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Cristiana Allievi

~ Interviste illuminanti

Cristiana Allievi

Archivi tag: Quentin Tarantino

Christoph Waltz, «Ci vuole resistenza»

22 giovedì Set 2022

Posted by cristianaallievi in arte, Attulità, cinema, Cultura, Miti, Mostra d'arte cinematografica di Venezia

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Bastardi senza gloria, Christoph Waltz, DEad for a dollar, Django Unchained, Inglorious Basterds, interviste illuminanti, Quentin Tarantino, successo, uomini, Vanity Fair

PER AVERE SUCCESSO LA PASSIONE NON BASTA. LUI LO DIMOSTRA DAI TEMPI IN CUI, CON TARANTINO, HA CONQUISTATO HOLLYWOOD E DUE OSCAR COME ATTORE NON PROTAGONISTA. ORA PERO’ HAIL RUOLO PRINCIPALE NEL NUOVO DEAD FOR A DOLLAR, E CI PARLA DI CONFINI E DELL’IMPORTANZA DI CERTE SINFONIE

L’attore e regista austriaco Christoph Waltz, due volte premio Oscar (courtesy Ausbury Movies)

di Cristiana Allievi

Con Hans Landa, il colonnello delle SS terrificante e colto di Bastardi senza gloria, e con il cacciatore di taglie King Schultz in Django Unchained, è passato quasi all’improvviso dall’oscurità all’eroismo, vincendo due Oscar. «I cattivi mi vengono bene per il mio aspetto e la mia fisionomia, a cui può aggiungere anche l’età e l’aura che emano», dice Christoph Waltz dopo aver chiesto l’autorizzazione a togliersi la giacca per restare in camicia azzurra, più consona al clima della laguna. La figura è sottile, quasi delicata. Tutta la sua forza emerge dagli occhi grigio chiaro, da cui non si sfugge tanto facilmente.

Nato a Vienna 65 anni fa da due scenografi tedeschi, ha avuto come nonno materno il noto psicologo Rudolf von Urban, che sembra avergli lasciato in eredità una visione chiara dell’ego e delle sue dinamiche: in un’epoca che spinge tutti a parlare di sé, lui non lo ha fatto nemmeno ai discorsi di ringraziamento per gli Oscar, preferendo citare solo le persone più importanti a cui deve il successo.

Ora Christoph Waltz ha una sfilza di film in uscita degna di un trentenne all’apice della carriera, e all’ultima Mostra di Venezia, dove l’abbiamo incontrato, è stato il magnifico protagonista di Dead for a Dollar, il nuovo western di Walter Hill prossimamente nelle sale.

È una storia di confini geografici e morali ambientata nel 1897 in cui interpreta Max Borlund, un cacciatore di taglie pagato da un ricco uomo d’affari per ritrovargli la moglie (Rachel Brosnahan), secondo lui rapita e portata in Messico da un disertore (Brandon Scott). Ma le cose non stanno così, e quando Max lo capisce, comincia a seguire la sua etica.

In tutti i film sul vecchio West, quando qualcuno non piace, finisce male, con una pallottola in corpo.
«C’era la legge, ma non veniva seguita in modo diligente perché mancavano le forze dell’ordine. La domanda che mi faccio ogni volta però è un’altra».

Quale?
«Come mai se passi un confine, che è una demarcazione arbitraria, le cose sono così diverse? Prendiamo il caso della sparatoria di massa accaduta lo scorso maggio a Buffalo. Il confine canadese è molto vicino, puoi quasi arrivarci a piedi. Perché, una volta che lo hai attraversato, non hai più questi fenomeni di violenza di massa, problemi con le armi e con il controllo delle armi? Intendo dire, hai solo i problemi normali, perché i pazzi sono ovunque».

Che risposta si è dato?
«Credo che la differenza stia nelle forze dell’ordine. L’America è un interessante fallimento di liberazione, si sono rivoltati contro il re, ma poi in un certo senso non hanno avuto un piano su cosa fare della situazione».

In Canada, in compenso, hanno sempre avuto la regina Elisabetta II, mancata pochi giorni fa.
«C’erano anche le montagne e la “polizia” locale ha anticipato l’espansione verso Ovest, elementi che hanno fatto una grande differenza. Tornando alla domanda, è un mito dei film farci credere che se non ti piaceva qualcuno potevi tranquillamente sparargli. Eri comunque un criminale, un assassino, e se eri fortunato venivi processato, altrimenti ti linciavano».

(continua…)

Intervista integrale pubblicata su Vanity Fair del 28 settembre 2022

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Austin Butler, Love me tender

06 lunedì Giu 2022

Posted by cristianaallievi in arte, Attulità, Cannes, cinema, Cultura

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Austin Butler, Baz Luhrmann, Cannes 75, Disney, Elvis, Festival di Cannes, interviste illuminanti, Jim Jarmush, Leggenda del rock, Quentin Tarantino, Vanity Fair, Warner Bros

Interpretando Elvis Presley, AUSTIN BUTLER ha scoperto di avere molto in comune con lui: un dolore importante e l’ansia di piacere che divorava l’icona del rock

Intervista esclusiva di Cristiana Allievi

L’attore americano Austin Butler in una scena del film Elvis di Baz Luhrmann in cui interpreta varie sfaccettature dello showman più famoso del ventesimo secolo:  il ribelle delle origini, l’attore, l’uomo pop e quello family-friendly, fino  alla versione epica  degli anni Settanta (Courtesy © 2021 Warner Bros. Entertainment Inc.)

La voce è profonda e lievemente roca. Potrebbe sedurre, con quella voce,  invece la usa per consegnarmi un’importante chiave di lettura della sua vita. «Anch’io ho perso mia madre quando avevo solo 23 anni», mi racconta, e non a caso. Californiano, classe 1991, magnifici occhi azzurri, Austin Butler il suo viso non si è ancora fissato nella mente di tutti. Però dal 22 giugno in poi sarà impossibile dimenticarsi di lui, perché Baz Luhrmann lo ha scelto per interpretare il più grande showman del ventesimo secolo, Elvis Presley. Un salto vertiginoso per Austin, diventato famoso grazie alla serie tv della Disney Hannah Montana, a cui è seguito l’esordio al cinema con The faithful nei panni di un cane che si trasforma in uomo. Certo, lo hanno già voluto anche Tarantino e Jarmush (in C’era una volta… a Hollywood e I morti non muoiono), ma per ruoli minori. In Elvis, presentato Fuori Concorso alla 75esima edizione del Festival di Cannes,  lo vedremo protagonista assoluto, mentre ancheggia, canta e si dispera per due ore e 39 minuti, ripercorrendo la complicata relazione che il re del rock aveva con il manager, il “Colonello” Tom Parker interpretato da Tom Hanks. Nel biopic si celebra anche l’Italia, visto che nella colonna sonora ci sono anche  i Maneskin con la hit If I Can Dream.

Qual è stata la sua reazione quando le hanno proposto di diventare l’uomo di spettacolo più famoso del ventunesimo secolo? «Per due anni mi sono svegliato alle tre di notte con il cuore che andava a cento all’ora: mi sono chiesto come interpretare questa reazione, finché ho capito che si trattava di terrore puro».

Terrore di cosa? «Di non saper rendere giustizia a Elvis, davanti a tutti quelli che lo amano, partendo dalla  sua famiglia che volevo fosse orgogliosa di lui. Mi è capitato di avere grosse crisi di autostima,  ho dovuto attraversarle e superarle».

Come si supera, il “terrore puro”? «Pensando che se mi hanno dato un lavoro,  dovevo prendermene la responsabilità e confrontarmi con il mio disagio.  Indagando questo terrore ho scoperto che conteneva  anche energia! Così ho  iniziato a lavorare, quando mi svegliavo in piena notte, guardavo video e sentivo che il terrore svaniva. Sono riuscito a indirizzare la mia paura, scoprendo che anche Elvis ne aveva, e molta».

Che paura aveva Elvis?  «Quella di salire sul palco e di non piacere, è diventato chiaro girando la parte del grande Come back special del  1968,  dopo sette anni di assenza dal palco, un momento in cui tutto era un rischio: sapeva di voler dare meglio di sè».

Un po’ come lei in questo momento? «Se fallisci con il primo film da protagonista  è difficile rialzarti. Ho sentito un’enorme pressione, ma dovevo continuamente tornare sulle emozioni di Elvis, capire cosa faceva strillare il suo pubblico, cosa lo faceva impazzire».

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(continua…)

Intervista pubblicata su Vanity Fair dell’8 giugno 2022

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C’era una volta a Hollywood, di Quentin Tarantino

22 mercoledì Mag 2019

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Brad Pitt, C'era una volta a Hollywood, Cannes 2019, CAnnes 72, DiCaprio, Margot Robbie, Quentin Tarantino

Dopo tanta attesa, poche ore fa sulla Croisette abbiamo assistito all’anteprima mondiale di C’era una volta… a Hollywood di Quentin Tarantino. Nella sala Lumiere, alle 16.30, è stato letto un messaggio ufficiale del regista: “Cari giornalisti amanti del cinema, vi preghiamo di non diffondere dettagli sul film che ne rovinerebbero la visione. Fate che sia la stessa che avete avuto voi”. Solo a lui è concesso di fare certe cose, diciamolo, e non meraviglia, perché per il regista che 25 anni fa ha vinto qui la Palma d’Oro per Pulp Fiction sulla Croisette c’è un tifo da stadio. E alla fine della proiezione si contano sei minuti di standing ovation per lui e il cast presente.

Questo è forse il film più tarantiniano di Quentin Tarantino, che ne è regista, scrittore e produttore. Ci ha messo dentro il suo adorato western e il cinema dei generi, i suoi ricordi da giovane, le serie tv di culto come FBI, i produttori, le star di un tempo, i set di Hollywood. A distanza di poche ore da Nicolas Bedos, che anche lui con il suo ottimo La belle Epoque ci ha fatto vedere il cinema dentro il cinema.

L’ambientazione, senza spoilerare, è nel 1969 e precede noti fatti criminali  avvenuti a Hollywood. La storia ruota intorno a Rick Dalton (uno straordinario Leonardo DiCaprio), idolo della tv, che vive un momento di cambiamento  nella carriera. Al suo fianco c’è il compagno storico, il suo stunt Cliff Booth, interpretato da Brad Pitt (un figurino, con abbronzatura californiana). I due sono molto amici e cercano di cavarsela nell’ultima fase della golden age di Hollywood, con Rick che vive in una casa sulle colline e ha come vicini di casa i Polanski, mentre Cliff ha come dimora una roulotte con il cane e la tv. Dopo aver girato un grosso western, Rick accetta di andare in Italia a girare lì quattro film con Sergio Corbucci (che Tarantino ama e che ha omaggiato con Django). Torna quindi a Los Angeles con moglie italiana e un bel po’ di soldi. Una volta a casa lui e Cliff si ritrovano per una memorabile serata di sbronze che culmina in un tripudio di cinema destinato a passare alla storia (e che non riveleremo per rispettare la richiesta del regista).

Il racconto è pieno di salti temporali, in avanti e indietro, e come al solito porta cambiamenti alla storia. Sul set si incrociano personaggi favolosi interpretati da Al Pacino, Dakota Fanning, Kurt Russell, e Luke Perry poco prima della sua scomparsa. Per godere della presenza di tutti occorrerà aspettare il 19 settembre, mentre gli Usa anticipano al 26 luglio, esattamente  a distanza di 50 anni dai terribili fatti di cronaca che racconta.

Leggi cosa mi è piaciuto del film e cosa meno nel mio articolo per GQ.it

Pubblicato il 22 maggio 2019

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James Marsden, «Il tempo rende migliori»

17 mercoledì Apr 2019

Posted by cristianaallievi in cinema, Lusso, Moda & cinema, Personaggi

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Al Pacino, Brad Pitt, C'era una volta a Hollywood, interviste illuminanti, IWC, James Marsden, Laureus, Leonardo di Caprio, Montecarlo, Quentin Tarantino, Sport

L’evoluzione di James Marsden, l’uomo che dalla trilogia di X-Men e Superman passa direttamente a Quentin Tarantino.

«Grazie per non avermi chiesto quale supereroe vorrei essere nella vita». La fine della conversazione con James Marsden illumina tutto ciò che è venuto prima. Siamo a Monaco, dove ha appena presentato la Laureus World Sports Awards, la notte degli Oscar dello Sport. Un universo a cui è stato introdotto dal marchio del lusso IWC, «da cinque anni sono come una famiglia per me, e voglio guardare alla mia carriera con lo stesso orgoglio con cui loro guardano alle loro creazioni».  46 anni e altrettanti film all’attivo, è stato uno degli eroi della trilogia di X-Men e di Superman. Ma invece di una conversazione su sport e cinema, come ti aspetteresti da un uomo con il suo fisico, gli occhi color blu mare e i denti di un bianco scintillante, lui rilancia. E snocciola visioni esistenziali più ampie, passando dal baseball ai suoi tre figli, senza schivare il doloroso divorzio, (anche se preferisce non menzionare la parola). Dettagli che spiegano come mai uno come Quentin Tarantino lo abbia voluto in C’era una volta ad Hollywood, il film in cui lo vedremo a fine agosto accanto a Leo DiCaprio, Brad Pitt e Al Pacino.

Che sport ha praticato, da ragazzo? «Sono cresciuto in Oklahoma, lì c’erano molto basket, calcio e baseball. Io ero piccolino di statura in confronto a quei giganti del Midwest, e finivo spesso nelle linee laterali. Ma a dire il vero all’epoca mi interessavano più l’arte, il teatro e la musica. È stato dopo il liceo che ho iniziato ad appassionarmi davvero allo sport, scoprendo di essere molto portato».

E cosa è successo? «Sono diventato molto competitivo, il mio ego è uscito allo scoperto. Le dico solo che la mia fidanzata oggi non vuole nemmeno fare un gioco di società con me, dice che devo sempre vincere». 

Le sue più grandi conquiste, fino a qui? «I miei tre figli, la ragione per cui faccio tutto quello che faccio. Imparo tanto quanto insegno loro, se non di più, essere padre è il cuore della mia identità. Il più grande ha 18 anni, in lui vedo il buono che c’è in me».

Cosa l’ha sorpresa di più di loro, fino a oggi? «Io e la mia ex moglie, con cui oggi c’è per fortuna una buona amicizia, li abbiamo cresciuti tutti allo stesso modo. Ma abbiamo dovuto adattarci leggermente a ciascuno di loro, perché arrivano con un codice personale. E soprattutto ti devi ricordare che quando vengono al mondo non sono più tuoi».

(continua…)

Intervista esclusiva per GQ Italia di marzo 2019.

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Tim Roth: «Ero un uomo in pericolo»

02 venerdì Mar 2018

Posted by cristianaallievi in cinema, Cultura, Personaggi, Serie tv

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attore, Icon, Panorama, Quentin Tarantino, Tim Roth, Tin Star, Twin Peaks

RECITARE GLI HA SALVATO LA VITA, SUO PADRE GLI HA SALVATO l’ANIMA. E ORA L’ATTORE INGLESE È PRONTO PER TORNARE DIETRO LA MACCHINA DA PRESA (COME L’AMICO QUENTIN)

«Lei è una di quelle giornaliste che twitta giudizi prima della fine dei film per battere la concorrenza facendo felice il suo direttore?». Scenario numero uno. È rovente, e gli succede quando si parla di cinema, ma soprattutto quando si impossessa di lui il personaggio di membro di una giuria, ruolo che ha ricoperto varie volte nella sua lunga carriera. In queste circostanze diventa l’accusa, e sfodera prove a suo favore. «A Cannes mi è capitato di scendere da un treno e vedere che in rete impazzavano già pareri su un film, quando sapevo con certezza che la proiezione non era ancora finita». Scenario numero due. Interno molto soleggiato, qualche giorno dopo aver visto i primi episodi dell’acclamatissima nuova stagione di Twin Peaks. «Molti anni fa una donna ha capito che ero in pericolo, e ha deciso di salvarmi. Con il contribuito di Samuel Beckett…». Scenario numero tre. Al telefono da New York, poco prima dell’inizio delle riprese della seconda serie di Tin Star, produzione anglo canadese di Amazon di cui è protagonista e che la scorsa stagione ha fatto impazzire l’America. «Un giorno mio padre mi ha portato al pub e mi ha fatto domande su una vicenda molto scura che ci riguardava entrambe. È stato così che abbiamo iniziato a guarire, insieme». Tre sguardi diversi che, messi insieme, fanno intuire i frammenti di un caleidoscopio nell’anima dell’attore e regista inglese che reputa Quentin Tarantino uno di famiglia. Padre giornalista e membro del Partito comunista, madre pittrice e insegnante, da giovanissimo Tim Roth è arrivato in California e oggi vive ancora lì, con moglie e due figli.

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Partendo dall’inizio, perché suo padre ha cambiato il cognome di famiglia lasciando l’americano Smith per l’ebreo Roth? «Non ne ha mai parlato davvero, ma credo che nel periodo della Seconda guerra mondiale qualcosa in lui sia cambiato per sempre. Ha visto cose terrificanti, è entrato in spazi molto bui. Alla fine di quel periodo ha preso un nome ebreo, è stato più un fatto di solidarietà. Era un socialista, è tornato dalla guerra ancora più a sinistra, e approdato di nuovo a Londra ha tradotto i racconti dei soldati italiani in inglese, pubblicandoli sui giornali».

Potrebbe quasi quasi essere una vicenda contemporanea. «Stiamo andando troppo a destra, se è questo che intende. Ma non è una sorpresa, almeno non del tutto. Siamo pilotati dalle grandi corporazioni a cui conviene farci sentire insicuri e in pericolo. E poi ci sono due guerre in Medio Oriente, la situazione in Siria è disastrosa, e il governo inglese ha un ordine del giorno basato sugli stessi obiettivi di Trump, un fomentatore le divisioni».

Perché da giovane ha lasciato Londra per Los Angeles? «Avevo già iniziato una carriera ma in Inghilterra non c’erano fondi per l’arte, il cinema e la tv. Mi hanno offerto un lavoro in Australia, non era un ottimo film ma ci sono andato lo stesso. Mi hanno offerto un film dopo l’altro, poi ho conosciuto mia moglie e oggi mi trovo nel punto della vita in cui ho vissuto più anni in Usa che nel Regno Unito».

A proposito di casa, ha frequentato l’Istituto d’arte, come sua sorella. «Mia madre era una pittrice, mio padre un ottimo illustratore, era normale partire da lì. Ma nello stesso periodo ho iniziato a fare teatro, nella scena pop che mi ha portato fino a Glasgow. Frequentavo classi di improvvisazione e mi sono accorto che mi interessava più sparire lì, per cui dopo un anno e mezzo ho lasciato la scuola».

Ai professori sarà dispiaciuto, so che era un ottimo scultore. «Lavorare la creta e scolpire mi piaceva moltissimo, ma hanno capito e mi hanno sostenuto. Mi hanno detto “prova a fare l’attore, se non funziona ti teniamo un posto qui…”».

Qual è stato l’elemento che ha direzionato la sua vita diversamente, lo ha capito? «È la stessa domanda che ho fatto a una donna molti anni dopo. Gli ho chiesto cosa avesse visto in me, dopo un’audizione. “Una persona in pericolo, un uomo che era meglio afferrare…”, mi ha risposto “. Credo che avesse ragione».

 

[…continua]

L’intervista integrale sul numero di ICON Panorama di marzo 2018

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Samuel L. Jackson: «Io violento? No, mi dipingono così».

16 giovedì Mar 2017

Posted by cristianaallievi in cinema, Miti, Personaggi

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black power, cinema, fashion, Icon, icona, interviste, Quentin Tarantino, Samuel L. Jackson, Skull Island, stile, uomo, Warner Bros

VOLEVA ESSERE IL JACQUES COUSTEAU NERO. E SI SENTE UN PITTORE DELLA RECITAZIONE. CONVERSAZIONE CON UN’ICONA DEL CINEMA CHE HA GIRATO PIU’ DI 150 FILM. E CHE NON TEME DI “SVUOTARE IL SACCO”, NE’ DI SBANCARE IL BOTTEGHINO

«Sono cresciuto nel Tennesse, il clima caldo e umido mi piace moltissimo. Alle Hawaii ci sono ottimi green e io sono un avido giocatore di golf. Inoltre vivendo a Los Angeles apprezzo molto quei quindici minuti al giorno di temporale. Ho vissuto per tre mesi in una casa sull’Oceano circondata da rocce, osservavo i fulmini arrivare dal cielo e sentivo la tempesta che batteva sulle vetrate, era una meraviglia». Siamo sulla terrazza di un hotel nel cuore di Beverly Hills. Dalla strada arriva il rombo delle auto di lusso che scorazzano sulla Sunset Boulevard, mentre questo uomo alto, elegante e dai modi raffinati mi racconta dei viaggi per le riprese dell’ultimo Kong: Skull Island, il film di Jordan Vogt-Roberts nelle sale dal 9 marzo. Ci sono almeno due aspetti che sorprendono incontrando Samuel L. Jackson di persona. Il primo è che l’icona di Spike Lee e Tarantino parla a ritmo di rap. La seconda è che dimostra quindici anni meno di quelli che ha. Nel prossimo film sarà il tenente colonnello Packard che sta per tornare a casa con i suoi soldati alla fine di un conflitto dall’esito non chiaro. Riceve una telefonata con la richiesta di scortare un gruppo di scienziati su un’isola del Pacifico, e sarà la sua ultima spedizione. Jackson si trasformerà in una specie di capitano Achab e King Kong- che sull’isola scopriremo essere un vero re- sarà la sua balena bianca. «Dopo le Hawaii e l’Australia le riprese si sono spostate in Vietnam, e lì ho visto una vera magia», continua. «Hanoi è come essere a New York, ma fatti di crack, e nella campagna circostante trovi una pace speciale. Andavo a lavorare alle cinque del mattino e vedevo centinaia di bambini dirigersi a scuola in bicicletta, gli uomini che si muovevano dalle risaie con i loro bufali d’acqua. Quello stile di vita comune, là fuori, ti da la sensazione che il comunismo non può essere così tremendo. Intendo il comunismo come lo vivono loro». Indossa coppola e giacca di una renna molto leggera, con pantaloni in lino color petrolio, e in poche frasi mi ha già detto tutto del suo mondo: golf, droghe, recitazione e politica sono temi che affronteremo poco dopo. Nel frattempo ho rintracciato il suo terzo marchio di fabbrica: l’attore che ha pronunciato 171 volte e in 27 film la parola “mother fucker” è talmente articolato nella conversazione da far pensare che i dialoghi proverbiali di Jules Winnfield (Pulp fiction), del Maggiore Marquis Warren (The Eightful Eight) o di Purify (Jungle Fever) li abbia scritti lui.

Tra poco vedremo le nuove avventure di King Kong, l’anno scorso era in Tarzan, un’icona del cinema accetta grossi blockbuster solo per denaro? «Scelgo questi film perché erano quelli che volevo vedere da bambino ed erano fatti della stessa materia dei sogni. Da piccolo vuoi stare con Tarzan, vivere nella giungla e vederlo combattere i leoni. È un ambiente piacevole in cui recitare, lo faccio molto volentieri».

Il film visto da bambino che le ha cambiato la vita? «Ne guardavo moltissimi nei weekend. Ero figlio unico, ho sempre fantasticato. Ero costantemente in un altro mondo e in un altro tempo, fino al punto in cui ho capito che non avrei mai vissuto dove mi trovavo, e che sarei stato un altro. Eppure fare l’attore non era realistico per la persona che ero, per chi ero sarebbe stato ipotizzabile diventare avvocato, insegnante o medico».

Invece è finito nel Guinness dei primati per aver realizzato il record di incassi al botteghino: com’è successo? «Ho pensato molto a come sono arrivato qui. Credo che il seme risalga alla sorella di mia madre. Era un’insegnante di arti performative e da molto piccolo ho vissuto in casa sua. Mi vestiva con abiti di scena e io “recitavo”, avevo tre anni. Mi piaceva quando le persone che venivano a trovarla applaudivano e mi dicevano “sei proprio bravo…”. Più avanti, al college, frequentando un corso per parlare in pubblico (consigliatoli per superare una lieve balbuzie, ndr), l’insegnante mi ha offerto di recitare L’Opera da tre soldi e io ho accettato. Mi ha appassionato così tanto da darmi di nuovo una ragione per entrare in classe».

Era uno che marinava? «Spesso e volentieri, ma da quel momento mi sono sentito incoraggiato, ho percepito la serietà di quello che facevo e la chance di una carriera anche per me. È stata la luce in fondo al tunnel».

Proprio ai tempi del teatro fumava erba, beveva e usava l’LSD. «Ero fuori di testa per la maggior parte del tempo, ma avevo una buona reputazione, ero sempre in orario e sapevo le battute alla perfezione. Però avevo un problema di dipendenze ed ero stufo, è così che ho deciso di disintossicarmi. Nel mezzo della riabilitazione ho capito che avevo fatto tutto quello che mi era stato detto di fare, bevevo alle feste perché la gente di teatro lo fa, e poi perché i famosi si devono comportare così e così, ma io avevo una mia individualità. Mi sono detto “e se dessi il meglio di me, senza usare nessuna sostanza, cosa succederebbe?”. All’improvviso è cambiato tutto».

Non ha più sgarrato? «No perché ho compreso che essere sobrio ed essere me stesso erano due cose correlate, e che sgarrare avrebbe significato tornare a vivere come vivevo prima. Essendo chiaro cosa preferivo, non c’è più stato pericolo».

In Django Unchained ha incarnato il personaggio nero più detestabile della storia del cinema, e in genere sembra avere una specie di predilezione per i personaggi intelligenti con una forte inclinazione per la violenza: da dove viene questa attitudine? «Non so se i personaggi sono davvero intelligenti, di sicuro ce ne sono alcuni più intelligenti di altri. Osservo molto come si comportano le persone, lo faccio mentre guido, viaggio, cammino. Leggo moltissimi romanzi, saggi e science fiction, mi piace prendermi la libertà di immaginare il livello di istruzione e di intelligenza di una persona, captare se ho davanti un uomo di mondo, un viaggiatore, se ha avuto esperienze militari e quanto è sofisticato. È in base a questi elementi che decido di dare più o meno comprensione e compassione ai miei personaggi, li costruisco per poi incarnarli».

Definirebbe Tarantino è un regista “violento”? «La violenza è un ingrediente dei suoi film, ma c’è anche molto altro. Con lui si filosofeggia parecchio, le persone raccontano molto di sé, come si sentono, come vedono il mondo e tutti sembrano avere un punto rottura, cose o persone che non tollerano. E agiscono proprio su quello, in modo molto peculiare. La forza viene loro dall’avere un certo punto di vista».

Qual è il confine tra la forza e la violenza? «Una certa dose di contenimento mista a compassione per gli esseri umani. Una persona normale non assalirebbe fisicamente un suo simile perché capisce le conseguenze di ciò che fa. Questo include la comprensione di diversi aspetti, che non devi fare male all’altro, che il corpo ha una certa dose di fragilità, che le tue azioni hanno delle conseguenze. La comprensione e una certa compassione per la condizione umana segnano quel confine, e i valori della persona determinano se cadrà preda della furia cieca o meno».

In che modo gestisce gli impulsi violenti? «Non ne ho. Mi arrabbio, ma non ho mai dato un pugno in faccia a nessuno, né ho sentito il bisogno di sparare a qualcuno o fargli del male perché non riesco a fargli capire qualcosa. Eppure la gente mi insulta quotidianamente. Sono su Twitter e FB, e tutti si sentono in dovere di dirmi quello che gli passa per la testa. Ma non reagisco mai in modo duro, non alimento l’attenzione che vogliono».

La sua attitudine verso la sensibilità e la fragilità, invece? «Sono sensibile verso la gente che mi tratta diversamente, non voglio si pensi che mi aspetto un trattamento privilegiato. La fama ha aspetti positivi, non fai la coda per prendere un aereo o entrare in un ristorante, puoi guidare la tua macchina fino alla porta di un locale invece di arrivarci a piedi. Ma sono attento al mondo che mi circonda e so di poter usare la mia notorietà per creare un certo livello di consapevolezza. La gente non sopporta che gli attori abbiano visioni politiche, ma devo difendere quello in cui credo, e sono sempre stato un animale politico».

È vero che ha lasciato il college per un anno, è stato membro delle Black Panthers, l’hanno sospesa dal Morehouse College per aver preso in ostaggio alcuni membri del Consiglio di fondazione- tra cui il padre di Martin Luther King– finchè un giorno l’FBI non è venuta a casa di sua madre per dirle che ha rischiato che le sparassero? «Mi sono occupato di diritti civili ma non sono mai sto membro della Pantere Nere, anche se le ho sempre capite. Sono nero e lo sono da sempre, sono sensibile ai problemi razziali che non sono mai stati circoscritti né a un certo periodo storico né a una zona del mondo. Le razze sono sempre state un problema, lo sono tutt’ora».

Condivide l’opinione secondo cui con Obama le cose sono peggiorate? «No, se ne è solo parlato di più perché molte persone non sono state contente di avere un presidente nero. Fuori da questo paese avete pensato che fosse fantastico che l’America fosse finalmente abbastanza cresciuta da eleggere un presidente di colore, si sarebbe pensata la stessa cosa se avessimo scelto una donna per la Casa Bianca».

Invece? «L’America non ama le donne al comando, a prescindere dal fatto che la Clinton sarebbe stata ideale o meno. Ma il problema è che di Obama la prima cosa che è stata vista non è la sua intelligenza: hanno detto subito “wow, è un presidente nero”. Questo è il seme del razzismo».

 Su Twitter Trump ha detto di non conoscerla, ma pare non sia vero. «Abbiamo giocato a golf insieme due volte».

Perché lo nega? «È semplicemente la natura di quello che fa, crea una sua versione dei fatti. Uno potrebbe pensare che non se lo ricordi, invece lo ricorda benissimo».

C’è qualcosa che si aspetta da lui? «No, e credo che non mi occuperò di questioni politiche per un po’. Vediamo cosa succede».

Il King Kong del suo prossimo film è stato descritto come una bestia ferale e un essere incompreso. Ma è anche un re che se ne sta per i fatti suoi, sulla sua isola è una specie di dio: lei si sente un po’ così, a Hollywood? «Chi, io? (scoppia a ridere, ndr) ».

In 40 anni di carriera ha girato 150 film. «Vado a lavorare tutti i giorni perché sento che è quello che devo fare e soprattuto che amo fare. Il mio lavoro mi nutre, e non credo siano in molti a poterlo dire del proprio. In realtà non vedo nemmeno quello che faccio come un lavoro, ma come il privilegio di poter uscire e creare qualcosa. Come un pittore e uno scrittore, ho l’opportunità di raccontare storie e fingere di essere qualcun altro».

Ha girato anche cinque film in un anno, per caso è un workaholic? «Quando un pittore finisce un quadro e lo mette ad asciugare non aspetta tre mesi per passare a un altro, perchè dovrei farlo io? Il mio bisogno di creare, a modo mio, è appunto un bisogno. Posso finire un film un giorno e andare su un nuovo set il giorno dopo, senza problemi».

Non sente mai il bisogno di cazzeggiare? «Normalmente a luglio non lavoro, volo da voi in Italia o in Francia. Adoro Capri, Napoli e la riviera, mi piace spingermi giù, fino verso la Sicilia».

È vero che sognava di lavorare in mare? «Prima di quel corso in teatro volevo diventare il Jacques Cousteau nero. Adoro nuotare e mi piace guardare documentari sull’oceano. Credo che sia la nostra prossima forma di vita sostenibile. Stiamo distruggendo la terra, spero non faremo lo stesso con il mare…».

Storia di copertina pubblicata su Icon Panorama di marzo 2017.

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Viggo Mortensen: «Viaggio nella vita come nei miei film»

14 martedì Apr 2015

Posted by cristianaallievi in cinema

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Aragorn, Argentina, Buckethead, Captain Fantastic, Guns N’ Roses, Henry Blake Mortensen, Hole in the sun, Jauja, Loin des Hommes, Quentin Tarantino, San Lorenzo de Almagro, Viggo Mortensen

Cerca luoghi estremi, intensi e isolati, che lo facciano star bene. Proprio come Aragorn, l’alter ego che lo ha reso famoso. Proprio come Viggo, esploratore di esperienze, affamato di vita: fotografa, dipinge, scrive poesie e recita. Tutto insieme, «perché la vita è breve e questo limita l’esperienza. Io cerco di fané il più possibile», ha dichiarato. Per spiegare che tra le arti non ci sono distinzioni. Come nel mondo non ci dovrebbero essere frontiere. 

Viggo Mortensen, 57 anni, attore, fotografo, musicista e poeta.

Viggo Mortensen, 57 anni, attore, fotografo, musicista e poeta.

Se hai una madre americana e padre danese, e i due si incontrano sciando in Norvegia, nelle vene ti scorre già un destino. E nel caso di Viggo, nato a Manhattan 55 anni fa, maggiore di tre fratelli, si sdoppia tra realtà e schermo. Si ritrova a frequentare le elementari in Argentina, ma studierà all’Università negli Stati Uniti e poi farà il poeta-operaio di fonderia in Danimarca. Un pezzo più in là, naturalmente, eccolo attore a Los Angeles. Anche sullo schermo, quello del viaggiare è un marchio di fabbrica. La carriera inizia a metà anni Ottanta, appena terminato il college, e nel 1991 inizia ad attirare l’attenzione: sigaretta in bocca, petto nudo e aria da Richard Gere, Sean Penn lo sceglie per il suo esordio alla regia in Lupo solitario. Ma la svolta planetaria è con quel Viggo-Aragorn che inizia a viaggiare in Il signore degli anelli e non si fermerà più. L’attore feticcio di Cronenberg si presenta all’intervista di Icon con un look da rocciatore, camicia a quadretti sdrucida e un paio di pantaloni cargo che lo sono altrettanto, con tanto di sacchetto della spesa in mano. Ma guai a credere al suo look shabby: Mortensen sa che l’immagine è una lama a doppio taglio su cui scorre in modo molto prudente, da sempre, ma sa anche molto bene di potersi fidare del proprio fascino ruvido. E poi ha una predilezione per i film d’autore, sfoggia un film più sofisticato dell’altro, e questo parla per lui. Gli ultimi arrivati (ancora inediti in Italia, speriamo per poco) sono Jauja, di Lisandro Alonso, in cui guarda il caso cammina per giorni e giorni tra le rocce della Patagonia, praticamente da solo. Il secondo è Loin des Hommes di David Oelhoffen, di cui è anche produttore, e in cui fa il maestro di scuola di sangue misto, in Algeria, nel 1954. Anche nell’ultimo lavoro, di cui ha da poco terminato le riprese, Capitan Fantastic, fonde due tratti importanti della sua personalità: quella di padre e quella di viaggiatore-filosofo. Guai a togliergli Socrate, la parte che è più rintracciabile nel sito della sua casa editrice, la Perceval Press. Ma non provateci nemmeno con Martin Cauteruccio, attaccante della squadra argentina San Lorenzo de Almagro, la squadra a cui dedica un intero blog (www.sobrevueloscuervos.com).

1991, mostra le sue qualità in Lupo solitario, il debutto alla regia di Sean Penn. 2015, finite le riprese di Captain Fantastic, in cui è ancora una specie di lupo solitario, ma con sei figli. «È la seconda volta che lavoro con Matt Ross, e in effetti interpreto un padre idealista che vive con i suoi ragazzi in una foresta del Pacifico dell’Ovest, per dieci anni. Ma a un certo punto devo tornare nella civiltà, diciamo così (sorride, ndr)».

Anche lei è noto per preferire la natura allo star system… «Anche prima di diventare attore ho sempre gli animali, i cavalli, stare all’aria aperta, fare amicizia con i cani per strada, sono sempre stato così in realtà. Ma è vero, questo mondo ha peggiorato le cose, mi ha fatto venire voglia di starne sempre più alla larga (ride, ndr)».

L’ufficiale danese che vaga per le lande desolate della Patagonia del bellissimo Jauja (per girare il quale ha rifiutato un ruolo in The Hateful Eight di Tarantino) ricorda per molti aspetti Aragorn, il re avventuriero de Il signore degli anelli. Passano gli anni, lei è sempre in viaggio. «(ride, ndr) Da bambino ero molto preso da romanzi d’avventura, racconti di Vichinghi ed esploratori, vivere con un coltello nella cintura era il mio sogno. Ho anche vissuto nei boschi, e in generale in molti luoghi selvaggi, mi fa stare bene e ogni tanto lo faccio tutt’ora. So cacciare e pescare, quando mi hanno presentato Aragorn come un cacciatore della terra di mezzo ho detto “perché gli volete far uccidere i cervi con la spada?”. Sono stato io a chiedere un arco e un coltello… In pratica le sto confessando che Aragorn ero io (ride, ndr)».

Le terre di Jauja le sono familiari. Era piccolo, quando suo padre ha trasferito la famiglia in Sud America e in Argentina, cosa ricorda di quel mondo? «La fattoria in cui mio padre coltivava prodotti agricoli ed allevava bestiame. In quei luoghi ho imparato ad andare a cavallo, gli odori, il clima, il tempo, tutto mi è molto famigliare, ho ricordi fortissimi. Se vuole, la sfida è stata proprio interpretare un personaggio che vuole scappare da quella terra, per tornare in Danimarca».

La cosa più strana che ricorda dell’Argentina? «L’ironia delle persone. I danesi e gli argentini hanno qualcosa in comune, se per esempio qualcuno esce di casa e piove, urla “paese di m…” (ride, ndr), anche se si tratta solo di due gocce… All’estero tutti ridono di questa follia».

Lei parla sette idiomi, e ormai recita in qualsiasi lingua originale. «A parte inglese, italiano, francese, norvegese e svedese, parlo lo spagnolo come lo parla mio padre, bene ma con un certo accento. Invece il mio danese assomiglia a quello di mio nonno. Era un contadino, è il motivo per cui io sono un uomo vintage (sorride, ndr)».

I suoi viaggi sullo schermo sono spesso anche viaggi interiori. Come l’ha cambiata, il continuo peregrinare? «Credo siano molti gli attori che hanno avuto un’infanzia movimentata, nel senso letterale del termine. A livello inconscio facciamo questo mestiere per continuare a vivere così, vedendo cose diverse, culture distanti da loro. Un aspetto che ha anche a che fare con il non saper stare fermi, indubbiamente».

Più si viaggia, più si diventa? «Flessibili, ed è una buona cosa. I passaporti, le bandiere, le divisioni sono idee stupide, occorre una mente più aperta».

In che modo si sente diverso, quando viaggia? «Sono più attento, osservo di più. Anche se, paradossalmente, torno spesso in luoghi già visti, noto che cambiano. Come fotografo dico sempre che tutto è già stato immortalato, entri in libreria e c’è già tutto, dai paesaggi minimalisti ai fotoritocchi più spinti. Lo stesso si potrebbe dire dei film, del sesso, dei dipinti, delle emozioni, ma è il punto di vista che cambia le cose. Ho fotografato centinaia di volte una piscina, negli anni Novanta, ho finito col pubblicarci un libro, tante erano le cose diverse che sono riuscito a rintracciare (Hole in the sun, ndr)».

 Che tipo di luce preferisce, da fotografo? «Dipende da quello che voglio fare, anche essere artificiali e carichi, come i western degli anni Cinquanta, può avere un valore aggiunto… Il modo in cui guardi le cose e la tua sensibilità dipendono molto da dove sei cresciuto. Ci sono zone del mondo in cui non userebbero mai luci “dure”, né certe inquadrature».

Ad esempio? «Solo nel nord Europa cercano una logica nell’uso della luce, e anche del tempo lineare. Vedi tutte le cose in ordine, con una spiegazione dall’inizio alla fine… Alla mia età ho capito che non serve a niente cercare di capire tutto, le cose vanno bene anche quando non si capiscono (ride, ndr)».

I luoghi cosa sono? «Posti reali o anche di più, incarnazioni di un’idea, evocazioni di soddisfazione, di un certo feeling, di una contentezza, di tranquillità…».

In passato ha scritto musiche sperimentali con Buckethead, ex chitarrista dei Guns N’ Roses. Di Jauia firma addirittura la colonna sonora, e propone una musica minimalista e incisiva… «Ho mandato delle idee a Lisandro, mi ha chiamato subito chiedendomi se poteva usarle. Erano cose mie, libere da diritti, non potevo che esserne lieto. Il suono in generale è jazz, ho usato quell’atmosfera per raccontare il mio personaggio, che vaga in un paesaggio sconfinato. Mi piace l’idea di spingere lo spettatore in un altro spazio, in un’altra dimensione, con delle note».

All’improvviso si sentono una chitarra elettrica, un organo… «E anche qualche nota di pianoforte (ride, ndr). In una creazione l’importante è che tutto venga da uno spazio organico e sincero, in cui non senti che qualcuno – di solito il regista – ti sta dicendo “Guarda quanto sono bravo…”. Odio le cose pretenziose, e anche la musica è un modo per far sentire come la si pensa».

Pittura, fotografa, recita, scrive poesie: cosa sceglierebbe, se obbligato? «Non distinguo, per me sono la stessa cosa. La vita è breve e questo limita l’esperienza, io cerco di farne il più possibile e ho la sensazione che il mio lavoro migliori, con questa modalità. Oggi sovrappongo meno le cose di quanto non facessi un tempo, perché ho meno energie: faccio una cosa alla volta e non con il senso di urgenza di una volta».

Un dipinto di Mortensen (courtesy of www.angelfire.com)

Un dipinto di Mortensen (courtesy of http://www.angelfire.com)

Cos’è lo stile? «Saper ascoltare gli altri è parte delle buone maniere. Spesso le persone sembrano ascoltare, ma non è vero. Mi capita di vedere uomini che aprono la porta a una donna, ma lo fanno per l’immagine, non gliene frega niente di lei, è un gesto senza nessuna sostanza».

La mancanza di stile? «È molte cose, in una relazione per esempio, che sia fisica, emozionale o entrambe le cose, è quanto sei interessato solo a te stesso e alla tua esperienza».

Ha definito più volte suo figlio Henry Blake, nato dalla sua ex moglie Exena Cervenka, come la persona che stima più al mondo. La vostra avventura più memorabile, insieme? «Ho girato un film con un attore giapponese che mi ha regalato un grande Godzilla di plastica. Henry è diventato matto, era ossessionato al punto da voler imparare il giapponese. Era pasqua, siamo partiti insieme, volando fino a Sapporo. Nessuno parlava una parola d’inglese, dopo una lunga e complicata negoziazione mi hanno dato una macchina a noleggio. Ma anche la cartina era in giapponese, si immagina?».

Come siete sopravvissuti? «Abbiamo trovato l’autostrada e anche il modo di pagare (ride, ndr), ma confondevamo un posto con l’altro, siamo finiti in mezzo alla neve, nel nulla, sulle montagne, a fine stagione, senza nessuno! In tutto questo Henry mi guarda e mi dice, seccatissimo: “ti sei perso, papà…”. E io, “No caro, ci siamo persi!”. Nonostante questo lui è rimasto molto leale a quella gente e a quella civiltà, mentre io inventavo tremende barzellette su di loro (ride, ndr). Siamo stati due pazzi, ma ci siamo divertiti moltissimo…».

pubblicato su Icon, Aprile 2015

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Agnes B.,«Vi racconto i bambini che non hanno mai visto il mare»

04 domenica Gen 2015

Posted by cristianaallievi in Moda & cinema

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Tag

Agnes B., Basquiat, cinema, Cristiana Allievi, David Lynch, incesto, Io donna, Je m'appelle hmmm..., Moda, Quentin Tarantino

Ha iniziato vendendo le sue creazioni al mercato delle pulci, oggi ha un impero da 332 negozi. Poi, a 70 anni, Agnes B. ha girato il primo film. Che parla di una fuga da un incesto. E di avventure on the road, come racconta lei stessa 

AgnesB

La stilista e regista Agnes B. (Photo courtesy of agnes b. & Patric Swirc)

Céline ha 11 anni e un padre incestuoso e disoccupato. Così, alla prima occasione, scappa di casa, finendo sul camion di un autista scozzese che ha perso moglie e figlie. I due avranno un’avventura on the road dagli esiti imprevedibili. Lascia di stucco, l’esordio alla regia di Agnes B. – Agnès Troublé fuori dalle passerelle e dalle sue boutique. Je m’appelle Hmmm… è un film forte, girato tra la sua vera casa, Bordeaux e le spiagge di Biarritz. La cosa non dovrebbe sorprende, in effetti. Nata e cresciuta a Versailles in una famiglia borghesissima, a 21 anni Agnes aveva già alle spalle un matrimonio con un editore più vecchio di lei e due figli. Senza un soldo in tasca, scovata da una redattrice di Elle al mercato delle pulci, con le sue creazioni di moda e il suo stile solido e libero ha creato un impero: 332 negozi tra gli Usa e il Giappone, una casa di produzione cinematografica, un atelier e tre gallerie d’arte. Quentin Tarantino ne ha immortalato gli abiti in Pulp Fiction e Reservoir Dogs ed è un suo fan. Basquiat la adorava, lo stesso dicasi per artisti contemporanei che ha sostenuto di tasca propria, come i registi Claire Denis a Gaspare Noé, passando per l’eccentrico Vincent Gallo. La incontro in un hotel nel cuore di San Pietroburgo, per parlare di cinema, moda e vita, in occasione dell’International Media Forum in cui ha presentato il suo film che è in giro per i festival del mondo. In nero integrale, capelli biondo miele, mi colpisce subito per quel calore che emana e un senso di empatia verso il genere umano.

L’incesto come tema del proprio esordio registico: una scelta che lei fa a testa alta. «Ho scritto personalmente la storia, ci ho messo dieci anni. La cosa che mi ha colpita di più è che il film è esattamente ciò che ho scritto e che volevo raccontare. Non ho più produttori alle spalle e faccio davvero le cose spontaneamente. E non avendo fatto una scuola, non ho il senso di cosa si può fare o meno, sono molto libera».

La storia che racconta nel film la riguarda personalmente? «Diciamo che ne ho esperienza, ma non è stato con mio padre, né sono scappata, come fa Céline nel film. Leggo Le monde ogni giorno, sono storie frequenti anche se le persone non vogliono parlarne».

Visivamente molto sofisticato, il suo lavoro alterna stati onirici a una natura straordinaria, musica contemporanea di David Daniels e Sonic Youth e arie d’opera. «Sono figlia di Godard, la relazione tra suono e immagine è molto importante per me. Ho sempre fatto la fotografa e ho girato corti per raccontare le mie collezioni, non sono pubblici perché i diritti valgono solo per una stagione, poi non puoi più mostrare le modelle. Ne avrò almeno 25 all’attivo, è così che ho imparato a girare, devo moltissimo alla mia piccola macchina da presa giapponese, una Harinezumi che non mi lascia mai».

La scena dei danzatori di Butoh, tutti bianchi, immersi nella foresta, è un altro omaggio al Sol Levante? «In realtà quell’immagine viene dalla mia infanzia. Sono nata e cresciuta a Versailles, nel parco c’erano tutte quelle statue bianche. Ricordo che un giorno le ho immaginate mentre si muovevano, una visione che evidentemente non mi ha abbandonata».

Ha una predilezione per il blu? Si rintraccia nelle auto come nei mobili, ma anche nella casa della nonna della bambina… «Quella che cita è casa mia e il tavolo che si vede è del mio studio! I colori che preferisco sono il rosso e il blu pallido. Volevo una grande differenza cromatica tra la vita della bambina e quella della donna adulta».

 La natura e la strada hanno una parte enorme nella sua visione. «Sa che in Francia il 25 per cento dei bambini non ha mai visto il mare? Da non credere. Quando viaggiavamo e avevo solo 10 anni mio padre mi metteva nel sedile accanto a lui, non è un caso che la strada e l’osservare le cose mi affascinino così tanto».

Si può dire che in strada sia nata la sua fortuna. «Avevo 20 anni, senza un soldo in tasca, mi vestivo mischiando pezzi di Monoprix. Un giorno, al mercato delle pulci, qualcuno di Elle magazine mi ha visto e ha detto “lei è vestita in modo bizzarro…”, e mi ha portata al giornale. Tutto è incominciato così».

Oggi grandi artisti indossano i suoi capi. «Sono 25 anni che David Lynch sceglie maglie e giacche disegnate da me, e Tarantino mi chiede di rifargli le stesse giacche di Pulp Fiction, le consuma (ride, ndr)».

A quarant’anni dall’apertura della sua prima boutique, a Parigi, saprebbe dire qual è il suo talento? «Mi è sempre piaciuto aiutare le persone a sentirsi bene, all’inizio stavo personalmente in negozio per questo. Ma dovremmo parlare di più del talento, e di come usarlo, oggi sento solo la parola “fama”… Le persone che credono troppo in se stesse di solito non sono le più dotate, del talento di cui sopra. Chi dubita è meno arrogante».

Da dove viene la sicurezza che trasmette? «Da una natura molto positiva e serena, mi piace ridere e parlare con i miei amici. E quando esco non è per fare shopping, non voglio sapere cosa propongono gli altri, voglio restare libera. Sa che non ho mai fatto una pubblicità in vita mia, per Agnes B.?».

In un’epoca di narcisismo sfrenato, il suo è un comportamento vintage. «La stampa mi ha sempre aiutata, in Giappone come in Cina, forse perché hanno visto qualcosa di diverso, la possibilità di uno stile che le persone creano da sole, abbinando come vogliono quello che propongo. Amo i capi che durano una vita e non mi piacciono le cose troppo costose, che poi si usano due volte… Ma più di tutto, mi piace che la gente abbia fiducia in me».

Io Donna,  14 dicembre 2014

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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La locandina del film di Agnes B., Je m’appelle hmmm… (courtesy of allocine.fr)

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