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Cristiana Allievi

~ Interviste illuminanti

Cristiana Allievi

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Cate Blanchett, «La vita non è la solita sinfonia».

09 giovedì Feb 2023

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BErliner Philarmoniker, Cate Blanchett, Claudio Abbado, interviste illuminanti, Nina Hoss, Noemie Merlant, Todd Fields

di Cristiana Allievi

Todd Field’s TÁR will have its world premiere at the Venice International Film Festival. Cate Blanchett stars as Lydia Tár in director Todd Field’s TÁR, a Focus Features release. Credit: Florian Hoffmeister / Focus Features- Courtesy Universal

Lydia Tar è la direttrice di una delle più grandi orchestre sinfoniche tedesche e sta preparando l’esecuzione  della difficilissima Quinta sinfonia di Mahler.

Comincia così Tar, presentato in Concorso all’ultima Mostra di Venezia e nelle sale dal 9 febbraio, con un’intervista con il (vero) giornalista Adam Gopnik, mentre Lydia è all’apice della sua carriera e sta per presentare la sua autobiografia.

Innovativo a partire dalla sceneggiatura del regista Todd Fields, che ha impiegato anni in questo lavoro al cui centro c’è un’immensa Cate Blanchett nei panni di Lydia Tar, sostenuta da due ottime coprotagoniste: Nina Hoss, sua compagna nel film, e Nomie Merlant, sua assistente personale.  Donne diversamente innamorate di Lydia, intorno a cui si crea un triangolo di alta tensione.

La novità del film è che Blanchett non occupa solo un posto di potere, ma un ruolo tradizionalmente riservato agli uomini: il podio di un’orchestra sinfonica (e non una qualsiasi, alludendo il film ai Berliner Philarmoniker). Vediamo solo tre settimane della sua vita, ma capiamo che vuole ottenere molto, con lo stress psicofisico che comporta arrivare in cima alla vetta.

Lo spiega Blanchett stessa, dentro un abito che ha lo stesso colore azzurro ghiaccio dei suoi occhi. «Lydia è sull’Olimpo, da artista è arrivata. Come essere umano, invece, sa che dopo la vetta c’è solo la discesa, e affrontarla richiede molto coraggio. Sicuramente c’è qualcosa che la tormenta, un passato, una persona, è stato affascinante lavorare su questo aspetto».

Tar è un film sulla trasformazione, su quel  qualcosa che succede e che ci fa vivere cose che non avremmo mai pensato di vedere o di sentire.

«Un aspetto fondamentale in qualsiasi rapporto creativo è la fiducia», continua la due volte premio Oscar Blanchett, che per il ruolo ha studiato la presenza e i gesti di Claudio Abbado, Carlos Kleiber, Emmanuelle Haim. «Credo che Lydia sia stata oggetto di bullismo, la fiducia per lei è un tema difficile, come il perdono. Dalla prima sillaba della sceneggiatura ho capito che era molto complessa. Il  personaggio si evolve e cambia, ma quello che non cambia è che si tratta di una persona che non conosce se stessa. E non è necessario essere la direttrice della più grande orchestra del mondo per sperimentare queste contraddizioni».

Nina Hoss è stata spesso definita “la Cate Blanchett tedesca”. Il regista aveva visto il suo lavoro come violinista in The Audition, di Ina Weisse. «Non vengo dal mondo della musica, ma sono in grado di suonare il pianoforte, e ho studiato violino, questo mi ha aiutata. Abbiamo lavorato con la filarmonica di Dresda, sono stati molto aperti e ci hanno aiutate. È stato un processo di assorbimento molto speciale».

Noemie Merlant è un’attrice e regista molto quotata in Francia, e non solo.

«Non conoscevo questo mondo un po’ folle e molto maschile. È stata un’esperienza forte, essendo tutte donne. Francesca, il mio personaggio, vuole diventare come Lydia, ma per ora fa altro. Quindi rappresento tutti gli aspetti di chi ama la musica senza aver mai toccato uno strumento. Ho cercato di rappresentare lo sguardo di questa donna che è nell’ombra ed è paziente. Non si capisce se sia un’eroina o la cattiva della situazione, perché controlla Lydia. Da attori noi stessi siamo strumenti, io osservavo Cate mentre creava Lydia davanti a me. La guardavo trasformarsi, e allo stesso tempo anche Francesca osservava Lydia, nel film».

Cate Blanchett aveva già interpretato una storia d’amore al femminile, in Carol. Ma oggi il mondo Lgbt è molto più al centro dell’attenzione di allora, soprattutto in Usa. «Prima di Carol non c’erano film di quel tipo. La donna o si uccideva o veniva redenta dall’amore di un uomo. Mentre giravamo era semplicemente qualcosa che era diventato necessario. Passato al pubblico, è diventato esplosivo».

Però secondo Blanchett l’arte  non è uno strumento educativo. «Le persone possono essere ispirate, o offese, questo va al di là del controllo di chi crea un’opera. Come specie umana siamo abbastanza maturi da guardare Tar senza  fare del sesso e del genere l’aspetto più importante. Solo quando abbiamo iniziato a fare le conferenze stampa ci siamo accorte di essere un cast per la quasi totalità femminile. Todd Haynes ci ha detto “di fatto non esiste un’orchestra tedesca guidata da una donna, è un mondo molto patriarcale. Se questo cambiamento succederà, normalizzerà l’arte stessa”. Al momento non avevo riflettuto su questo aspetto».

Ha esperienza diretta delle dinamiche di potere tra maschile e femminile. «Da quando ho iniziato a lavorare io le cose sono cambiate molto. Allora mi dissero “goditi i prossimi cinque anni, poi le cose cambieranno…”. La vita dell’attrice finiva presto. Oggi è importante relazionarci con i nostri fratelli a Hollywood, che possono svolgere insieme a noi un bel lavoro».

Merlant  non crede Tar sia un film femminista. «Piuttosto il suo intento è far nascere domande sulle dinamiche di potere, e su come sia trovarsi in una posizione così alta della propria carriera in cui devi lottare molto di più, in quanto donna. Inoltre vediamo cosa succede nel momento in cui  il sogno diventa realtà, dirigere Mahler, e occorre vedersela con il processo della creazione, che può arrivare a divorarti. Lo trovo un modo di condurre alla riflessione molto arguto».

Nina Hoss allarga ancora di più lo sguardo. «Questa visione di una donna al potere non permette di correre così velocemente a trarre conclusioni, come faresti se fosse un uomo, perché crediamo di sapere già tutto. Qui occorre più tempo per giudicare. Una donna arriva al vertice essendo un’artista favolosa: cosa la rende all’improvviso una persona diversa? Cosa le succede, e cosa succede al mondo che la circonda, che la spinge in una certa direzione?».

La coppia lesbica al centro, inoltre, non è un problema per la società che la circonda. «Questo è davvero un modo nuovo di porre la questione, significa che il mondo è cambiato. Mentre nel mondo che Lydia affronta fuori, c’è ancora molto da fare».

Di solito Nina Hoss ha un ruolo da protagonista. Se si chiede perché abbia accettato un ruolo più marginale risponde: «Qui è diverso, ma ho accettato perché la protagonista era Cate. Il mio personaggio, Sharon, non è solo una donna innocente e gelosa: ama Lydia per il genio che è, e gode anche del potere che una coppia simile ha in quel mondo. Quindi sa come manipolare, sa di essere la roccia per lei e conosce le insicurezze della sua compagna. Ho cercato di rendere queste sottigliezze. Per il resto ho suonato davvero, nel film. Il mio è un lavoro in cui ti senti davvero un’impostora. Trascorrendo settimane in una vera orchestra, come minimo dovevo avere rispetto di quei professionisti, conoscere i pezzi, sapere cosa stavo facendo. Questo percorso ha creato una dinamica molto nuova: abbiamo ricreato  la musica di Mahler, e ci è voluto molto lavoro. Ma credo che lo spettatore se ne accorgerà».

Articolo pubblicato su Panorama del 25 gennaio 2023

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Paolo Fresu, la passione indomita del raccontarsi e di scoprire talenti

21 giovedì Ott 2021

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Il sole 24 Ore, interviste illuminanti, JazzMi, Paolo Fresu, Tango Macondo, Tuk music

di Cristiana Allievi

Il trombettista e flicornista Paolo Fresu ha tre appuntamenti nella rassegna JazzMi, fra il 23 e il 24 ottobre (foto di Fabiana Laurenzi).

Una mostra con sessanta copertine realizzate da illustratori da tutto il mondo. Un film che racconta l’articolata filiera della produzione musicale indipendente. Un concerto che accosta note e prospettive dei nomi più interessanti del panorama musicale nazionale del momento.

Così la rassegna JazzMi rende omaggio a Paolo Fresu e ai 10 anni della sua Tuk Music. Che non è solo una casa discografica ma un marchio di qualità del jazz italiano e internazionale e visione artistica declinata in diversi settori.

(continua…)

Intervista pubblicata su Il Sole 24 Ore

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Francois Ozon: «Negli anni ’80 eravamo più innocenti»

04 venerdì Giu 2021

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Aidan Chambers, Anni Ottanta, Cannes 2021, Estate 85, Everything went fine, Francois Ozon, Il sole 24 Ore, Il tempo delle mele, interviste illuminanti

Il regista in sala con “Estate 85” al prossimo festival di Cannes sarà in Concorso con “Everything went fine”

di Cristiana Allievi

Benjamin Voisin, Félix Lefebvre Estate ’85 (©2020_M…PE PICTURES)

Al prossimo festival di Cannes sarà in Concorso con “Everything went fine”, dal lui scritto e diretto e basato sull’omonimo romanzo di Emmanuèle Bernheim. Mentre aspettiamo di vedere quel racconto di una figlia che si ritrova davanti alla richiesta del padre di aiutarlo a porre fine alla propria vita, oggi esce nelle sale un’altra opera scritta e diretta dal cineasta francese Francois Ozon, “Estate 85”. Quello che avrebbe voluto fosse il suo primo film, e che invece è diventato il diciannovesimo.

Da sempre attento alla sessualità, a 17 anni Ozon si è invaghito del romanzo “Danza sulla mia tomba”, di Aidan Chambers, storia (per molti versi autobiografica) fra due adolescenti dello stesso sesso. Una storia che finisce male, e si capisce dalla prime scene. Siamo negli anni Ottanta in Normandia e Alexis (Félix Lefebvre) fa un giro su una barchetta a vela. Ma scuffia, e viene raccolto in acqua da David (Benjamin Voisin), che lo riporta a terra e non lo lascia più andare. La distanza sociale fra i due è chiara, eppure insieme stanno bene, tanto che Alexis rinuncia alle aspirazioni da scrittore e sceglie di lavorare per l’amico e la di lui madre (Valeria Bruni Tedeschi).

Scoppia una passione incontenibile, finché arriva Kate (Philippine Velge) a sparigliare le carte. La scrittura avrà la funzione di far uscire uno dei due ragazzi da un grosso trauma. Il film è nelle sale da oggi distribuito da Academy two, ed è marcato Cannes 2020.

A raccontare questa immersione nell’amore e negli anni Ottanta è il regista stesso.

(continua…)

L’intervista a Francois Ozon per Il Sole 24 Ore

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Soko, finalmente consapevole di sorprendere (ancora)

03 mercoledì Feb 2021

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A Good Man, cinema, Cristiana Allievi, D La repubblica, giornalista, interviste illuminanti, Soko, The dancer

di Cristiana Allievi

L’attrice e cantante francese Soko, 30 anni (courtesy http://www.amyharrity.com)

Dall’altra parte del monitor la luce è abbagliante. A Los Angeles una donna si raccoglie i capelli dietro la nuca. Sorride, scherza, ammicca. Nella stanza accanto un bimbo si è appena addormentato, e quando si risveglierà lei esisterà solo per lui e per il loro momento di gioco insieme. Una normale scena famigliare, non fosse che dall’altra parte dell’Oceano c’è Soko, al secolo Stéphanie Sokolinski, l’artista che fino a una manciata di anni fa era nota per due motivi: essere la ex fiamma di Kristen Stewart e la musa di Gucci. Lo scenario, oggi,, sole californiano incluso, è molto cambiato per la polistrumentista, cantautrice e attrice nata a Bordeaux, ma di origini polacche. Si è lasciata alle spalle una vita con la valigia in mano e una serie di relazioni instabili, e ha ceduto al richiamo ancestrale di diventare mamma di  Indigo Blue (“abbiamo scelto il nome dalla canzone dei The Clean”), partorito due anni fa, che sta crescendo con la compagna Stella. “Sono in un relazione con una donna del mio sesso, e ho un bambino, sì, è possibile”, dice con un tono serio ma con un sorriso. Con il suo curriculum esistenziale, era perfetta per A good man, il film diretto da Marie-Castille Mention-Schaar in cui interpreta Aude, una donna che ama Benjamin, un transessuale (interpretato magnificamente da Noémie Merlant, la star di Ritratto di una donna in fiamme) e che non può avere bambini. Sarà proprio Benjamin a sacrificarsi per la coppia,  non avendo ancora completato la transizione a uomo. Basato su una storia vera, il film uscirà nelle sale francesi il 3 marzo (da noi prossimamente) mostra molto non detto sulle conseguenze psicologiche delle scelte della coppia, per esempio quando uno dei due rinuncia alla carriera per stare con l’altro. «Per la maggior parte della mia vita sono stata al posto di Ben, nelle relazioni», racconta. «Ho sempre vissuto correndo e ho preso grandi decisioni di vita dicendo ai miei partner  “io faccio questo, vuoi farne parte?”. Mi hanno seguita sui set, in tour o in qualsiasi cosa avessi già programmato, e lo hanno fatto a costo di grandi sacrifici. Ho sempre voluto lavorare su questo aspetto, riuscendo a far sentire l’altra persona speciale, e soprattutto ascoltata».

Nel 2006 il nome di Soko era balzato alle cronache per aver registrato I’ll Kill Her con un telefonino e avere spopolato su Myspace. E come si conviene a una donna che vive(va) di contrasti, da attrice ha attirato l’attenzione nei panni di una donna dell’Ottocento,  Augustine, la prima paziente “isterica” dalla storia della medicina.  Mentre è stato Io danzerò a regalare la fama internazionale, con la sua straordinaria rappresentazione di Loïe Fuller nel film basato sul romanzo di Giovanni Lista. L’anno dopo quel successo si è rinchiusa a scrivere le proprie storie. Il risultato è stato un terzo disco, Feel Feelings, uscito lo scorso luglio, con un video del singolo Are You a Magician? diretto dall’amica di lunga data Gia Coppola, nipote di Francis Ford. Un disco che celebra l’amore, naturalmente di ogni tipo, e che sembra frutto anche di una nuova consapevolezza. Arriva forte e chiara dai suoi ragionamenti. «Pensa che la maternità mi abbia cambiata?», sdrammatizza.

(continua…)

L’intervista integrale su D la Repubblica, 30/1/2021

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Keith Urban «Per mia moglie sono un super eroe»

23 mercoledì Set 2020

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country, Grazia, interviste illuminanti, Keith Urban, music, Nicole Kidman, rockstar, Silvia Grilli, The speed of now, universal music

E’ UNA STAR GLOBALE DELLA MUSICA COUNTRY, MA ANCORA MOLTI CONSIDERANO KEITH URBAN L’UOMO CHE VIVE ALL’OMBRA DELLA DIVA NICOLE KIDMAN. ALLA VIGILIA DEL NUOVO ALBUM IL CANTANTE RACCONTA A GRAZIA IL SEGRETO DELLA LORO UNIONE: «OGNI GIORNO LEI RIESCE A FARMI SENTIRE INVINCIBILE»

di Cristiana Allievi

Sono molto grato per questo viaggio. Mi sorprende giorno dopo giorno con questo fenomeno surreale chiamato vita. Vedo il sole sorgere, e visto che siamo fortunati lo continua a fare, girono dopo giorno. Non vorrei sembrarle sdolcinato, ma per me tutto è un regalo straordinario, un’opportunità di esplorare, imparare, creare, osservare, assorbire. La mia  vita funziona così, sono pieno di gratitudine». A chiamare al telefono è direttamente lui, dall’Australia. Con una voce decisa ma pacata, e la sua energia mi arriva forte e chiara, come un’iniezione di vitamine. Superstar della musica country, con una famiglia di musicisti alle spalle, Keith ha all’attivo hit finite ai vertici delle classifiche inglesi, tour negli Usa e un successo per nulla scontato se  nasci in Nuova Zelanda come lui (che è naturalizzato australiano).  Non bastasse, sua moglie è una diva globale come Nicole Kidman: i due si sono conosciuti a un concerto nel 2005 e l’anno dopo erano già sposati. Hanno due figlie, Sunday Rose, 11 anni, e Faith Margaret, nove (Kidman ha altri due figli che condivide con l’ex marito Tom Cruise, Isabella e Connor). Passano molto temo a Nashville, la capitale del country, dove hanno una grande tenuta in campagna. Il 18 settembre Keith ha festeggiato l’uscita in tutto il mondo del suo nuovo album, il dodicesimo, intitolato The speed of now, che tradotto suona più o meno “la velocità del momento presente”.

Partiamo dal titolo, che è già un manifesto. «L’ho deciso a ottobre dello scorso anno. Allora avevo la sensazione che il mondo si stesse muovendo così velocemente che anche l’adesso, il presente, stava andando troppo velocemente! Con quel titolo ho fatto una specie di affermazione  sociologica. Poi è arrivato il Covid-19, che ha dato tutt’altro senso al titolo. Le dirò, mi sembra ancora più adeguato al momento che viviamo».

Lei è il simbolo della ripartenza. Lo scorso maggio ha fatto un concerto vicino a Nashville, il primo dopo il lockdown, che ha registrato  il tutto esaurito. «Avrei voluto non dover vivere questa pandemia. Però ho fiducia che da qui emerga un mondo migliore e più forte. Sento che la revisione delle nostre vite ci sta facendo bene, credo che stiano cambiando le priorità. La pandemia  ha messo in risalto quanto si lavora, quanto tempo si passa in famiglia, quanto sono importanti la comunità e la rete di relazioni in cui viviamo. Tutto stava andando troppo velocemente, così ci si perde la vita. Per me è importante ricordare che siamo esseri umani e funzioniamo a una velocità diversa da quella dei computer. E non è così scontato ripeterselo».

Cosa le piace della musica del genere country, il suo cavallo di battaglia? «Sono cresciuto con la collezione di mio padre, fondamentalmente la country music americana, che è molto contemporanea. Johnny Cash, Glen  Campbel, questa è la prima musica che ho ascoltato a casa. Da teenager nelle band in cui suonavamo facevamo le cover, e ascoltando alla radio le Top 40, mixavamo già allora il country con il pop».

Nel suo album canta i cambiamenti, le sfide, le svolte della vita. Quali menzionerebbe, a 53 anni? «Direi che la sfida più grande per tutti è riuscire a bilanciare le cose. La crescita interiore, quella spirituale, emozionale, la famiglia, spostarsi in un altro paese come l’America da così giovane, viaggiare in tour… Sono state tutte sfide, in modi diversi. E continuano ad esserlo, le sfide non finiscono mai».

(continua…)

Intervista pubblicata su Grazia il 17/9/2020

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Wild Boy

17 martedì Set 2019

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arena di Verona, crossover, D La repubblica, David Garrett, interviste illuminanti, Itzhak Perlmann, Julliard, musica classica, Paganini, Reggia di Caserta, Unlimited Greatest Hits live, violino

DAVID GARRETT, IL VIOLINISTA PIU’ ROCK DELLA CLASSICA CROSSOVER, È IN TOUR ANCHE IN ITALIA PER I SUOI PRIMI 10 ANNI DI CARRIERA. DIVISA TRA RIGOROSA DISCIPLINA E ISTINTO (MOLTO) RIBELLE

di Cristiana Allievi

Il violinista David Garrett, 39 anni, in Italia con due date del suo nuovo tour, Unlimited Greatest Hits live.

«Siamo andati tutti a scuola. E sappiamo che svegliarsi alle 7.30 pensando alla lezione di matematica non è sempre meraviglioso. Ma questa è la disciplina che ci insegnano, e per il violino vale lo stesso: ci sono giorni in cui ti piace e molti in cui vorresti fare tutt’altro. Ma per imparare qualcosa devi lavorare tutti i giorni, ogni settimana, ogni mese. E devi progredire». Ho appena chiesto a David Garrett, rockstar del violino, cosa ne pensa della disciplina che governa la sua vita, da sempre. Perché a 4 anni suonava già, a 7 era nel Conservatorio di Lübeck e a 11 anni aveva in mano uno Stradivari da quattro milioni di dollari. Due anni dopo era il più giovane concertista mai scritturato dalla Deutsche Grammophon, la regina delle etichette di classica. E la tecnica acrobatica che lo contraddistingue, e che vedremo in Italia  nelle due tappe del suo Unlimited – Greatest hits – live, il tour mondiale con cui celebrerà dieci anni di musica crossover (il 15 settembre all’Arena di Verona e il 17 alla Reggia di Caserta), se l’è sudata fino all’ultima nota. Madre ex ballerina americana (da cui David ha ereditato il cognome come nome d’arte) e padre, avvocato tedesco e titolare di una casa d’aste (dal cognome impronunciabile), hanno avuto un ruolo centrale nella sua crescita. «Se mi hanno spinto? Certo, si sono preoccupati che avessi i migliori insegnanti possibili. È stato stressante? Sì. È stato scomodo? Anche. Ho sentito pressione? Direi di sì. Ma le dico anche che, voltandomi indietro, rifarei tutto». Se si scovano le copertine dei suoi dischi di 15 anni fa, con i capelli corti e scuri, per non parlare dei live in cui sembrava depresso, si stenta a credere a chi si ha di fronte oggi:  un biondo con i capelli raccolti dietro la nuca, una camicia bianca e i jeans attillati, che sembra Curt Cobain. Con la differenza che  David ride di più. Il salto è avvenuto a partire dai 17 anni, quando è stato espulso dalla Royal College of Music: lì ha deciso di prendere la sua vita in mano, iscrivendosi alla Julliard, una specie di Harvard della musica.  Maestri leggendari a parte (il violinista Itzhak Perlmann), in America Garrett ha scoperto i Led Zeppelin e Jimi Hendrix. Per questo oggi riempie gli stadi con lo  Stradivari che diventa la “voce” di Axl Rose, Sting e Micheal Jackson.  Un atto di ribellione a tutti quei severi anni di studi e di reclusione? «Non è così, semplicemente io amo la musica, tutta: dal jazz al pop, dalla classica alla musica dei film», racconta sorridente. «E da musicista trovo innaturale non suonare le cose che amo ascoltare».

(continua…)

Intervista pubblicata su D La Repubblica del 14 settembre 2019

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Charlotte Gainsbourg: «La famiglia che mi porto dentro»

18 lunedì Mar 2019

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Charlotte Gainsbourg, Eric Barbier, giornalismo, Grazia, interviste illuminanti, La promessa dell'Alba, Pierre Niney, Rest, Yvan Attal

DOPO TANTI RUOLI AL LIMITE, ORA L’ATTRICE FRANCESE AL CINEMA È UNA MADRE CHE FA DI TUTTO PER SUO FIGLIO. UNA PARTE, DICE A GRAZIA, CHE L’HA RICONCILIATA CON L’AMORE, GLI ERRORI E GLI ADDII DEI SUOIO GENITORI STAR, IL CANTANTE SERGE E L’ATTRICE JANE BIRKIN

Ho appena visto Charlotte Gainsbourg nel suo prossimo film, La promessa dell’alba di Eric Barbier. Sono certa che sia l’interpretazione  cinematografica migliore della figlia di Serge Gainsbourg e Jane Birkin. Non ci sono scene di sesso, o di morte, e nemmeno atroci  torture, come ci aveva abituati nei film Antichrist e Nymphomaniac del regista Lars Von Trier. Ma nonostante questo, la donna che vedremo sugli schermi dal 14 marzo nei panni di una madre eccessiva e lievemente mitomane mi è sembrata molto più estrema che in passato. Gainsbourg è Nina, madre coriacea, ebreo polacca, che dalla Lituania, fra mille peripezie, porta  il figlio nel sud della Francia per fuggire dalle conseguenze della presa di potere di Hitler in Germania. La storia è tratta dal bestseller autobiografico sulla straordinaria vita di Romain Gary (interpretato da Pierre Niney), uno dei più famosi romanzieri francesi, l’unico ad aver vinto due volte il Goncourt Prize. «Ho girato il film mentre registravo il mio ultimo disco, Rest, non ho mai avuto un parte come questa, in cui presto il volto a una donna fra i 30 e i 60 anni. Avere un altro corpo, un’altra voce, parlare il polacco, sono stati una liberazione per me, ho potuto esplorare un’identità diversa.  Questo film mi ha resa più forte». Libertà è una parola che questa attrice e cantante dalla voce eterea pronuncerà molte volte durante la nostra conversazione. La sensazione è abbia trovato la serenità  e che i tempi in cui si torturava con i personaggi di Lars von Trier siano alle spalle. Così come il lutto che l’ha colpita quando la sorella Kate Barry si è tolta la vita, cinque anni fa: era la persona a cui era più legata in assoluto. Subito dopo si è trasferita a vivere a New York con la famiglia, il regista Yvan Attal e  tre figli Ben, Alice e Joe, 21, 16 e 7 anni. «Non riuscivo più a respirare a Parigi, troppi ricordi dolorosi. Per un po’ di tempo starò via dall’Europa, poi si vedrà».

(Continua…)

Intervista integrale su Grazia del 7 Marzo 2019

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SANREMO 2019- I miei voti alla seconda serata

07 giovedì Feb 2019

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Claudio Baglioni, Festival della canzone italiana, Italia, Musica, Rai 1

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Claudio Baglioni. Un artista di serie A che sembra il fantasma del conduttore dell’anno scorso. Fatto che dimostra una volta in più che un artista deve stare lontano dai giochi politici, possibilmente anche dall’Auditel, altrimenti la paga carissima. Baglioni ci è cascato in pieno, il perché (i perché) sono fatto che si vedrà con se stesso. Voto 6
Achille Lauro. Anche concentrandomi per cercare un motivo che giustifichi il nome che usa,  non l’ho trovato. Il suo pezzo musicalmente non mi dice niente, anzi, mi parla di una persona che non sa dove mettersi, non abbastanza convinta nemmeno di quello che canta. Se poi guardo com’è vestito (e non dovrei farlo, non c’entra), penso anche peggio. Voto 5
Einar. Ha una bella faccia, è giovane. Ma non c’è molto altro in quello che canta. Sembra educato, però, e non è poco. Voto 5.
Il Volo. Cantano bene, per carità. Li ho volutamente ascoltati dall’altra stanza, per non vederli, e la loro voce è attraente. Però mi sembrano studiati e un po’ finti.  Voto 5/6. 
Arisa. È cresciuta, è molto più sicura di sé e si sente da come canta. Perfettamente. Ha preso un bel rischio, con un pezzo complicato che sembra un musical in cui di orecchiabile c’è solo una piccola parte. Diciamo che il suo è un pezzo al limite, ma almeno è originale. Voto 6.
Mannoia-Baglioni. Belli in tutti i sensi. Professionisti a tutto spiano, senza se e senza ma.  Funzionano e basta, e si tira il fiato. Voto 8
Nek. È molto sicuro di sè e sa come si sta su un palco. Il pezzo non è straordinario ma prende, con quel beat. Voto 7.  
Silvestri. Rivederlo è un piacere perché si vede innanzitutto un uomo, qualcuno che è maturato in generale, non nella ricerca di un nuovo look o di un nuovo sound. Il pezzo è proprio giusto, originale, ben incarnato, netto. Il contenuto è molto importante, cosa vogliamo di più? L’accoppiata con Rancore perfetta. 8,5. 
Ex Otago. Alzandomi dal divano un attimo ho pensato che fosse arrivato Jovanotti a cantare, poi ho capito che è colpa della “s”. Per carità, lui è anche carino, e quindi? Voto 5/6. 
Marco Mengoni. Cresciutissimo, e con accanto Baglioni è anche più facile. Insomma, mi è molto piaciuto, se posasse lo sguardo da qualche parte, almeno per un momento, anche meglio. Voto 8. 
Ghemon. Un artista che si fatica a comprendere, che ha una sua originalità. Comunque domani me ne sarò dimenticata. Voto 6. 
Loredana Berté. È una sicurezza, e non ce n’è. È potente, anche nell’anima, e ti inchioda lì. Il pezzo funziona, ti martella per bene, mentre lei fa Vasco. Se poi qualcuno la aiutasse nel ricordarle che le sue gambe sono bellissime, lo sono sempre state, ma che con un altro look forse riuscirebbe a fare due passi su quel palco e sarebbe perfetta, grazie. Voto 7,5. 
Paola Turci. Il pezzo non è male, ma passa in secondo piano perché spinge troppo sull’imporsi fisicamente con i suoi look. Si sente una donna a metà fra la Nannini e Carmen Consoli e ci si ritrova spiazzati. Insomma, non capisco chi è lei. Voto 6. 
Negrita. Non so a voi, ma a me i movimenti del  frontman sul palco fanno passare la voglia di ascoltarlo. E lo trovo al limite del guardabile. Voto 5. 
Federico Carta e Shade. Sono bravini, e la loro canzone è carina. Forse in radio funzionerà anche. Voto 6. 
Pio e Amedeo. Non sono cantanti, ma li voto perché sono di una bravura straordinaria. Naturalissimi, intelligenti, perfettamente autoironici (col nostro paese) e disarmanti nelle verità che sbeffeggiato. Voto 8,5.

Lady Gaga «Ho tenuto stretta la mia musica».

08 lunedì Ott 2018

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A star is born, cinema, F, interviste illuminanti, Lady Gaga, popstar, Venezia 75, Warner Bros

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La cantante e attrice Lady Gaga, nome d’arte di Stefani Germanotta, 32 anni,

Cronaca di un incontro avvenuto in tre fasi all’ultima Mostra di Venezia. La prima, sullo schermo. Struccata, con i capelli castani, in jeans e maglietta, la Ally che canta in un locale per drag queen e non crede nelle sue capacità mi arriva dritta allo stomaco. Mi chiedo quanto la protagonista di A star is born assomigli alla vera Stefani Germanotta, alias Lady Gaga, ragazza della East coast americana con origini italianissime. Poche ore dopo la incontro sul red carpet, e stavolta è biondo platino, avvolta in piume di struzzo rosa. È diversa da Ally ma ridimensionata rispetto al passato (chi se la ricorda da David Letterman in mutande, guepiere, giacca in pelle e maschera neri, solo qualche anno fa?). C’è un altro dettaglio che mi colpisce: inizia a piovere a dirotto, lei non smette di firmare autografi e fare selfie con i fans per 10 minuti cronometrati. Segno di professionalità, ma anche  di generosità. Il giorno successivo la incontro per l’intervista, Gaga indossa un sobrio completo blu con i capelli raccolti.

La popstar da 30 milioni di dischi venduti nel mondo ha due film e la serie tv American Horror Story alle spalle. Ma A star is born, terzo remake del film cult del 1937 è il suo esordio da protagonista. Il ruolo è quello di una cameriera con doti canore che si cimenta in bar frequentati da drag queen  e si innamora di un cantante pop rock che la porterà sulle vette del successo. Anche Gaga, ex compagna di classe di Paris Hilton, è partita dal coro del liceo per poi iniziare a proporre pop music nella New York underground, anche in questo caso cantando fra le drag queen. Poi sono venuti i dischi d’oro, i sold out, le piogge di premi e i tour su palchi vertiginosi, come quello del Super Bowl dell’anno scorso.

Come la devo chiamare? «Gaga o Stefani, come le piace di più. Gaga è un nome partito come scherzo del mio produttore, dal brano Radio Ga Ga dei Queen. Ho iniziato a usarlo per gli show di Burlesque che successivamente ho incorporato nelle performance pop. Ormai è un soprannome, è come un mantra».

 Com’è successo che Bradley Cooper arrivasse a proporle il suo film? «Ero a un evento per la lotta al cancro, c’era anche lui e mi ha sentita cantare La vie en rose. Poi ho ricevuto una sua telefonata, è venuto a casa mia. Mi ha raccontato il suo progetto e guardandolo negli occhi ho sentito una chimica immediata. Siamo entrambe della East coast, e con radici italiane».

Sullo schermo siete esplosivi, cosa ha acceso quel fuoco fra voi? «Il fatto che per molti anni abbiamo entrambe accumulato un talento che voleva esprimersi in un’altra direzione, e quando succede è una specie di esplosione. Dopo 15 minuti che ci conoscevamo stavamo già cantando insieme: mi ha portato una canzone, The midnight special, e la cantava dalle viscere».

Ha cantato al Super Bowl e con Tony Bennett, dove si posiziona la prova attoriale con Cooper? «Sulle stesse vette, e forse più in alto… Perché stavo anche recitando, e Bradley ha dovuto accettarmi in veste di attrice. All’inizio dell’avventura ci siamo stretti la mano e gli ho detto: “Credo in te come musicista”, lui ha risposto “Credo in te come attrice”, e così è stato».

(…continua)

Intervista integrale pubblicata su F del 10 ottobre 2018 

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Federico Zampaglione: «Ogni volta che ho ricominciato».

03 mercoledì Ott 2018

Posted by cristianaallievi in cinema, Musica, Personaggi

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Due destini, Federico Zampaglione, Fino a qui, interviste, interviste illuminanti, Noi casomai, Tiromancino

C’è chi teme anche il più piccolo cambiamento di direzione del vento. Chi si butta a capofitto in nuove avventure. Chi resiste fino all’ultimo, finché gli eventi non lo costringono a saltare. Poi c’è Federico Zampaglione, che è rinato a se stesso almeno tre volte, in modo consapevole. «Per anni mi sono detto “pensa se riuscissi a scrivere canzoni che cantano tutti…”, era quello che sognavo dalla mattina alla sera. Poi quel giorno è arrivato, ho scritto tanti pezzi che hanno avuto grandissimo successo, e mi sono ritrovato intorno a 34 anni a non avere più quella molla, a non sapere più cosa sognare…». Così il leader dei Tiromancino mi racconta di quel momento in cui raggiungi tutto quello che la mente e il cuore hanno sognato, e ti chiedi cosa verrà dopo. E siccome lui non voleva ripetersi a vuoto, si è lasciato alle spalle successi come Due destini, Per me è importante o Un tempo piccolo e si è messo dietro la macchina da presa, sfornando tre film. «Ho vissuto un’altra vita, sono diventato un’altra persona, un regista di film di terrore! Ho viaggiato il mondo con Shadow, l’horror italiano che ha avuto più successo nel mondo negli ultimi 20 anni». Anche sentimentalmente Zampaglione, 50 anni, romano, ha attraversato cambiamenti radicali.  Dopo 11 anni con l’attrice Claudia Gerini, con cui ha avuto Linda, 8 anni, oggi rinasce con una nuova compagna, a cui dedica il singolo di un nuovo disco. Lei è l’attrice pugliese Giglia Marra, e il lavoro discografico disponibile da domani è Fino a qui: quattro brani inediti più nuove interpretazioni di 12 pezzi cult della band cantati in duetto con i grandissimi della musica italiana.

Cade l’occhio sul fatto che in Fino a qui lei canta con Jovanotti, Biagio Antonacci, Luciano Sangiorgi, Tiziano Ferro e altri ancora, 12 artisti top di casa nostra. «Ci sono le pop star più consolidate e anche artisti del rap e della scena più alternativa, come Fabri Fibra e i Thegiornalisti. È un album che abbiamo fatto senza prenderci troppo sul serio, non volevamo fosse solo auto celebrazione».

I musicisti hanno personalità ingombranti, dobbiamo dedurre che lei ha una capacità speciale di fare squadra? «Nasco col blues e con le jam session, incontri di musicisti che non si sono mai visti prima e che improvvisano. Ho sempre avuto una mentalità di apertura, e non ascolto mai la mia musica, se non quando passa alla radio, quindi significa che ascolto quella degli altri».

Jovanotti ha detto sui social che lei ha scritto almeno cinque canzoni che avrebbe voluto scrivere lui. «Mi ha colpito, è uno di quei complimenti che mi porto nel cuore».

La voce di Biagio Antonacci dice “il pezzo è da paura, fatto così by night, con le chitarre… Vieni che lo registriamo da me, nella cantina…”, prima di attaccare con Un tempo piccolo. «È un messaggio vocale che mi ha mandato e che ho voluto inserire all’inizio del brano perché sintetizza lo spirito di questo lavoro, che mi ha divertito moltissimo».

Cosa c’è di nuovo? «Ho imparato a non avere aspettative, ho scoperto che sono un nostro tentativo di controllare tutto, anche il destino, e sono la causa della nostra sofferenza. La vita ha un suo corso, e il bello arriva quando non te lo aspetti».

In Noi Casomai, uno dei quattro brani inediti del disco, dedicato alla sua nuova compagna, canta: “Sei tutto quello che non mi aspettavo/ spero solo che non finirà…”. «Col passare del tempo le cose cambiano, in meglio e in peggio. Di fatto niente resta uguale e la mia è un’esortazione a vivere la gioia di questo momento».

(…continua) 

Intervista pubblicata su Grazia del 27/9/2018 

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