherebbe, ma ci sono anche molti uomini che distruggono l’autostima delle donne, e non è un fatto meno grave».

Lei è stata vittima di violenza? «È successo almeno tre volte nella mia vita. La prima avevo 24 anni, e non ho capito subito, finché la violenza verbale è diventata fisica. Mi viene in mente La conduzione delle colpe di Antonio Ciraolo, psicanalista siciliano Big little liese scrittore. Racconta molto bene come la donna viva in un senso di colpa costante».

Da dove nasce questo senso di colpa? «L’uomo ti ingabbia, ti aggancia dicendoti che ti ama. Per un anno ho preso calci e pedate, era geloso anche del mio sguardo, mi insultava a parole poi mi diceva “scusa, io ti amo”, proprio come si vede nella serie tv con la Kidman, Big Little Lies. Io ci cascavo, ma era solo mania di possesso. Al terzo episodio me ne sono andata».

La seconda? «Avevo 37 anni, e per due anni ho subito una violenza che ha minato la mia autostima, fino alla depressione. Non so cosa mi sia scattato dentro, facevo solo un po’ di bioenergetica ma ho avuto un pensiero, “mi sta distruggendo…”».

Ha capito perché? «Di fronte alla donna capace, che guadagna più di lui ed era affermata, per reggere l’insicurezza mi insultava dicendomi  “non sei intelligente, non leggi abbastanza, sei una cretina, fai l’attrice…”. E mi ha convinta, nonostante mi facessi un mazzo tanto per lavorare sulla mia autostima. Finchè mi sono detta “devo sparire dalla mia vita”».

L’ultima relazione violenta? «L’ho avutal’anno scorso. Mi innamoro di un ragazzo più giovane di me, passiamo tre mesi bellissimi, a quel punto inizia la violenza verbale, diventa sgarbato, rabbioso».

Ha lavorato su se stessa per capire cosa la porta in queste relazioni? «Si e ho capito che ad agganciarmi è uno schema interiore, il modello di uomo che è stato mio padre. Era fumentino, faceva saltare le cose in aria. Non ha mai toccato mia madre ma era violento verbalmente. Ricordo che quando si arrabbiava per strada, con esplosioni di ira, mi vergognavo molto».

Fino a una certa età, la violenza verbale ha lo stesso impatto sulla nostra psiche di quella fisica. «Infatti il semplice “stai zitta”, ti schiaccia, come raccontava la Murgia nel suo God save the Queer. Il problema è la gestione delle emozioni, della rabbia». 

Vuole dire la repressione? «Copriamo le emozioni con i coperchi, fino a esplodere. Gli uomini si giustificano, accumulano fino ad arrivare a sfogarti la loro rabbia addosso, invece di imparare a gestirla, e ci sono mille modi per farlo che non sono l’alcol, il Lexotan o la cocaina».

Il suo stato attuale? «Sono single da cinque mesi, e sono aperta ad innamorarmi di nuovo. Per fortuna dopo un anno con questo giovane ci siamo separati, nonostante abbia sempre avuto partner più giovani di me, forse 15 anni di differenza sono troppi». 

È impegnata in teatro, gira film d’autore e lavora su set internazionali come quello di Trust di Danny Boyle (HBO). Dove la vedremo nei prossimi mesi? «Ho appena finito di girare una serie Netflix diretta da Michele Alhaique che non è ancora stata annunciata. È un poliziesco in cui sono la moglie di un poliziotto e l’amante di Marco Giallini. A breve dovrebbe uscire anche Greta e le favole vere,  storia in cui ho una figlia che vuole salvare il mondo. È la nostra Greta Thunberg e vuole riportare l’orso polare nei ghiacciai. A interpretarla è la bravissima Sara Ciocca, ci sono anche Sabina Impacciatore e Raul Bova che fa mio marito. Spero che lo vedremo a Natale».

Intervista pubblicata sul settimanale Oggi del 16 Novembre

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Matthias Schoenaerts: «La forza non conta, a muovermi è il cuore»

27 giovedì Lug 2023

Posted by Cristiana Allievi in arte, Attulità, cinema, Cultura

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A time to die, attori, interviste illuminanti, Kursk, Kusrk, Matthias Schoenaerts, Movies Ispired, nuovi uomini, registi, Thomas Vintenberg, Un sapore di ruggine e ossa, uomini

DA BAMBINO ADORAVA MIKE TYSON, DA ADULTO DIETRO AL FISICO POSSENTE NASCONDE UN ANIMO SENSIBILE. COSI’ L’ATTORE BELGA HA CONQUISTATO I REGISTI PIU’ IMPORTANTI. E UNA SCHIERA DI ATTRICI (GRAZIE A SUA MADRE)

di Cristiana Allievi

È entrato in scena anticipando il futuro. Quando ancora non erano iniziate le rivendicazioni di genere, Matthias Schoenaerts rappresentava già un nuovo prototipo d’uomo: forte fisicamente e sensibile nell’animo. Alto, occhi chiarissimi, durante la nostra conversazione si beve un centrifugato. Penso che nonostante la prestanza notevole, ha basato la riuscita dei suoi personaggi sull’empatia. E per imparare lo standard hollywoodiano non ha nemmeno  dovuto volare Oltreoceano: ad Anversa, la sua città, aveva per mentore il padre Julien  Schoenaerts, attore di grande talento misto ad eccentricità (e a disagi psichici). Degli esseri umani, dentro e fuori dallo schermo, lo ha sempre attratto la fatica di stare al mondo, a partire da quella del suo idolo di bambino Mike Tyson. C’è un solo argomento su cui ammutolisce (a differenza di quanto faceva in passato) e sono le sue relazioni sentimentali. È stato fidanzato per cinque anni con l’avvocatessa Alexandra Schouteden, ha avuto una relazione con Pia Miller, modella, ma del presente non parla. Però nel nuovo film di  Thomas Vintenberg, con cui aveva già girato Via dalla pazza folla, sarà un uomo sposato e in attesa di un figlio che non incontrerà mai. La storia tratta dal romanzo A time to die di Robert Moore e che vedremo al cinema dal 27 luglio è basata sul reale incidente di K-141 Kursk, il  sottomarino russo affondato nel mare di Barents il 12 agosto 2000. Lui è  il comandante del Compartimento 7 del Kursk e lotta per salvare i suoi marinai mentre le ventitre famiglie a terra combattono contro l’orgoglio russo e le lentezze burocratiche.

È vero che è stato lei a suggerire a Thomas Vinterberg questo film? «Ho letto la sceneggiatura e ho pensato che fosse il regista giusto. Poco dopo lui ha pensato a me per il ruolo del personaggio principale (ci sono anche la Palma d’Oro Lea Seydoux, nei panni di sua moglie, e il premio Oscar Colin Firth in quelli della marina britannica ndr). Mi ha colpito questa lotta contro il tempo, un tema universale con cui tutti facciamo i conti».

Come si entra nello stato mentale di chi sa di avere ancora poco da vivere? «Il desiderio di farcela è più grande dell’accettazione della morte. Se ti arrendi è la fine, e vuoi sopravvivere per le persone che ami, per la tua famiglia. Questa storia dimostra che per amore puoi tirare fuori una forza che nemmeno immagini di avere».

Una storia girata in spazi ristretti come gli interni di un sottomarino è più difficile da sopportare? «Stare in uno spazio angusto con 25 attori, più altrettante persone della troupe, per sei settimane, è un’esperienza molto forte. Se non diventi matto ne esci trasformato, comprendi molti aspetti incomprensibili in altre circostanze».

Ad esempio? «Ho scoperto la mia grande forza d’animo, o forse è meglio dire che l’ho riscoperta. Anche al cinema, mi ha sempre interessato più il coraggio della brutalità».

Eppure lei è diventato famoso mostrando una forza fisica sexy e brutale.  Ha avuto paura che la trasformassero in un cliché, anche grazie al suo fisico imponente? «Sono fenomeni incontrollabili. Io mi muovo dal cuore, se una storia mi tocca la scelgo, altrimenti no. E a dirla tutta, odio quando vogliono farmi sembrare il bello di turno, preferisco essere brutto quando interpreto un ruolo».

A otto anni lei era già sul palco con suo padre, l’attore di teatro Julien Schoenaerts. «C’è chi sa di voler fare un lavoro da quando è bambino, io non sono così. Da adolescente suonavo, dipingevo, se ce n’era una cosa che non volevo fare a nessun costo era recitare. Certo, per non paragonarmi a mio padre, un uomo da cui sono stato molto distante. Poi, quando è mancato, le cose sono cambiate».

(continua…)

Intervista integrale pubblicata su Donna Moderna del 20 Luglio 2023

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Colin Farrell, l’Oscar del cuore

03 venerdì Feb 2023

Posted by Cristiana Allievi in Academy Awards, Attulità, cinema, Cultura, Mostra d'arte cinematografica di Venezia, Oscar

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actors, attori, Brendan Gleeson, Colin Farrell, F magazine, GLi spiriti dell'Isola, Hollywood, interviste illuminanti, Martin McDonagh, men, red carpets, style, uomini

È A UN PASSO DALLA SUA PRIMA STATUETTA, MA A 46 ANNI INSEGUE ANCORA L’OBIETTIVO PIU’ IMPORTANTE PER LUI: «ESPRIMERE CON ONESTA’ E AMORE I MIEI BISOGNI, NELLE RELAZIONI SENTIMENTALI, CON GLI AMICI, CON I MIEI FIGLI». PER FARE PRATICA INTERPRETA UN EREMITA A CUI È RIMASTO SOLO UN ASINO

di Cristiana Allievi

Intervista all'attore Colin Farrell che racconta la sua vita, i suoi figli e la sua esperienza nel film Gli spiriti dell'isola.
L’attore irlandese Colin Farrell, 46 anni, vicino all’Oscar per la sua interpretazione in
Gli spiriti dell’isola (courtesy F Magazine).

Da una parte concede pochissime interviste. Lo fa per non rileggere ogni volta un passato che si è impegnato molto a lasciarsi alle spalle. D’altro canto però, l’uomo che ha flirtato per vent’anni con i guai (alcol e droghe, paparazzi e video hard finiti in rete), quando parla è un torrente impetuoso, pieno di mulinelli, gorghi e vortici. Colin Farrell è un uomo ricco di vita e di cose belle da condividere, e il giorno della nostra intervista è vestito con colori chiari, ha i capelli corti ed è di ottimo umore.
L’uomo che è stato così paparazzato da decidere di indossare una maglietta con la scritta “Leave Colin Alone” – un successo tale da diventare una linea di abbigliamento  – oggi è arrivato a una verità importante, che lo rende anche più maturo: «la solitudine è sempre più essenziale per me, e l’ho scoperto grazie alla pandemia». Proprio nella solitudine di Inishmore Island, la più grande isola dell’arcipelago irlandese delle Aran, ha girato il film che gli è già valso la Coppa Volpi a Venezia e un Golden Globe, e con molta probabilità a marzo lo porterà a vincere il suo primo Oscar.  Gli spiriti dell’Isola racconta la vita  in un luogo in cui non c’è molto, a parte tanta erba verdissima, un pub e una comunità chiusa e bigotta. In questo scenario Padraic (Farrell) è un uomo che si prende cura da anni del suo asino, e Colm (Brendan Gleeson) è l’amico di una vita che all’improvviso non vuole più né vederlo né parlare con lui.

«Non ti voglio più bene», «Non sono più tuo amico» sono frasi che feriscono profondamente. Cosa pensa di una comunicazione così diretta?


Credo che le persone usino un linguaggio “brutalmente onesto” per giustificare il loro essere crudeli e meschini. D’altro canto trovo ci sia anche una bassezza nel non comunicare la verità di quello che sentiamo.
In questo cammino verso la comunicazione dei propri sentimenti, lei a che punto è?
Anche se ho 46 anni, sto ancora imparando a esprimere i miei pensieri e i miei bisogni, e vale per le amicizie, le relazioni sentimentali e quelle con i miei due figli. Voglio essere onesto ed esprimermi con amore, ma questo non rende le cose più facili, al contrario.


La cosa più importante che ha capito delle relazioni umane?


Troppo spesso ci dimentichiamo che la responsabilità di un rapporto ricade al 50 per cento su di noi: se manchiamo questo concetto, perdiamo il punto.


Tagliare fuori una persona, o una situazione, o cercare di trasformarla dall’interno: quale via sceglierebbe?


Non sono un grande fan degli opposti,  del “giusto” e “sbagliato”. Siamo tutti d’accordo sul fatto che non sia indicato fare coscientemente del male a qualcuno e godere del dolore causato. Ma credo anche che a volte, se faccio davvero la scelta migliore per me non è detto che questa sia in sintonia con quello che le persone della mia vita  vorrebbero. ¶


Un equilibrio delicato.

(continua…)

Intervista integrale pubblicata su F Magazine del 7/2/2023

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Christoph Waltz, «Ci vuole resistenza»

22 giovedì Set 2022

Posted by Cristiana Allievi in arte, Attulità, cinema, Cultura, Miti, Mostra d'arte cinematografica di Venezia

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Bastardi senza gloria, Christoph Waltz, DEad for a dollar, Django Unchained, Inglorious Basterds, interviste illuminanti, Quentin Tarantino, successo, uomini, Vanity Fair

PER AVERE SUCCESSO LA PASSIONE NON BASTA. LUI LO DIMOSTRA DAI TEMPI IN CUI, CON TARANTINO, HA CONQUISTATO HOLLYWOOD E DUE OSCAR COME ATTORE NON PROTAGONISTA. ORA PERO’ HAIL RUOLO PRINCIPALE NEL NUOVO DEAD FOR A DOLLAR, E CI PARLA DI CONFINI E DELL’IMPORTANZA DI CERTE SINFONIE

L’attore e regista austriaco Christoph Waltz, due volte premio Oscar (courtesy Ausbury Movies)

di Cristiana Allievi

Con Hans Landa, il colonnello delle SS terrificante e colto di Bastardi senza gloria, e con il cacciatore di taglie King Schultz in Django Unchained, è passato quasi all’improvviso dall’oscurità all’eroismo, vincendo due Oscar. «I cattivi mi vengono bene per il mio aspetto e la mia fisionomia, a cui può aggiungere anche l’età e l’aura che emano», dice Christoph Waltz dopo aver chiesto l’autorizzazione a togliersi la giacca per restare in camicia azzurra, più consona al clima della laguna. La figura è sottile, quasi delicata. Tutta la sua forza emerge dagli occhi grigio chiaro, da cui non si sfugge tanto facilmente.

Nato a Vienna 65 anni fa da due scenografi tedeschi, ha avuto come nonno materno il noto psicologo Rudolf von Urban, che sembra avergli lasciato in eredità una visione chiara dell’ego e delle sue dinamiche: in un’epoca che spinge tutti a parlare di sé, lui non lo ha fatto nemmeno ai discorsi di ringraziamento per gli Oscar, preferendo citare solo le persone più importanti a cui deve il successo.

Ora Christoph Waltz ha una sfilza di film in uscita degna di un trentenne all’apice della carriera, e all’ultima Mostra di Venezia, dove l’abbiamo incontrato, è stato il magnifico protagonista di Dead for a Dollar, il nuovo western di Walter Hill prossimamente nelle sale.

È una storia di confini geografici e morali ambientata nel 1897 in cui interpreta Max Borlund, un cacciatore di taglie pagato da un ricco uomo d’affari per ritrovargli la moglie (Rachel Brosnahan), secondo lui rapita e portata in Messico da un disertore (Brandon Scott). Ma le cose non stanno così, e quando Max lo capisce, comincia a seguire la sua etica.

In tutti i film sul vecchio West, quando qualcuno non piace, finisce male, con una pallottola in corpo.
«C’era la legge, ma non veniva seguita in modo diligente perché mancavano le forze dell’ordine. La domanda che mi faccio ogni volta però è un’altra».

Quale?
«Come mai se passi un confine, che è una demarcazione arbitraria, le cose sono così diverse? Prendiamo il caso della sparatoria di massa accaduta lo scorso maggio a Buffalo. Il confine canadese è molto vicino, puoi quasi arrivarci a piedi. Perché, una volta che lo hai attraversato, non hai più questi fenomeni di violenza di massa, problemi con le armi e con il controllo delle armi? Intendo dire, hai solo i problemi normali, perché i pazzi sono ovunque».

Che risposta si è dato?
«Credo che la differenza stia nelle forze dell’ordine. L’America è un interessante fallimento di liberazione, si sono rivoltati contro il re, ma poi in un certo senso non hanno avuto un piano su cosa fare della situazione».

In Canada, in compenso, hanno sempre avuto la regina Elisabetta II, mancata pochi giorni fa.
«C’erano anche le montagne e la “polizia” locale ha anticipato l’espansione verso Ovest, elementi che hanno fatto una grande differenza. Tornando alla domanda, è un mito dei film farci credere che se non ti piaceva qualcuno potevi tranquillamente sparargli. Eri comunque un criminale, un assassino, e se eri fortunato venivi processato, altrimenti ti linciavano».

(continua…)

Intervista integrale pubblicata su Vanity Fair del 28 settembre 2022

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Josh O’Connor: «E adesso mi metto a nudo»

28 giovedì Lug 2022

Posted by Cristiana Allievi in arte, Attulità, cinema, Cultura, Festival di Cannes, Letteratura, Miti

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Colin Firth, Cristiana Allievi, Donna Moderna, Eva Husson, guerra, interviste illuminanti, Josh O'Connor, Mothering Sunday, nudo, Olivia Colman, Secret Love, The Crown, uomini

Il protagonista di Secret Love colleziona ceramiche, adora il giardinaggio, si spoglia senza problemi. E qui fa un invito a se stesso e agli altri uomini: “Dobbiamo capire perché abbiamo avuto così a lungo tanti privilegi. Ed essere più gentili».

di Cristiana Allievi

L’attore inglese Josh O’Connor, 31 anni (courtesy TMDB)

Fa molto caldo nella stanza in cui ci troviamo. Josh O’Connor indossa una camicia bianca di seta con disegni neri ed è seduto su una poltrona. Con un accento molto british mi racconta la sua visione del maschio contemporaneo, mentre scivola in avanti con le gambe, per poi ritirarsi su. Da giovane voleva fare l’attore, ma pensando di non avere la stoffa si è dato al rugby. Gli torna in mente mentre parliamo di Secret Love di Eva Husson, finalmente al cinema dal 20 luglio. Quella che è forse la sua miglior interpretazione di sempre: ambientata nel 1924,  lo vede nei panni di Paul, il figlio di una famiglia di nobili che porta sulle spalle vari pesi: i fratelli morti in guerra, un matrimonio imminente che non vorrebbe e soprattutto  l’amore segreto per Jane (Odessa Young), domestica dei vicini di casa (Colin Firth e Olivia Colman). Lui è nudo per i tre quarti del film,  in quello che è un incontro sublime fra sesso, cinema e scrittura (la storia è tratta dal romanzo Mothering Sunday di Graham Swift). 31 anni, figlio di un insegnante e di un’ostetrica, come principe Carlo d’Inghilterra in The crown ha vinto Emmy e Golden Globe, e molti altri riconoscimenti sono arrivati per La Terra di Dio. A New York, dove vive, fa teatro e film indipendenti e ha un’altra passione insospettabile a cui dedicarsi.

Vado dritta al punto: prima Carlo d’Inghilterra, ora Paul,  un altro uomo costretto dall’etichetta.  Perché sceglie questi maschi che non conoscono la libertà? «Non è mai stata una decisione cosciente, piuttosto una sorta di gioco. Ho incontrato molti  uomini che si misurano con la loro mascolinità e le lotte di potere che questa comporta. Qualcuno mi ha detto di vedere una connessione  fra il principe Carlo e il Johnny Saxby che ho interpretato in La terra di Dio. La mia prima reazione è stata “stai scherzando?”, ma riflettendoci l’idea è convincente:  il principe Carlo era incapace di esprimere le proprie emozioni a causa del suo status sociale, esattamente come Johnny, che appartiene a una classe sociale molto inferiore. Chi come me viene dalla classe di mezzo, riesce molto bene a parlare di chi sta più in alto e di chi sta più in basso».

Il comune denominatore è l’essere “trattenuti”. «È un aspetto che mi affascina molto, ma mi interessa più quel senso di colpa che ha chi sopravvive. Paul è un uomo che eredita uno status in una certa società, e si deve portare sulle spalle il peso e la pressione dei suoi due fratelli morti in guerra, incluso il matrimonio con una donna che non ama ma che tutti intorno a lui amano, è la ricetta per un disastro perfetto!».

Cos’ha a che fare con lei, questo disastro? «Sto esplorando qualcosa che mi sembra interessante, ma non so perché continui a tornare. Sembra che non le stia rispondendo, la verità è che non conosco la risposta».

Come vede questa fase di confronto fra i sessi? «Credo che non sia un caso se vediamo spesso ruoli come quello che interpreto in Secret love. Gli uomini devono comprendere il loro posto nel mondo, e capire perché hanno avuto così tanti privilegi per così tanto tempo. In altre parole, dobbiamo capire come essere più gentili».

Il fatto che la regista sia una donna è un caso? «Neanche un po’. Finalmente abbiamo registe e sceneggiatrici che scrivono personaggi maschili per un pubblico di uomini e di donne.  Diciamo che stiamo rivalutando le cose, ci stiamo lavorando su».

(continua…)

Intervista integrale pubblicata su Donna Moderna del 21 luglio 2022

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La perfezione di John

06 lunedì Mag 2019

Posted by Cristiana Allievi in arte, cinema, Miti, Sport

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campioni, D La repubblica, interviste illuminanti, John McEnroe, Julien Faraut, L'impero della perfezione, uomini

John McEnroe in un’immagine del film L’impero della perfezione che lo ritrae negli anni Ottanta.

IL 6 MAGGIO ESCE NELLE SALE IL FILM di JULIEN FARAUT, CHE UNISCE LE LEGGI DELLE SCIENZE MOTORIE, L’AGONISMO E L’ESTRO DI UNO DEI GIOCATORI DI TENNIS PIU’ ORIGINALI DEL SECOLO SCORSO. SI INTITOLA L’IMPERO DELLA PERFEZIONE E A GIRARLO È STATO UN (EX) ARCHIVISTA

Lo si vede discutere con l’arbitro. Lamentarsi dei clic delle macchine fotografiche. Allontanare i cameraman. E si resta ipnotizzati dalla faccia con cui fissa un punto dall’altra parte della rete. Le immagini sono così concentrate sulla sua figura che lo spettatore si sente trasportato in campo, a soffrire con lui. E inizia a comprendere qualcosa che fino a quel momento non aveva visto. «Ho capito che il tennis per lui andava al di là dello sport: era un bisogno vitale, lui doveva vincere». Julien Faraut, 41 anni,  lavora per l’archivio del Ministero dello Sport. Un giorno scopre un vero tesoro: ore di girato di Gil de Karmadec, sportivo e regista appassionato che dagli anni Cinquanta si è dedicato alla didattica attraverso l’analisi del gesto dei tennisti. A un certo punto, però, rinuncia alle riprese con quello scopo e segue ciò che un campione fa dal vero. È con questo materiale che Faraut decide di restituire la genialità del tennista che nel 1984 vince su  tutte le superfici, tentando di entrare nella sua testa. Le straordinarie riprese in 16 mm mai montate prima sono già cinema (all’epoca circolavano solo immagini video), e con esse cerca di rispondere a una domanda: cosa rende unico John McEnroe, l’uomo che con il  96.5 % di vittorie in una stagione vanta un  primato ancora oggi imbattuto? Le risposte sono affidate alla voce narrante di Mathieu Amalric, che scandisce verità vertiginose. L’impero della perfezione- John McEnroe è una folgorazione, un fenomenale viaggio fra il cinema e lo sport. «Dall’inizio ho voluto parlare con uno psicologo, dicendo che stavo facendo un ritratto di McEnroe», racconta. «Volevo capire la sua collera, e mi ha spiegato che un perfezionista vede un mondo per definizione imperfetto e si trova in uno stato di insoddisfazione permanente». Se in molti hanno pensato che McEnroe ci marciasse, sulle sue collere, per destabilizzare gli avversari, Faraut porta una nuova sfumatura. «Sono arrivato a concludere che era sincero, non aveva secondi fini, non poteva evitare quel vulcano emotivo. Ma mentre chiunque altro lasciandosi andare a queste emozioni avrebbe sbagliato due volte, lui vinceva, la sua rabbia lo caricava». Attraverso una spietata analisi delle relazioni familiari, con un padre avvocato d’affari assente  e una madre gelida che vuole un figlio campione, la tensione sale.  Da una parte si delinea il mantra di John, “se non sono il top, loro non mi amano”, atteggiamento molto distruttivo che lo ha portato ai vertici del tennis. Dall’altra si arriva al culmine del racconto, la mitica finale di Roland Garros in cui dopo 1 ora e 29 minuti di gioco sublime, McEnroe crolla e perde al quinto set contro Ivan Lendl. Un match di cui gli appassionati ricordano ogni istante di sofferenza. «Ci sono due modi per guardare il tennis, a bordo campo o in tv. Io dovevo creare una terza via, spingere una persona ad andare al cinema. Hitchcock ha sempre detto che la suspence di una storia non sta alla fine, ma durante il racconto».

(continua…)

Articolo pubblicato su D La Repubblica del 16 febbraio 2019

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Pedro Almodovar, «A cuore aperto»

08 venerdì Mar 2019

Posted by Cristiana Allievi in arte, cinema, Cultura, Miti, Moda & cinema

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cinema, Dolor Y Gloria, Dolore e Gloria, GQ Italia, intervista esclusiva, interviste illuminanti, Mina, Pedro Almodovar, stile, uomini

LA FAMIGLIA È AL CENTRO DEL SUO CINEMA. VENT’ANNI FA HA VINTO A CANNES CON TUTTO SU MIA MADRE. ORA PEDRO ALMODÓVAR ESPLORA LA SUA VITA CON DOLORE E GLORIA

Il regista Pedro Almodovar, 70 anni (foto di Nico Bustos per GQ Italia).

Colpo di teatro di Pedro Almodóvar. Che stesse girando il suo ventunesimo film, Dolor y gloria, si sapeva. Un po’ meno invece sulla storia e la data di uscita nelle sale. Ma all’improvviso annuncia che è tutto pron- to, che il 22 marzo gli spagnoli potranno ammirare il suo lavoro, che a maggio sarà in Italia. Storiona di famiglia, molto auto- biografica. Proprio 20 anni dopo (gli stessi che compie quest’anno GQ), quel Tutto su mia madre che gli fece vincere il premio per la miglior regia sulla Croisette.


Perché questo film adesso? In Italia ci fa pensare a 8 1⁄2 di Fellini. Spero che non mi paragoniate a 81⁄2, perché perderei il confronto. Tutti i miei film mi rappresentano, ma di sicuro Dolore e gloria mi rappresenta più profondamente. Non so perché l’ho scelto proprio ora, ho l’impressione di non aver scelto io il tema del film, ma che sia stato il tema del film a scegliere me. Generalmente non sono consapevole del perché giro un certo film o un altro; sono consapevole della necessità di affrontare determinati argomenti in determinati momenti, ma non dei motivi.

Il suo ottavo film con Banderas dà un’immagine diversa di questo attore?

Secondo me sì. Quando ho lavorato con lui negli anni Ottanta, era molto giovane e quel che mi interessava di Antonio Banderas era la sua passionalità, la follia travolgente che dava ai suoi personaggi. Ora Antonio ha sessant’anni, continua a essere un uomo molto affascinante, ma sul suo viso vedo i due o tre interventi al cuore che ha subito negli ultimi anni, la sua esperienza con il dolore. In Dolore e gloria Antonio offre un’interpretazione per me inedita, gesti mi- nimi, emozioni controllate, una solitudine interpretata con grande economia di risorse. Per me è una sorta di nuova nascita per Antonio Banderas, o quanto meno l’inizio di una splendida tappa di maturità.

E Penélope Cruz sarà sua madre?

Penélope Cruz interpreta la madre di Antonio Banderas negli anni Sessanta, quand’è bambino. Penélope fa nuovamente la casalinga di campagna, in un momento in cui la Spagna non è ancora uscita dal dopoguerra. Per questo il suo look e la sua interpretazione sono molto diversi dalla madre che interpretava in Volver – Tornare.

Nel film c’è una canzone di Mina. Perché ha scelto proprio questa?

La scena si svolge all’inizio degli anni Sessanta e Come sinfonia appartiene a quell’epoca ed evoca la luce e la sensualità dell’estate mediterranea. E inoltre Mina è quasi parte della mia famiglia e io volevo che nel film tutto mi risultasse familiare: gli attori, le opere d’arte che si vedono alle pareti, le canzoni e, naturalmente, le emozioni, le emozioni più profonde.

Non ha studiato cinematografia, ma è diventato uno dei registi più famosi del mondo. Come ha fatto emergere il suo stile?

Quando arrivai a Madrid nel 1969, il generale Franco aveva appena chiuso la Scuola di Cinema. Avevo pensato di studiare lì, ma non essendo possibile, acquistai una videocamera Super 8 e nel corso degli anni Settanta girai molti cortometraggi di diverso minutaggio: 5, 10, 30 minuti; e riuscii anche a girare un film. Questa fu la mia unica scuola e si rivelò molto utile. Il Super 8 non è come il video, il Super 8 è cinema, viene girato in negativo. E io presi molto sul serio sia la parte relativa alla scrittura della sceneggiatura, sia la direzione degli attori e quant’altro. Le mie preoccupazioni principali e le tematiche che avrei affrontato anni dopo erano già presenti in questi film. Lo stile, come ogni processo di presa di coscienza, si scopre con il tempo e ci si arriva – almeno nel mio caso – in modo spontaneo, prendendo decisioni di pancia.

Come il regime di Franco influenzò lo stile degli uomini?

Fino al momento in cui il regime non iniziaa indebolirsi, il modo di vestire, i colori, le acconciature dei capelli degli uomini spagnoli dipendevano da convenzioni sociali molto repressive. Chi non si adeguava, rischiava di finire alla polizia solo per il suo aspetto. C’era pochissimo spazio per coltivare personalità e gusti nel vestire. Nonostante sia stato un Paese intrappolato dalla dittatura, la Spagna cominciò a raccogliere influenze dal resto del mondo dopo il 1965, quando ebbe inizio il processo di sviluppo della nazione. Alla fine degli anni Sessanta irruppe lo stile hippy, soprattutto nelle grandi città, con l’influsso di Carnaby Street. Questo cambiò radicalmente il look dei giovani spagnoli, che divenne più colorato e audace. Chi sognava di lavorare in banca indossava un noioso abito con giacca e cravatta (do- minavano i colori grigio, beige e marrone) e coloro che si sentivano liberi dal consumismo e volevano non solo l’amore libero ma il recupero del rapporto con la natura, si vestivano in un modo ritenuto insolito fino ad allora; inoltre arrivano il pop e la psichedelia. La rottura in termini di look maschile è radicale. Tutti i tipi di stampe possibili e accessori per tutto il corpo. Sono stati gli anni del trionfo della bigiotteria e dei colori e dei tessuti sgargianti e luminosi. Negli anni Settanta, delusi dagli hippies, i giovani spagnoli divennero politicizzati, specialmente nelle università.

(…continua)

L’intervista esclusiva per GQ è sul numero di marzo 2019

© Riproduzione riservata

Incontri on the road, Viggo Mortensen

09 sabato Feb 2019

Posted by Cristiana Allievi in cinema, Letteratura, Personaggi, Zurigo Film Festival

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amicizia, cinema, Golden Globe, Greenbook, interviste illuminanti, On the road, Oscar, razzismo, Star, stile, uomini, Viggo Mortensen

POETA, SCRITTORE (DI TANTE LETTERE), REGISTA. VIGGO MORTENSEN È UN SOLITARIO IN TOURNEE CON GREENBOOK

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«Scrivo molte lettere e cartoline, e adoro riceverle. La stranezza è che gli uffici postali non sono efficienti come quelli di una volta, in Europa come negli Stati Uniti i finanziatori non vogliono investire nel settore. Ma io sono spesso davanti alle buche delle lettere, alimento il mercato». Polo grigia con giacca e pantaloni blu, macchina fotografica in mano, Viggo Mortensen riesce sempre a spiazzarti con una storia mai sentita prima. Come questa. «Da giovane non ero un tipo socievole, tendevo a evitare sia chi mi piaceva sia le persone di cui non mi fidavo. Ma trovandomi in situazioni in cui non avevo via d’uscita, in paesi stranieri, ho trascorso tempo con persone che non avrei frequentato, e questo mi ha cambiato. Ho dovuto capirle, comprenderne anche la lingua, conoscere i loro background, diversi dal mio. E sono diventato più curioso, è stata mia madre a incoraggiarmi in questo senso». Grace Gamble, americana, incontra Viggo Peter Mortensen Sernior, danese, a Oslo, Norvegia, poco dopo lo ha sposato nei Paesi Bassi. Se il loro primo figlio scrive sceneggiature mentre è in volo sull’Oceano, intasa le buche delle lettere, parla sette lingue e ha due fratelli minori che fanno i geologi, invece di lavorare in banca, un motivo c’è. Per esempio il fatto di aver vissuto fra Venezuela, Danimarca e Argentina, e di essere stati mollati da soli in un collegio isolato sulle montagne, a soli sette anni.  «Quel modello di educazione anglosassone non è per tutti. Io mi sono fatto degli amici, sono sopravvissuto, ma altri bambini ne hanno risentito a livello psicologico».

Anche gli inizi della carriera non sono stati facili per lui, se si pensa che Jonathan Demme e Woody Allen hanno tagliato le uniche scene in cui era presente, e che Oliver Stone all’ultimo gli ha preferito Willem Dafoe per il suo sergente Elias. Poi però Sean Penn lo ha voluto nel suo Lupo solitario, sigaretta in bocca e petto nudo, e da lì in avanti nessuno lo ha più fermato. In questi giorni è in Ontario, Canada, per girare il suo primo film dietro la macchina da presa: Falling, una storia scritta partendo da eventi della sua famiglia che vedremo il prossimo autunno.  Intanto è al cinema con Green Book,  il film di Peter Farrelly visto in anteprima europea al Festival di Zurigo, vincitore di 3 Golden Globe e candidato a 5 Oscar (miglior film, attore protagonista, non protagonista, sceneggiatura, montaggio) . È la storia vera del buttafuori italoamericano Tony Lip Vallelonga (in seguito attore noto per il ruolo del boss Carmine Lupertazzi ne I Soprano) che fece da autista al jazzista nero Don Shirley, in tour fino nel sud degli Stati Uniti. Siamo negli anni Sessanta, ma per molti versi quel paese razzista e classista assomiglia all’America di Trump. Nonostante questo, e le differenze fra i due uomini, fra loro nascerà un’amicizia profondissima.

Green Book mette al centro una convivenza forzata fra due uomini, che sono spesso in auto insieme e si guardano attraverso lo specchietto retrovisore. «Il film racconta una storia che fa pensare, magari anche ridere, ma non dice tutto. Sei tu spettatore a farti la tua idea su quel momento storico, a fare i collegamenti con quello che stiamo vivendo oggi, ma non ti viene detto come farli. Detesto quando un artista, o un film, si impongono, e inconsciamente sottintendono “io ne so più di te”, è molto più interessante attrarre le persone con la qualità di quello che si fa».

Ha dichiarato che insieme a Dangerous Method e a Far from men, è stato il peggior film dal punto di vista delle paure che ha scatenato in lei.  «Non sono italoamericano, anche se capisco la vostra lingua più di molti americani, inclusi alcuni italoamericani e sono stato in grado di aiutare nella traduzione di alcune frasi per la sceneggiatura».

Lei è un po’ maniacale, nel lavoro… «Ho detto a Peter che la storia era bellissima, il personaggio anche e alcuni dei migliori attori che abbiamo sono italoamericani. Insomma, c’era chi lo avrebbe interpretato meglio di me».

E il regista? «Mi ha risposto che se gli ero sembrato credibile nei panni di un assassino russo, in La promessa dell’assassino, potevo farlo anche in quelli di un tassista italoamericano. La svolta è stata l’invito a pranzo dalla famiglia di Tony,  nel loro ristorante in New Jersey, il Tony Lips. li ho osservati, mentre siamo stati seduti a tavola per ore, e ho capito che sarebbe stato un gran lavoro ma potevo farcela. Finalmente avevo qualcosa da imitare».

(continua…)

Intervista di copertina pubblicata su GQ di febbraio 2019 

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