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Cristiana Allievi

~ Interviste illuminanti

Cristiana Allievi

Archivi della categoria: Cannes

Tom Cruise – L’avventura, le sale e il seguito di Top Gun

19 giovedì Mag 2022

Posted by cristianaallievi in arte, Attulità, Cannes, cinema, Miti

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Cannes 75, Cristiana Allievi, Eyes wide Shut, interviste illuminanti, l'ultimo samurai, Maverick, Tom Cruise, Top Gun, Vanity Fair

«Da bambino ho sempre fatto cose pericolose, scrivevo storie, mi arrampicavo sugli alberi». Incontro con la star al Festival di Cannes, dove ha presentato il sequel del film cult

di CRISTIANA ALLIEVI

19 MAGGIO 2022

(L’attore e produttore statunitense Tom Cruise, courtesy Reuters)

«A quattro anni e mezzo ho preso le lenzuola del mio letto, sono salito in cima al tetto e mi sono buttato usandole come paracadute. Ho preso una botta pazzesca in faccia e le lenzuola erano tutte sporche, immaginarsi la gioia di mia madre, con quattro figli… Ho sempre voluto fare le cose, era impossibile fermarmi». Un destino delineato, quello che emerge dalle parole della più grande star del cinema del mondo: Tom Cruise.

(continua…)

Articolo pubblicato su Vanity Fair Italia

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Drive to Oscar, Ryusuke Hamaguchi

22 martedì Mar 2022

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cinema giapponese, Cristiana Allievi, Drive my car, Hamaguchi, interviste illuminanti, Oscar, Oscar 2022, Vanity Fair

CON IL SUO ROAD MOVIE, IL REGISTA GIAPPONESE È CANDIDATO A QUATTRO STATUETTE. IN GARA ANCHE CONTRO PAOLO SORRENTINO

di Cristiana Allievi

Reika Kirishima e Hidetoshi in una scena di DRIVE MY CAR, candidato a 4 Oscar.

A un certo punto dell’intervista mi dice «dell’Italia conosco tre città, Milano, Bologna e Roma». Pronuncia i nomi con un accento impeccabile, e poco dopo scopro anche quanto sia legato al nostro cinema. Il nome di Ryusuke Hamaguchi per ora non è altrettanto noto agli italiani, ma le cose cambieranno quando (con buone probabilità) lo sceneggiatore e regista giapponese sfilerà l’Oscar per il Miglior film straniero al nostro Paolo Sorrentino. Il suo road movie dell’anima, Drive my car, è già stato premiato per la miglior sceneggiatura all’ultimo Festival di Cannes.  In comune con È stata la mano di Dio ha il tema, un trauma importante da superare, e una fotografia magnifica (ma dura ben 40 minuti in più). Sguardo intelligente e una statura intorno al metro e ottanta, finalmente lo incontro dopo averlo inseguito per giorni. in jeans e maglione blu, si scusa per essere in ritardo di tre minuti (netti) al nostro incontro. Mi ringrazia per l’interesse nei suoi confronti accennando a un inchino. Ma mentre i suoi arigato sono accompagnati da sguardi occhi negli occhi, quando la parola passa a me i suoi occhi si posano altrove. Il perché si capirà verso la fine dell’intervista. Tratto da un racconto di Murakami Haruki, Drive my car (cheha già vinto i Golden Globes come Miglior film straniero) vede un attore e regista di teatro che fatica a superare la perdita della moglie. Una giovane donna arriva a fargli da autista, e insieme macineranno chilometri e confidenze sulle loro vite, che si riveleranno diverse da come sembravano.

Come ci si sente con quattro nomination agli Oscar? «Sono un evento completamente inaspettato che mi ha sinceramente sorpreso. Non so come affrontare la situazione».

Come ci si sente con quattro nomination agli Oscar? «Sono un evento completamente inaspettato che mi ha sinceramente sorpreso. Non so come affrontare la situazione».

(continua…)

Intervista pubblicata su Vanity Fair 23 Marzo 2022

©Riproduzione riservata

Sophie Marceau, Il tempo delle scelte

14 venerdì Gen 2022

Posted by cristianaallievi in Attulità, Cannes, cinema, Miti, Personaggi, Senza categoria

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È andato tutto bene, eutanasia, Francois Ozon, Il tempo delle mele, interviste illuminanti, Sophie Marceau, Vanity Fair

NEGLI ANNI OTTANTA CI HA CONQUISTATI CON IL PRIMO BACIO. ORA AL CINEMA SOPHIE MARCEAU CI FA RIFLETTERE SULL’EUTANASIA. MA IL TEMPO NON L’HA CAMBIATA (O FORSE L’HA MIGLIORATA)

di Cristiana Allievi

L’attrice e produttrice Sophie Marceau come l’avevamo conosciuta nel film cult degli anni Ottanta, Il tempo delle mele. Si racconta nell’intervista uscita su Vanity Fair il 5 gennaio 2022.

Si avvicina con passo deciso. Quando me la ritrovo davanti fatico a credere che abbia 55 anni: ne dimostra dieci di meno. Avvolta in un tailleur color panna,  l’attrice che negli anni Ottanta era l’idolo delle ragazzine grazie a Il tempo delle mele, accavalla le gambe in un modo che riesce solo alle dive francesi. Tra i suoi fan più appassionati c’è persino il regista Francois Ozon, che è riuscito ad averla in un suo film al terzo  tentativo.  La vedremo dal 13 gennaio in È andato tutto bene, adattamento del bellissimo libro di Emmanuèle Bernheim (Einaudi) in cui l’autrice condivide una parte di storia personale vissuta con suo padre. In Concorso all’ultimo festival di Cannes, il film vede Marceau interpretare la figlia di un uomo pieno di carisma e di successo, che però è stato un pessimo genitore. E dopo aver scoperto di essere malato,  le gioca un ultimo colpo basso chiedendole di aiutarlo a morire.

Francois Ozon l’ha inseguita per anni. «In realtà prima di questo progetto ci eravamo incontrati di persona solo altre due volte. Non ho mai accettato di recitare per lui perché non mi sentivo a mio agio nei ruoli che mi proponeva. Ma amo i suoi film dal primo che ha diretto (Sitcom, la famiglia è simpatica, del 1998, ndr). Quando mi ha mandato la sceneggiatura di È andato tutto bene mi ha colpita la nettezza, quel non perdersi nelle emozioni.  Abbiamo girato per due mesi, e anche se da attrice non sai mai quale sarà l’esito del tuo lavoro la collaborazione con Francois è stata perfetta».

Avete discusso di eutanasia, prima di girare questo film? «Certo, è importante sapere come la pensa un regista perché si possono vedere le cose molto diversamente.  Ho provato ad approcciare il tema dal lato psicologico, visto il tema. Ma lui mi rispondeva “si ok, che cosa stavamo facendo?”. Ozon è un uomo che vede e capisce tutto, ma è di poche parole». 

Però la ama: ha addirittura inserito nel suo lavoro precedente la scena de Il tempo delle mele in cui Pierre Cosso le mette le cuffiette del walkman… «Non lo ha fatto per me, semplicemente perché era innamorato dell’epoca incarnata dal film. È stata la nostalgia di quando eravamo giovani a ispirarlo, sappiamo tutti di cosa si tratta».

Oggi come vede Il tempo delle mele? «È stato un film super, grazie al quale abbiamo poi viaggiato in giro per il mondo. Non è stato solo turismo, in realtà ricordo molte stanze d’albergo. Però ho incontrato tante persone diverse, dal Giappone all’Italia, con cui discutere di un argomento universale: il primo bacio».

Anche in questo caso il tema è universale, se vogliamo… «Quello era il primo bacio, questa è la prima morte. Diciamo che è stato meno leggero da girare (ride, ndr)».

Che tipo di emozioni ha portato a galla, la morte? «Uno tsunami di emozioni, dalla risata alla disperazione. La perdita di una persona cara cambia gli equilibri delle vite di chi resta».

(continua…)

Intervista integrale pubblicata su Vanity Fair del 17/12/2021

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Vicky Krieps, «Il mio posto».

10 venerdì Dic 2021

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cinema, Il filo nascosto, interviste illuminanti, Mia Hansen-Love, Sull'isola di Bergman, Vanity Fair, Vicky Krieps

PER LE DONNE IL TEMPO DEGLI SFORZI E DELLE GIUSTIFICAZIONI È FINITO: DEVONI PRENDERSI IL LORO SPAZIO PROPRIO COME FANNO GLI UOMINI, DICE VICKY KRIEPS. LEI LO HA FATTO, E ODPO UN PERIODO DI CRISI TORNA AL CINEMA, PASSANDO DALL?ISOLA DI UN GRANDE MAESTRO SVEDESE

di Crisitiana Allievi

L’attrice lussemburghese Vicky Krieps, 38 anni, protagonista di Sull’Isola di Bergman (foto courtesy Mubi).

Tiene le braccia incrociate, mani all’insù e gomiti appoggiati sul ventre, per un lungo lasso di tempo. È una presenza  calma e rassicurante, apaprentemente  in contrasto con quel lato punk che, quando aveva 20 anni, l’ha portata in Africa a fare volontariato per evadere da un puntino sulla carta geografica chiamato Lussemburgo. «È il paese più piccolo che ci si possa immaginare, una specie di fiaba, lì nessuna persona è più importante di un’altra…», dice senza inflessioni nella voce, dando lo stesso peso a ogni parola. Madre tedesca e padre a capo di una casa di distribuzione cinematografica, racconta di essere cresciuta in mezzo ai boschi, parlando con gli alberi. E così ti spieghi perché dopo il clamore suscitato da Il filo nascosto di Paul Thomas Anderson invece di cedere alle lusinghe hollywoodiane sia ritornata in Europa, rinunciando a offerte di lavoro importanti. Le ci sono voluti due anni a riprendersi da quella che definisce un’esperienza traumatizzante: una costante esposizione allo sguardo pubblico e una campagna mediatica per gli Oscar in cui le veniva ripetuto che con la stampa si lasciava andare a troppe opinioni personali.  È fuggita, cercando di ritrovare un po’ di pace. Il 2021 è stato l’anno del grande ritorno, soprattutto per il film della regista francese Mia Hanson-Love, Sull’isola di Bergman, uno dei due titoli che l’hanno vista protagonista all’ultimo Festival di Cannes. Nei cinema italiani dal 7 dicembre,  con Tim Roth come altro protagonista, racconta la storia di una coppia di registi che cerca ispirazione fra le pieghe della propria relazione, in un gioco di realtà e finzione, ma anche di creatività e competizione, sull’isola di Faro, nel Baltico, dove il cineasta svedese a cui si riferisce il titolo ha girato alcuni dei suoi capolavori e ha vissuto l’ultima parte della vita. «Sono legata a Mia da un ricordo importante», dice a proposito della regista. L’ho vista da spettatrice, prima che lei vedesse me. Recitava in Fin aout, debut septembre. Ricordo che alla fine della proiezione dissi ai miei amici cinefili “è la prima volta che rintraccio una direzione, che vedo la messinscena dietro il film”. Fu un’esperienza molto forte, ero ancora una ragazzina».

Poi è cresciuta, e le è arrivata la proposta per questo film. «È stata molto dura per me accettare quella proposta. Uscivo da un successo frastornante e da un momento affatto facile da attraversare».

Ci spiega perchè? «Ero diventata un’attrice che alcune persone conoscevano, e prima non era così. Mi sembrava di non poter tornare a casa, da dove venivo, perché qualcosa era cambiato dentro di me. Il punto è che non mi vedevo a fare le valigie e andare a vivere in California. Ero davvero persa. Quando mi ha cercata Mia avevo appena programmato una vacanza con i miei due figli, e mi sono trovata nel conflitto, fra vita privata e lavoro».

Guarda il caso, la regista le offre la storia di una donna che si emancipa e si prende la libertà di trarre ispirazione creativa da ciò che le piace e la circonda.  In Sull’isola di Bergman il mondo è ancora dominato dagli uomini, e il femminile cerca uno spazio proprio… «Ci augureremmo di non doverne nemmeno parlare in questi termini, ma non possiamo ignorare il tema a cui allude, perché non è superato. Fino a poco tempo fa non c’erano nemmeno registe donne, e anche se la situazione sta cambiando dobbiamo continuare a ricordarcelo».

(continua…)

Intervista integrale pubblicata su Vanity Fair del 15 dicembre 2021

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Charlotte Gainsbourg, «Tutto su mia madre».

12 martedì Ott 2021

Posted by cristianaallievi in arte, Attulità, Cannes, cinema

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arte, Charlotte Gainsbourg, figlia, interviste illuminanti, Jane Birkin, Jane by Charlotte, madre, Vanity Fair

Quando un’ingombrante genitore smette di essere un demone? Charlotte Gainsbourg affronta i suoi fantasmi con un docufilm super-emozionante. In cui, a Jane Birkin, fa (quasi tutte) le domande scomode

di Cristiana Allievi

Charlotte Gainsbourg, attrice e regista, con la madre Jane Birkin, modella e cantante inglese, all’anteprima di Jane by Charlotte, al Festival di Cannes 2021.

Il pudore e una macchina da presa. Ecco le due sole cose che restano tra loro, una madre e una figlia che, dopo decenni di distanza e di incomprensioni, si ritrovano nello steso letto, a passeggiare, a tavola, accanto finalmente e quasi se fosse la prima volta. È la magia di Jane By Charlotte, il docu film con cui  èunritratto personale e molto casual, una scusa artistica con cui Charlotte Gainsbourg debutta alla regia, presentato in anteprima al festival di Cannes e che sta facendo il giro delle rassegne cinematografiche del mondo, riscuotendo ovunque successo. La incontro alla Mostra di Venezia, dove ha presentato due film, Sundown di Michel Franco e Le cose umane, diretta dal partner Yvan Attal, attore regista e sceneggiatore di origine ebraica, l’uomo che l’ha raccolta a 19 anni, quando stava crollando in pezzi per la perdita del padre Serge, rockstar di Francia. Ivan è stato il terreno solido su cui costruirsi una dimensione esistenziale e una cifra propria, smarcandosi da fantasmi ingombranti. Con lui ha avuto tre figli (Ben, Alice e Joe), ha iniziato a firmare le canzoni con il suo vero nome e soprattutto a cantare in francese, la lingua che l’avvicinava vertigi- nosamente al mito del genitore. C’è voluto anche Lars Von Trier, per farle trovare se stessa. Il regista danese l’ha svestita e martoriata per bene nel corpo e nello spirito, e con Antichrist le ha regalato la Palma d’Oro e una fama allargata. Un nuovo equilibrio sembrava ritrovato, poi otto anni fa l’amata sorella Kate si è tolta la vita a Parigi. Lei è fuggita a New York, lasciandosi alle spalle la Francia e le sue ferite. Ora è tornata a casa. Incontrandola, si sente che qualcosa è cambiato. Charlotte ha finalmente posato lo sguardo sulla madre, accettando il delicato confronto con lei. La madre è la modella e cantante inglese Jane Birkin, un’icona di 74 anni (mentre scriviamo queste righe, è in convalescenza dopo aver avuto un ictus) che ha avuto una figlia per ogni suo amore: Charlotte da Serge, Kate dal primo marito John Barry (compositore di cult come la saga di 007) e Lou dal regista Jacques Doillon. Con Jane by Charlotte, ritratto personale e bellissimo, una figlia in- contra la propria madre e le fa domande molto scomode.

esordisce.

Cosa ha provato alla fine delle riprese? «Riguardando il mio film da regista con il pubblico, mi sono sentita male. Ne ho percepito tutti i punti deboli e soprattutto mi sono detta: “Ma perché mai la mia famiglia dovrebbe interessare a qualcuno? Quello che hai fatto è una cosa indecente!”. Hanno tentato di farmi notare che gli spettatori erano molto toccati, ma ero troppo nervosa per accorgermene».

Come è nata l’idea di un film su sua madre? «Volevo condividere la stessa vicinanza che lei aveva con le mie sorelle, Kate e Lou. Eravamo molto diverse. Con i film mi sono creata una famiglia tutta mia – ho iniziato che avevo solo 13 anni – e questo ha creato una distanza fra noi. I miei si erano separati quattro anni prima, e io ero molto vicina a mio padre. Sono stata privilegiata per- ché vivevo con lui nei weekend continuando a essere la sua figlia unica… Con mia madre era tutto diverso».

Poi suo padre è morto... «Per anni questo è stata il mio grande buco da colmare, tutto ciò che ho mostrato di me al mondo. Quando nella mia vita è arrivato Yvan abbiamo creato una nuova famiglia tutta nostra, “vera”, sono capace di vivere una persona alla volta in modo esclusivo».

Tagliando fuori sua madre… «Me ne sono accorta molto tempo dopo, infatti questo mio interesse di adulta per lei l’ha spiazzata. Mi sono sentita male per averla sempre amata senza darlo a vedere, non le ho mai fatto capire quanto avessi bisogno della sua presenza e vicinanza.  E purtroppo non è stato il mio unico errore».

Quello successivo? «Le ho proposto di girare un film su di lei per poterla incontrare. E quando  le ho fatto la prima intervista, durante un suo tour, le mie domande troppo dirette l’hanno fatta ritirare.  Ha pensato che stessi cercando di farla sentire in colpa, cosa che le capita molto di frequente (ride, ndr). Invece è stata la mia timidezza, mi ha creato difficoltà, non sapevo come chiederle le cose, finché lei mi ha fermata: “Odio il Giappone e odio quello che stai facendo”».

(continua…)

Intervista integrale pubblicata sul numero 41 di Vanity Fair (12 ottobre 2021)

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«Non m’importa di sbagliare per amore», Adele Exarchopoulos

24 lunedì Giu 2019

Posted by cristianaallievi in Cannes, cinema, Cultura, danza, Festival di Cannes

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Adele Exarchopoulos, Justine Triet, La vita di Adele, Nureyew The white Crow, Palma D'Oro, Sybil

È DIVENTATA FAMOSA CON UN FILN DI SESSO E SENTIMENTI ESTREMI. E ORA SULLO SCHERMO SARA’ LA DONNA CHE SALVO’ LA VITA AL GRANDE BALLERINO RUDOLF NUREYEV. CON GRAZIA ADELE EXARCHOPOULOS HA PARLATO DELLA PASSIONE E DEL PERCHE’ NON VI RINUNCEREBBE MAI

di Cristiana Allievi

L’attrice francese Adele Exarchopoulos fotografata da Eric Catarina (courtesy of Grazia Italia).

Sono passati due minuti da quando ci siamo incontrate e ha già acceso la prima sigaretta. La manicure è in tinta con la tuta rosa di Miu Miu che indossa. Scandisce lentamente il cognome “Ec-sar-co-pu-los”  con un accento così francese da far dimenticare le radici greche che la legano al nonno. Di Adele percepisci l’energia e la complessità anche quando sta in silenzio e ti guarda con grandi occhi neri.  Così mi spiego l’evento del 2013 che ha segnato la sua carriera. Steven Spielberg, allora presidente di giuria a Cannes, ha voluto premiarla per La vita di Adele insieme all’attrice Lea Seydoux e al film stesso: un’eccezione per le dinamiche di un festival con cui il leggendario regista Usa ha voluto sottolineare la magia d’amore e libertà vista sullo schermo. «Continuano a paragonare ogni cosa che faccio a quel film estremo», mi racconta quando glielo nomino. «Ho incontrato poco fa Abdellatif Kechiche e gli ho detto “mi hai rovinata”. Accetto completamente il fatto che lui è le mie radici nel cinema, mi ha dato luce ed è uno dei migliori registi che ho incontrato. Ma chiedo a tutti di guardare avanti…». Intanto dal 27 giugno sarà in Nureyev, The white Crow, il film di Ralph Fiennes che racconta quando l’icona russa della danza ha chiesto asilo politico in Francia in piena Guerra fredda e lo ha ottenuto grazie all’aiuto dell’amica  dell’alta società Clara Saint, interpretata da Adele. Poi sarà la volta di Sybil, di Justine Triet,appena visto all’ultimo festival di Cannes, in cui  interpreta una giovane attrice in crisi sentimentale che cerca l’aiuto di una psicoterapeuta (Virginie Efira). E con cui finirà per ritrovarsi in situazioni surreali.

Figli di un’infermiera e di un chitarrista, ha iniziato a fare l’attrice a soli 13 anni in una serie poliziesca per la tv francese. Poi otto film a fila, prima della svolta. Da allora ne ha girati altri nove, ha cercato di fare i conti con la fama improvvisa e ha avuto un figlio, Ismail, due anni, con il rapper francese Morgan Fremont. Difficile, mentre le parlo, tenere a mente che ha solo 25 anni.

(continua…)

Intervista integrale pubblicata su Grazia del 20 giugno 2019

© Riproduzione riservata

Antonio Banderas, «Se solo fossi un poeta»

25 sabato Mag 2019

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Antonio Banderas, Cannes 2019, CAnnes 72, Dolor Y Gloria, interviste illuminanti

GLI AMORI DEL PASSATO E LA DONNA CON LA QUALE OGGI HA CONQUISTATO LA SERENITA’. L’ESPERIENZA DI INTERPRETARE IL REGISTA PEDRO ALMODOVAR NEL FILM CHE PORTA A CANNES. LA SCELTA DI GUIDARE UN TEATRO NELLA SUA SPAGNA. ANTONIO BANDERAS PARLA CON GRAZIA DELLE SUE EMOZIONI, COSI’ FORTI CHE ANCORA NON TROVA LE PAROLE GIUSTE PER ESPRIMERLE

di Cristiana Allievi

«È andata così, a un certo punto nella mia vita l’amore si è preso tutto lo spazio che prima aveva la carriera». Quando incontriamo Antonio Banderas ha voglia di parlare di setimenti, quelli veri, che prova per sua figlia Stella, avuta con la ex moglie, l’attrice Melanie Griffith. «Quello che vedo riflesso in lei è il tipo di donna che amo, e le confesso che mi rende molto orgoglioso». I conti tornano: Stella oggi ha 22 anni, è nata alla fine degli anni Novanta, l’epoca in cui sbarcato in America, il “latin lover” costruiva la sua carriera di star mondiale con Philadelphia, accanto a Tom Hanks, La maschera di Zorro, con la Zeta Jones, e Intervista col vampiro insieme ad altri sex symbol come Brad Pitt e Tom Cruise. «Sono stati anni bellissimi, e in America mi sono anche innamorato e ho messo su famiglia. Per i successivi 20 anni la mia vita ha conosciuto una fase molto diversa da quella precedente», dice. Poi nel 2015 Banderas ha divorziato dalla Griffith, sua seconda moglie, e oggi è legato a Nicole Kimpel, la consulente finanziaria conosciuta cinque anni fa proprio a Cannes e con cui vive nel Surrey, a sud di Londra. Atteso a Cannes il 17 maggio,  sarà la star più fotografata del Festival di Cannes il giorno in cui verrà proiettato Dolor Y Gloria, lo stesso giorno  in cui uscirà al cinema e in cui interpreta Salvador Mallo, un regista sul viale del tramonto alle prese con ricordi, depressione e potenza dirompente della creazione artistica. In pratica Banderas racconta la vita del regista del film, Pedro Almodovar, l’uomo che 37 anni fa lo volle in Labirinto di passioni, il primo di otto film insieme. La somiglianza fra i due è impressionante. «Mi sono immerso in un contesto in cui tutto era suo, dalla casa ai mobili della cucina al resto dell’arredamento, incluse le scarpe e molti dei vestiti che indosso. Poi ci sono i capelli, mi hanno pettinato proprio come Pedro».

Cosa le ha detto per trasformarla in se stesso? «“Se pensi che in qualche sequenza ti possa aiutare imitarmi, puoi farlo”. Gli ho detto che non era necessario, preferivo che il personaggio emergesse da dentro di me».

Anche la depressione che mostra sembra reale. «Perché la conosco, è vera, l’ho vissuta anch’io. Qualche tempo fa sono finito in ospedale, è bastato non potermi muovere come prima per iniziare a pensare a tutto quello che è accaduto nella mia vita. Ho capito molte cose, sono cresciuto». 

Almodovar l’ha fatta tornare a un personaggio intenso e profondo, come quelli che recitava prima di lasciare l’Europa. Cosa prova oggi quando guarda l’America? «Dipende, gli Usa sono tante cose insieme, anche in Italia non si mangia solo pizza… C’è il lato oscuro, soprattutto in politica, fatto di populismo, nazionalismo, estremismo, ma c’è anche l’innocenza, quel modo adorabile di creare cose dal nulla. In Europa ci portiamo un gran peso sulle spalle, siamo lenti quando ci muoviamo, lì sono pratici e molto più veloci. E Melanie per ha rappresentato qualcosa che mi faceva perdonare i peccati commessi dall’America».

Addirittura? «Certo, infatti l’ho sposata. Ha qualità come bellezza, generosità e allo stesso tempo vulnerabilità, le stesse che ho visto anche negli occhi di Marilyn Monroe e di Ava Gardner. È un femminile molto speciale, che in un certo senso rappresenta una nuova nazione, una nuova speranza, un progetto fatto di molte persone di diverse razze e religioni che convivono insieme. È un esempio di come potrebbe essere il mondo, con tutti i problemi che comporta. C’è qualcosa che ho amato in quegli occhi e che è difficile da spiegare: parlare d’amore e di come ti innamori non è facile, devi essere un poeta».

(continua…)

Intervista integrale pubblicata su Grazia del 16 maggio 2019

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C’era una volta a Hollywood, di Quentin Tarantino

22 mercoledì Mag 2019

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Brad Pitt, C'era una volta a Hollywood, Cannes 2019, CAnnes 72, DiCaprio, Margot Robbie, Quentin Tarantino

Dopo tanta attesa, poche ore fa sulla Croisette abbiamo assistito all’anteprima mondiale di C’era una volta… a Hollywood di Quentin Tarantino. Nella sala Lumiere, alle 16.30, è stato letto un messaggio ufficiale del regista: “Cari giornalisti amanti del cinema, vi preghiamo di non diffondere dettagli sul film che ne rovinerebbero la visione. Fate che sia la stessa che avete avuto voi”. Solo a lui è concesso di fare certe cose, diciamolo, e non meraviglia, perché per il regista che 25 anni fa ha vinto qui la Palma d’Oro per Pulp Fiction sulla Croisette c’è un tifo da stadio. E alla fine della proiezione si contano sei minuti di standing ovation per lui e il cast presente.

Questo è forse il film più tarantiniano di Quentin Tarantino, che ne è regista, scrittore e produttore. Ci ha messo dentro il suo adorato western e il cinema dei generi, i suoi ricordi da giovane, le serie tv di culto come FBI, i produttori, le star di un tempo, i set di Hollywood. A distanza di poche ore da Nicolas Bedos, che anche lui con il suo ottimo La belle Epoque ci ha fatto vedere il cinema dentro il cinema.

L’ambientazione, senza spoilerare, è nel 1969 e precede noti fatti criminali  avvenuti a Hollywood. La storia ruota intorno a Rick Dalton (uno straordinario Leonardo DiCaprio), idolo della tv, che vive un momento di cambiamento  nella carriera. Al suo fianco c’è il compagno storico, il suo stunt Cliff Booth, interpretato da Brad Pitt (un figurino, con abbronzatura californiana). I due sono molto amici e cercano di cavarsela nell’ultima fase della golden age di Hollywood, con Rick che vive in una casa sulle colline e ha come vicini di casa i Polanski, mentre Cliff ha come dimora una roulotte con il cane e la tv. Dopo aver girato un grosso western, Rick accetta di andare in Italia a girare lì quattro film con Sergio Corbucci (che Tarantino ama e che ha omaggiato con Django). Torna quindi a Los Angeles con moglie italiana e un bel po’ di soldi. Una volta a casa lui e Cliff si ritrovano per una memorabile serata di sbronze che culmina in un tripudio di cinema destinato a passare alla storia (e che non riveleremo per rispettare la richiesta del regista).

Il racconto è pieno di salti temporali, in avanti e indietro, e come al solito porta cambiamenti alla storia. Sul set si incrociano personaggi favolosi interpretati da Al Pacino, Dakota Fanning, Kurt Russell, e Luke Perry poco prima della sua scomparsa. Per godere della presenza di tutti occorrerà aspettare il 19 settembre, mentre gli Usa anticipano al 26 luglio, esattamente  a distanza di 50 anni dai terribili fatti di cronaca che racconta.

Leggi cosa mi è piaciuto del film e cosa meno nel mio articolo per GQ.it

Pubblicato il 22 maggio 2019

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Antonio Banderas, «Adesso divento Pedro»

16 giovedì Mag 2019

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Antonio Banderas, Cannes 2019, CAnnes 72, Dolor Y Gloria, GQ Italia, interviste illuminanti, Pedro Almodovar

Nella lunga conversazione avuta con Antonio Banderas a Madrid, l’attore e produttore mi ha parlato della sua esperienza con la morte, per prima cosa. Ovvero di quando, due anni e mezzo fa, ha subito tre interventi al cuore e ha toccato la morte da vicino. Fatto, questo, che lo ha riavvicinato alla vita e che ha lasciato tracce visibili in lui. E mentre l’icona latina di Hollywood faceva i conti con quello squarcio apertosi su qualcosa di vertiginoso, sulla scena della sua vita si ripalesava un mentore. Anzi, il mentore, Pedro Almodovar, a sua volta pronto per un film epocale. È così dopo essere stato Dalì, Pancho Villa, Picasso e Mussolini -solo per citare i personaggi realmente esistiti che ha incarnato- Antonio Banderas si è trovato a interpretare l’uomo che 37 anni prima lo aveva notato, fuori da un caffè di Madrid.  Hanno fatto sei film insieme, Banderas è diventato una star europea. Ma lui voleva di più, voleva Hollywood. Così è volato Oltreoceano, costringendo Almodovar a incassare un duro colpo. E dopo anni di successi clamorosi al botteghino, deve aver sentito il richiamo della profondità dei personaggi di Pedro, così i due si sono ritrovati in Dolor Y Gloria, nelle nostre sale dal 17 maggio, in contemporanea con la proiezione al Festival di Cannes, in Concorso. Una prova di recitazione minimalista ma della massima efficacia, la materializzazione di una connessione fra anime per cui Banderas interpreta Pedro stesso. E per cui, ne siamo certi, entrambi avranno riconoscimenti importanti. La nostra conversazione è avvenuta il giorno dopo la visione di Dolore e Gloria a Madrid.

L’intervista è pubblicata sul GQ Italia, numero Maggio/giugno 2019

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Nadine Labaki, dalla parte dei bambini»

14 domenica Apr 2019

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bambini, Cafarnao, D La repubblica, interviste illuminanti, Nadine Labaki, senza identità, Siria

Zain è un ragazzino che trascina dietro una tinozza legata a una corda.  Dentro c’è la sorellina Yonas, poco più che neonata.  Cammina nella miseria e solitudine di Beirut, e sembra che la vita si sia dimenticata di lui. È una delle tante immagini che restano impresse di Cafarnao, il terzo film della nota regista e attrice libanese Nadine Labaki. Un grido che, attraverso le vicende di Zain Al Rafeea, nato in Siria e trasferitosi in Libano, dà voce a quei 280 milioni di piccoli nel mondo che vengono maltrattati, abusati, picchiati, violentati, imprigionati, e di cui non si conosce nemmeno l’esistenza perché privi di identità.

«La storia lavorava dentro di me da tempo», racconta la Labaki, che dal 14 maggio al festival di Cannes sarà presidente di giuria nella sezione Un Certain Regard.  «Ci dicono di non dare denaro ai bambini per la strada, perché sono gestiti dalla mafia che li lascia di mattina e li riprendere alla sera, io volevo capire di più, cosa succede quando uno come Zain sparisce dietro l’angolo? C’è troppa tendenza a etichettare e disumanizzare questi bambini. E ho scoperto, fra le altre cose, che un piccolo non può andare a letto finché non ha procurato una certa quantità di denaro alla famiglia, quindi prima glieli diamo noi, quei soldi, prima andrà a dormire». I 123 minuti di immagini dalla forza dirompente che sono passati in Concorso all’ultimo festival di Cannes hanno suscitato reazioni nette. Qualche critico cinico ha gridato al misery porn, mentre il pubblico omaggiava con 15 minuti di standing ovation. E adesso è nelle nostre sale. Dopo Caramel e E ora dove andiamo?, con cui la regista ha avuto molto successo anche al botteghino, Cafarnao è il suo primo film apertamente drammatico. Segue la storia vera di Zain Al Rafeea, profugo siriano che porta i propri genitori in tribunale e gli fa causa. Il motivo? «Avermi messo al mondo».

(continua)

Articolo pubblicato su D la Repubblica del 10 Aprile 2019.

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