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Cristiana Allievi

~ Interviste illuminanti

Cristiana Allievi

Archivi Mensili: dicembre 2014

Frédéric Tcheng, lo scienziato che racconta la moda (quella di Dior in particolare)

21 domenica Dic 2014

Posted by cristianaallievi in Moda & cinema

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Christian Dior, cinema, Cristiana Allievi, Dior and I, Frederic Tcheng, Moda, Raf Simons, San Pietroburgo

Raf Simons è diventato il designer di Dior e, in appena due mesi, ha lasciato il segno in una delle sfilate cruciali degli ultimi anni. Il regista francese Frédéric Tcheng l’ha convinto a portare sullo schermo questa avventura a metà tra invenzioni, tradizioni ed emozioni. E a Flair, per la prima volta, svela tutto quello che è successo dietro le quinte.

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Frédéric Tcheng, regista francese di Dior and I, incentrato sulla figura dello stilista tedesco Raf Simons.

Bianco e nero. L’ombra di una donna che gira su se stessa con la gonna a ruota viene catturata sui marciapiedi di Parigi. Gli inviti per la sfilata sono scritti a mano. I paparazzi sono aggrappati sui cancelli della maison. La polizia contiene la folla a fatica. Su queste immagini parla una voce fuori campo, quella di Dior, raccontando della presenza di due gemelli siamesi. C’è l’uomo che presiede alle sfilate, che lavora con i suoi dipendenti, che parla con la stampa. E c’è il suo gemello, che predilige la casa di Granville, frequenta pochi amici e soprattutto detesta i cambiamenti repentini. Cinquantacinque anni dopo, colore. La macchina da presa inquadra immagini straordinarie di tetti parigini poi si insinua fin su, in cima al palazzo, nel cuore pulsante della maison Dior. Alle pareti le foto elegantissime del couturier che ha rivoluzionato la moda campeggiano negli algidi corridoi. I sarti indossano camici bianchi e sembrano chimici in un laboratorio, però qui confezionano abiti preziosissimi. I lavoratori, persone semplici, sono chiamati a raccolta nel salone centrale per un grande evento: l’incontro con Raf Simons, il nuovo stilista della maison. L’uomo che deve materializzare una collezione in due mesi quando normalmente ce ne vogliono sei. Dior and I è ghiaccio bollente, un film emotivo nei contenuti e freddo visivamente. Bastano tre minuti di visione per capirne i punti di forza: la sovrapposizione tra passato e presente e la tensione. 36 anni, tre ottavi di sangue cinese nelle vene (suo nonno era cinese, la nonna solo per metà), Frederic Tcheng aveva un sogno: girare un film sulla prima collezione di Simons per Dior. Lo ha realizzato nel 2012, quando il designer belga si è insediato nella casa di moda, e si può dire che l’opera abbia superato se stessa, mostrando l’incontro fra due uomini (tre, se si include Dior) legati da vere e proprie affinità elettive. Quante, lo si capisce incontrando Tcheng di persona, in occasione della presentazione di Dior and I (che è ancora inedito in Italia) alla prima edizione dell’International Mediaforum di San Pietroburgo.

“Sono sempre a caccia di parallelismi tra la moda e il cinema”, l’ho sentita dire poco fa. Perché la interessano? «Il paradosso è che vengo da tutt’altro mondo. Sono un francese cresciuto a New York, mi sono trasferito a Parigi a studiare ingegneria, poi è arrivato il mio grande momento di crisi: non mi vedevo a lavorare come ingegnere per il resto della vita. Nel 2001 ho preso un anno sabbatico, mi sono iscritto a varie scuole di cinema finchè nel 2001 mi hanno accettato a quella della Columbia University».

Un ingegnere che torna all’Università a studiare cinema, questa è la notizia. «(ride, ndr) Ero molto felice di ricevere una formazione valida, dopo la quale è arrivato il progetto Valentino, l’ultimo imperatore. Il mio amico Matt Kapp era produttore del film, stavano andando a Parigi a girare nel castello dello stilista e mi ha chiesto di fargli da assistente di produzione. Mano a mano che le cose procedevano ho curato anche l’editing, alla fine ci ho lavorato cinque anni. È stato il mio ingresso nel mondo della moda».

Poi è venuta la nipote di Diana Vreeland. «Lisa aveva visto il film su Valentino, quando l’ho incontrata. Ha voluto che girassimo insieme Diana Vreeland, The Eye has to travel. A film finito, durante un footage a Parigi per vip ho incontrato Olivier Bialobos, capo della comunicazione di Dior. Gli ho chiesto se le voci che circolavano e che volevano Simons come successore di Galliano fossero vere. In quel momento nemmeno lui lo sapeva».

Aveva lavorato per Jil Sander ma non era molto noto ai media. «È vero, ma ho sempre avuto la percezione che fosse un designer interessante e in qualche modo lo sentivo vicino. E avevo un sogno, fare un film su Simons e la sua prima collezione per Dior».

Come ha reagito Raf alla proposta di ritrovarsi una telecamera tra i piedi, oltre allo stress già considerevole? «Non voleva assolutamente che facessi un film. Non è timido di persona ma non sopportava di stare davanti a una telecamera nè l’idea di uscirne come una star. L’ho tranquillizzato spiegando che ero interessato alla creatività, non a trasformarlo in qualcosa che non è. Mi ha risposto “non riesco a dire né si né no… Vieni una settimana, facciamo una prova”. Colpito dalla mia discrezione, non mi ha chiesto di andarmene. Una settimana è diventata due mesi, venti ore al giorno insieme».

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Raf Simons prepara la sua prima sfilata per Dior

Raf ne emerge come un uomo emotivo e allo stesso tempo molto ingegneristico nel lavorare. Studia, analizza, riflette… «È proprio così, non ci si crederebbe ma ha studiato industrial design, quindi non la moda ma materie pratiche. E la coincidenza è che anche Dior era un architetto, avrebbe voluto fare quella professione, prima di incontrare la moda».

Lei come si è calato nel mondo Dior? «Mi hanno mandato dozzine di libri di foto che ho ignorato. A catturarmi è stato un volumetto grigio, Christian Dior and I, uscito nel 1956, un anno prima della morte. Si capisce dall’incipit che Dior aveva una relazione alienata con la sua immagine e ne parlava allo stesso modo di Raf, che infatti mi ha confessato di aver smesso di leggere il libro dopo tre pagine, era uno specchio troppo forte».

 

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La sfilata così come ripresa nel film Dior and I di Tcheng

(continua…)

 Intervista esclusiva pubblicata du Flair, Novembre 2014

© Riproduzione riservata

Robert Pattinson, «Io, vagabondo in The rover»

15 lunedì Dic 2014

Posted by cristianaallievi in cinema

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animal kingdom, cosmopolis, david michod, Panorama, Robert Pattinson, the rover, Twilight

Con The rover,  nelle sale dal 4 dicembre, Pattinson convince anche gli indecisi. Dopo i lavori con Cronenberg, ecco l’impegnativo film girato con David Michod (regista di Animal Kingdom) che seppellisce definitivamente il passato mainstream di Twilight

Pattinson in The Rover

Sporco, brutto (si fa per dire) ma tutt’altro che cattivo, con i capelli mal rasati, i denti neri, la barba corta biondiccia, eccolo aggirarsi per una landa desolata australiana. Siamo in un’epoca non specificata, dopo il collasso del sistema economico occidentale. Il mondo non ha più né risorse né tantomeno una morale e tra parassiti, reietti e criminali, spicca lui, Rey, fratello minore di un criminale che con la sua band ha rubato l’auto a Eric (Guy Pearce), un vagabondo distrutto dall’odio e dalla noia e mosso dal desiderio di tornare in possesso del suo unico bene. Guardando The rover, “il vagabondo”, nelle sale dal 4 dicembre, del regista di Animal Kingdom David Michod, non si può che concordare con Variety, “Pattinson è la sorpresa del film, Pearce è impressionante”. Il nostro Robert ha studiato molto per essere questo Rey, ferito e, forse solo apparentemente, ritardato: cammina spingendo la testa in avanti e strizza gli occhi, dimostrando ancora una volta quanto le sue abilità performative siano articolate, in generi molto meno mainstream delle saghe dei vampiri. «Per questo film ho fatto tre ore di audizione, per ben due volte, e pensare che le odio… Sono pessimo in quelle situazioni, però poi tutte le volte, quando le supero, mi accorgo di avere più fiducia in me stesso». A sentire queste parole uno non crede che siano di Pattinson, diventato oggetto del desiderio da quando è apparso sullo schermo, in Harry Potter e il calice di fuoco. Da quel momento prima il cinema, poi a ruota la moda e le donne, lo corteggiano insistentemente. E per quanto si continui a salutare ogni nuovo bello che sbuca all’orizzonte come “il nuovo Pattinson”, di fatto continua a esserci solo lui. Va detto, non ha sbagliato un colpo. Da Edward Cullen in avanti, ha sedotto in Cosmopolis di Cronenberg, tanto che al grido “anch’io sulla limousine con Pattinson…” ha conquistato le ultime indecise (se ce n’erano). I maschi? Li ha catturati con l’aplomb del miliardario e i folli testa a testa con Paul Giamatti. Anche in Come l’acqua per gli elefanti di Francis Lawrence ha fatto fuori uno del calibro di Christoph Waltz e si è aggiudicato Reese Wintherspoon con una storia non banale (peccato per il nome affibbiato al suo personaggio: con tutti quelli a disposizione, dovevano chiamarlo proprio Jacob, come il suo rivale in Twilight?).

In Twilight, con la ex Kristen Stewart

E ci piace anche nei panni di questo disperato in salsa apocalittica, di cui spiga così la perdita di umanità: «se devasti il pianeta non esiste più nessuna speranza, cosa vuoi fare, quando non sai nemmeno dove vivere? Ma non so dire quale sia il vero messaggio del film, è interpretabile in molti modi». In questo caos tremendo, lui rappresenta una sorta di innocenza. «Michod non mi ha chiesto di recitare un ideale, però quando l’ho incontrato e gli ho chiesto se ero uomo handicappato mi ha risposto, “no, sei affetto da una sindrome per cui non si cade a pezzi, piuttosto si è come i cani, a cui si tirano calci e loro continuano a tornare da te…». Animal Kingdom per Pattinson è il miglior film degli ultimi 15 anni, e quando gli si fa notare che sta facendo una meravigliosa carriera, non ha dubbi sul segreto. «Dopo Cosmopolis ho capito la cosa più importante: se lavori con degli autori, non sarai mai scontento di quello che fai. Non importa come andrà il film, tu avrai fatto comunque un’esperienza che ti cambia».

L’articolo pubblicato su Panorama del 4 dicembre  2014

© Tutti i diritti sono riservati     

Oliver Stone, «Conosco la forza della rabbia»

15 lunedì Dic 2014

Posted by cristianaallievi in Miti

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angelina jolie, cinema, Cristiana Allievi, Icon, Oliver Stone, Oliver Stone; Panorama; politica; The untold history of United States; Michelangelo di Battista;, Panorama

C’è chi dice sia una prima donna. Ma è più probabile che le tre medaglie al valore conquistate in Vietnam lo abbiano reso un tipo determinato. Il regista simbolo del cinema politico ha accettato di farsi fotografare e di raccontarsi a Cristiana Allievi per Icon, magazine di stile di Panorama, come mai prima d’ora: l’infanzia, i rapporti con i genitori, le radici del suo cinema, la rabbia e l’orgoglio di una generazione di americani.

Oliver Stone

Il regista premio Oscar Oliver Stone

Con gli anni non do più in escandescenze come un tempo, ma m’infurio ancora. D’altronde, non ho certo intenzione di invecchiare scrivendo la mia autobiografia. Continuo a chiedermi il significato delle epoche che ho vissuto. E, soprattutto, se le ho davvero capite. Resta questa, oggi più che mai, la mia priorità».

Figlio di un finanziere repubblicano di Wall Street ebreo e di una parigina, Oliver Stone non si stanca di ripetere che quello che conta, al cinema, è prima di tutto intrattenere. Ma resta un cercatore ossessivo e spietato della verità, un maniaco nello scovare e vagliare fonti per le sue storie. E il ritmo vorticoso di Jfk, i tagli alle interviste di Fidel Castro (Comandante) e ai leader palestinesi (Persona non grata), così come le piste ostinatamente battute dal suo giornalista per raccontare la dittatura militare e l’omicidio di Oscar Romero in America Centrale (Salvador), la dicono lunga sulla sua idea di intrattenimento.
Non conta se i film li ha scritti, come Fuga di mezzanotte, Scarface oConan; se li ha scritti e diretti, da Platoon a Le Belve; o si è semplicemente messo dietro la macchina da presa, come in Ogni maledetta domenica. E non conta neppure se vincono una pioggia di Academy Awards, fanno buchi da milioni di dollari (Alexander) o vengono stroncati prima di nascere, com’ è stato per il biopic su Martin Luther King, bloccato dagli eredi del leader nero spaventati dall’idea che, anziché un’icona retorica, il film raccontasse un uomo in carne e ossa, adultero e lacerato dai conflitti con il suo movimento: Stone aspira sempre a una grandezza di genere immenso. Che non ammette compromessi. C’è chi dice sia una prima donna. Ma è più probabile, invece, che le tre medaglie al valore conquistate in Vietnam lo abbiano convinto una volta per tutte della necessità di dividere il mondo tra chi fa sul serio e chi invece no. Abbandonata l’Università di Yale per arruolarsi nell’esercito, dopo aver scritto un romanzo autobiografico andato malissimo, A child’s night dream, e aver festeggiato tre matrimoni, tre divorzi e la nascita di altrettanti figli, Stone non è certo il tipo da nascondere o vergognarsi di essere finito anche in galera per abuso di droghe e alcol. E quando crede in una storia ci mette sempre la faccia e pure i soldi.

Per il suo progetto più ambizioso di sempre, The untold History of United States, dieci ore di documentario che smontano settant’anni di storia ufficiale americana, ha sborsato di tasca propria un milione di dollari sui cinque necessari. Mentre per il final cut di Alexander, insoddisfatto dei ritmi e dei tempi che la produzione gli aveva imposto, ha deciso unilateralmente di rimettere da cima a fondo le mani sul film.
D’altronde, non si può chiedere a chi ha cambiato per sempre il modo di raccontare la guerra al cinema (vedere alla voce Platoon) di avere un carattere facile. La rabbia di Stone è il motore della sua creazione.

Chi è stato il primo destinatario della sua rabbia?
Mio padre Louis, credo. Quando decisi di partire per il fronte mentre tutti cercavano rinvii. Era un repubblicano conservatore e mi aveva cresciuto nell’upper East Side con il terrore della globalizzazione del potere militare russo e l’odio per il comunismo. Ma non voleva assolutamente che partissi. Come ogni padre, era contro la guerra. E soprattutto riteneva non fosse necessario che ci andassi io, cosa su cui non sono mai stato d’accordo.

Il conflitto a volte rende simili. Che cosa si porta dentro Oliver di Louis?
Mio padre era un uomo onesto, lavorava moltissimo e non ha mai fatto il broker per soldi né ha mai giocato con denaro altrui. Come tanti allora, odiava Roosevelt, perché aveva imposto un mucchio di regole alla borsa e un mare di tasse. Ma chi venne dopo, leader politici come Reagan e Thatcher, fece peggio, spingendo verso ogni sorta di privatizzazione senza preoccuparsi di costruire un vero libero mercato. Una politica che ci ha portato alla follia. Alla fine la finanziaria di mio padre fu divorata da Sandy Weil, l’ex amministratore delegato del gigante della finanza Citigroup: il primo mega banchiere globale, l’uomo che voleva tutto. Mio padre ha finito col pagare commissioni su commissioni. Eppure l’ho visto rimanere leale verso i suoi clienti fino all’ultimo giorno. La borsa allora era un altro mondo. I grossi profitti le banche li reinvestivano nel sociale. Altro che mettersi in tasca il 70 per cento dei guadagni come fa Goldman Sachs.

Non dev’essere stato facile accettare un figlio artista.
Sì, per molto tempo ha pensato fossi solamente un fannullone, e a un certo punto ho iniziato a crederlo anch’io… Ma lo diceva quando avevo 20 anni e non mi ero ancora affermato. Non credeva nel business del cinema, semplicemente. Era qualcosa al di fuori del suo orizzonte, della sua visione limpida ma anche  austera della vita. Prima di morire, però, mi ha detto: “Mi sono sbagliato, questa cosa dei film funzionerà, la gente andrà sempre di più al cinema”. E aveva ragione: negli anni Ottanta l’industria cinematografica letteralmente esplose. E io ero pronto per raccogliere i frutti della mia tenacia. Da giovane ero pieno di tensioni e insicurezze, ma sono state queste le forze che hanno ispirato la mia vita. Il desiderio di fare sempre di più non mi ha ancora lasciato. E credo che in fondo ogni regista faccia quello che fa anche perché si sente insicuro nell’affrontare la vita.

Perché il conflitto, la violenza, è spesso al centro della sua arte?
Corruzione, governi distorti, guerra: li racconto perché sono stati il cuore delle mie esperienze in questo mondo, fin da quando sono nato. Da artista ho cercato di mostrare quello che vedevo come potevo, nel modo più realistico possibile. La violenza è qualcosa che conosco bene. Ma non credo che i miei film siano violenti. Piuttosto fanno vedere gli effetti della violenza. Tutti tranne uno, Assassini nati, dove ho voluto di proposito essere grottesco e far ammazzare 55 persone ai due protagonisti….

La rabbia la spinge a fare certi film piuttosto che altri?
Nel mio caso è diverso, è il genere a cambiare. Quando sono arrabbiatissimo giro un documentario, uso la via diretta per dirlo. Se racconto una storia, invece, è segno che sono più tranquillo.

Sembra capace di sopportare bene gli alti e i bassi. Le ho sentito dire: «A me Nixon piace». Eppure è stato un flop.
La vita è dura, devi guardarla nell’insieme. Alcuni miei film hanno avuto successo, altri no. Dipende da dove tira il vento e se in quel momento hai fortuna o meno. La meditazione mi ha molto influenzato nel modo di vedere le cose, mi ha reso più consapevole, peccato non l’abbia praticata quando ero giovane… Ho iniziato nel 1993, e anche se a volte può essere molto frustrante, se sei regolare diventa un modo di vivere. E poi parte di te.

Oltre a suo padre, chi ha contato per la sua ispirazione?
Mia madre. E anche per me questa è una scoperta recente. Se rivedrà Alexander lo capirà. Quando uscì, nel 2004, mi costrinsero a stare sotto le tre ore e a tempi di lavoro strettissimi. Così, già nel 2007, iniziai a rimetterci mano. La nuova versione che uscirà è quello che avevo in mente. Ho rimesso mano a tutto il girato che avevo e ho proposto un viaggio completamente nuovo, di 3 ore e 26 minuti, nell’anima di un uomo, dalla nascita alla morte. Di un uomo che si è dovuto spingere fino alla fine del mondo per risolvere i conflitti con i suoi genitori.

Sua madre come Olimpia interpretata da Angelina Jolie…
Una donna fortissima, proprio così. I miei genitori lo sono stati entrambi, nonostante le loro incomprensioni. Penso che sia stato un bene, però: se uno dei due fosse stato dominante non ci sarebbe stato quel conflitto, quella frizione interna tra padre e madre, dentro di me, capace di scatenare una battaglia che è diventata il mio motore. Ero figlio unico e, come tutti, ho dovuto sopportare molte più emozioni di quante ne debba gestire normalmente un figlio. Tutto è molto più impegnativo quando sei da solo e la tua famiglia va inesorabilmente in pezzi.

La separazione è dolorosa. Come ha protetto i suoi figli dalla fine dei suoi matrimoni?
Sono stato sposato la prima volta per sette anni, la seconda per tredici e ora lo sono da diciotto (con la coreana Sun-Jung Jung, ndr). In pratica, quindi, è come se fossi sposato da sempre. Sono padre di tre figli, ho avuto i miei alti e bassi e di sicuro sto ancora imparando molto sulle relazioni. Ma cerco di fare del mio meglio per tenere tutto insieme. Nonostante sia stato molto vicino a mio figlio Sean, lo abbia ascoltato e aiutato sempre, ha comunque sofferto molto la fine del mio primo matrimonio. Non ho potuto evitarglielo: lo ammetto.

È un giovane regista, esattamente come lei ai tempi.
È vero, non ha ancora 30 anni e sta cercando il suo primo successo, che io ho avuto proprio alla sua età. Io, però, non avevo contatti in questo settore, mentre Sean è cresciuto circondato dalla regia. Ma non sono sicuro sia un vantaggio, molto sinceramente. È molto pericoloso avere un padre come me: è come bere vino e restarne inebriati. Ed è facile perdersi. Gli auguro il meglio. E anche se non potrò fare carriera al suo posto, vorrei che si convincesse che non mi importa quello che fa, né che cosa diventerà. Per me conta solo l’amore. Quindi, anche se dovesse finire in prigione, come d’altronde è capitato anche a me, sarò lì insieme a lui e lo amerò per come è.

“Nella mia vita c’è stata così tanta follia, ma per fortuna è sempre uscita col lavoro”, ha detto.
Fare film mi ha calmato, rassicurato, ha fatto uscire tutta la rabbia che avevo dentro. Martin Scorsese era il mio professore di cinematografia all’università (tornato dal Vietnam, Stone si è iscritto alla New York University, ndr): era pieno di energia, appassionato. È stato molto importante per me. E un giorno mi ha detto: “Sei stato in Vietnam, sei pieno di rabbia? Mettila nelle tue immagini…”. Con gli anni sono maturato e ho imparato a trasformarla in un’emozione positiva, ma la rabbia serve, anche per cercare la verità che continua a cambiare mentre cresciamo. Così, piano piano, sono maturato e ho trasformato la mia rabbia in qualcosa di positivo e di bello. E se da giovane avevo davanti agli occhi soltanto la guerra, i crimini, la corruzione, la menzogna, ora ho antenne più sottili: adesso sono i rapporti con gli altri al centro della mia attenzione.

Un’ispirazione nuova…
Sarà che sono più vicino alla morte… (scoppia a ridere). Ma vorrei girare qualcosa alla Visconti, qualcosa di simile a Bellissima, per intenderci. Ho sempre trovato straordinaria la passione di quella madre, e la relazione tra padre, madre e figlio mi ha affascinato. E poi adoro la Magnani.

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Stalin, Roosevelt e Churchill in una scena di The untold History of United States di Oliver Stone

In occasione della presentazione della versione per ragazzi del suo Untold History, edita da Atheneum Books e adattata da Susan Campbell Bartoletti, Olive Stone ha dichiarato: «Ho sempre pensato che ai giovani non piaccia la storia insegnata a scuola perché è stata eccessivamente “disneyficata” e resa insignificante dalle scuole americane, con gli Stati Uniti sempre rappresentati come fossero Biancaneve… Nel nostro racconto offriamo una versione più Dr. Jekyll e Mr. Hyde, con la Regina Cattiva che compie parecchie delle malefatte nel mondo. Alla fine ai ragazzi piacciono le storie horror».  (8 dicembre 2014)

 

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Il regista con la Jolie, interprete del suo Alexander

 

Qui la cover story per Panorama Icon con foto in esclusiva di Michelangelo Di Battista

Marzo 2014 © Riproduzione riservata

Quella volta che Brad Pitt mi ha detto: “Non ho più paura della morte”

10 mercoledì Dic 2014

Posted by cristianaallievi in cinema, Festival di Cannes, Quella volta che

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brad pitt; angelina Jolie; cinema; Croisette; Terrence Malik; produttore; Cannes; famiglia; figli

Per Malick doveva essere solo un produttore, poi ha deciso di metterci anche la faccia (“altrimenti chi avrebbe guardato un film così impegnativo?”). Recita senza copione, viaggia di notte  (per i paparazzi) e ha un’idea chiara in testa: i momenti migliori della vita sono quelli che non ha mai pianificato

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La coppia Jolie-Pitt sulla Croisette

È stato la star indiscussa del festival di Cannes. Si è presentato sul red carpet della Croisette con capelli ingellati, pizzetto sale e pepe, occhiali tartarugati e completo bianco. Tocco finale, le catene d’oro bene in vista. Segno che anche quello del sex symbol è un ruolo da interpretare con cura. Perché poche ore dopo, sul red carpet della proiezione ufficiale di The tree of life  – il film scritto e diretto da Terrence Malick che ha vinto la Palma d’oro al Festival di Cannes e che lo vede in veste anche di produttore- Brad Pitt si presenta in smoking, ma con la stessa bellezza magnetica.

La nostra intervista si svolge in un lussuosissimo albergo sul mare. L’attore americano, nel film, è protagonista assieme a Sean Penn e a Jessica Chastain (vedi pagina 52). Arriva nella suite in pantaloni color ghiaccio, maglietta bianca. Stessa catena d’oro e occhiali tartarugati.

La mia leggera tachicardia, mai manifestatasi prima davanti a un attore, mi conferma che probabilmente ho davanti l’uomo più bello del mondo (il quale, tra l’altro, sembra essere perfettamente a conoscenza della cosa). Ma un difetto, mi chiedo, lo avrà? Potrebbe non essere interessante, mi dico, mentre vedo i suoi occhi brillare come diamanti, dietro le lenti gialle degli occhiali.

La storia del film, ambientato negli Anni 50,  è quella di una famiglia e degli eventi che affronta. Lei è il signor O’Brien, un padre autoritario, che ama i suoi figli, ma che ha anche molte aspettative…
«Direi che il mio personaggio è un uomo molto triste, uno che non sente di farcela, oppresso dal sistema che lo circonda. O’Brien è in un circolo vizioso che ha un impatto forte su chi gli sta intorno».

Lei, invece, che padre è? 
«Uno che sta molto attento a non scaricare sui bambini le sue frustrazioni. Quando torno a casa, i miei figli sono incredibilmente consapevoli di quello che mi passa per la testa, ma io non voglio coinvolgerli. Voglio che siano liberi. Quello che desidero per tutte le persone, vale ancora di più per loro».

Ha dichiarato più volte che la morte la spaventa: diventare padre l’ha resa più timoroso o più forte? 
«Ha cambiato tutto. Anche i film in cui recito, altro non sono che un’estensione della direzione presa dalla mia vita. Oggi mi preoccupo molto di più, mi chiedo sempre se i ragazzi sono al sicuro, in ogni momento. La paternità ha cambiato anche il mio modo di scegliere i copioni: adesso so che, un giorno, i miei figli li vedranno. E ci penso due volte prima di accettare una parte».

Il regista del film, Terrence Malick, cinque film in quasi 40 anni di carriera e pochissime interviste, è una specie di figura mitica nel mondo del cinema. Com’è lavorare con lui?
«Malick è un mito, gli voglio molto bene. Gli interessa girare quello che

succede, non ha una tabella di marcia. I bambini del film, per esempio, erano alla loro prima esperienza cinematografica, avevano un armadio pieno di vestiti e lui li lasciava liberi di indossare ciò che volevano. Voglio dire che tutto, con Terrence, è molto autentico. Persino le luci sono quelle naturali».

Sembra che nel film ci sia molta poesia e poca “azione”… 
«Nessuno di noi aveva un copione. Ogni giorno il regista ci dava tre o quattro pagine e dovevamo sviluppare qualcosa a partire da lì. Se vedeva i ragazzi che inseguivano una farfalla, tutto il suo interesse andava lì. Non so se potrei rifare un’esperienza simile».

Perché?
«È sfinente, ma davvero incredibile».

Come influenzerà il suo modo di lavorare? 
«La mia esperienza mi dice che i migliori momenti della mia vita non sono mai stati pensati prima, o pianificati, sono eventi felici che sono semplicemente… capitati. Ecco, vorrei andare sempre più in questa direzione, studiare meno e affrontare di più quello che succede».

Malick non parla con la stampa, non ha ritirato nemmeno la Palma d’oro a Cannes. Come si è sentito a dover rappresentare il film parlando anche al suo posto? 
«In effetti è stato strano farmi intervistare e dire: “Terrence pensa”, “Terrence crede…”. Però capisco la dinamica. Quando lui ha iniziato a lavorare, 20 anni fa, il cinema non era come oggi, non c’era questa pressione per farti andare in giro per il mondo a vendere la tua creazione».

E la propria immagine. 
«Capisco la difficoltà della situazione. Io non ci faccio troppo caso e rilascio volentieri interviste, anche perché ci sono così tanti film sul mercato che non è uno scherzo farsi notare. Però cerco di non farmi coinvolgere troppo».

Anche per lei le cose sono molto cambiate. Ai tempi di “Sette anni in Tibet” non rilasciava interviste da solo, c’era sempre qualcuno seduto accanto a lei. Oggi siamo solo in due…
«Ai tempi non ero preparato, pensavo solo ai film e non ero pronto a tutto quello che comportano. Avere un registratore puntato addosso può essere un incubo e io non sapevo davvero come affrontarlo. Tutto quello che volevo era recitare».

E oggi?
«Sono più vecchio, più maturo, capisco più il meccanismo. Non combatto con

la “macchina” di comunicazione perché ormai conosco le sue regole. Le parole dei giornalisti hanno più importanza, in certe situazioni. Per esempio questo film: The tree of life va discusso, capito, affrontato. In genere sono un tipo schivo, cerco di non commentare tutto e preferisco fare le mie scelte. Indipendentemente da quello che si dice e che si scrive».

Sean Penn, in questo film, è suo figlio. E a Cannes era anche in concorso come miglior attore protagonista di “This must be the place” del nostro Paolo Sorrentino. Cosa pensa di lui come attore? 
«Sean è la ragione per cui ho iniziato a recitare. Era uno dei miei idoli quando

cercavo di capire cosa volessi fare da grande. È uno dei pochi che conoscono il timore, ma allo stesso tempo sanno che cos’è l’amore. E porta questa incredibile qualità nella sua recitazione».

Passiamo alla sua di famiglia e ai suoi sei figli. Li ha portati con sé anche per il film di Malick? 
«Sempre. Io e Angelina (Jolie, la sua compagna, ndr) siamo sempre con loro e lavoriamo sul set uno alla volta in modo da non lasciarli da soli. Nel caso di The tree of life abbiamo affittato una casa in Texas. Siamo molto felici dell’educazione che stiamo dando loro immergendoli in altre culture, in tanti posti del mondo diversi».

Hanno capito che sono figli della coppia più famosa di Hollywood?
«Loro pensano che, per lavoro, raccontiamo storie. Non sanno esattamente che cosa facciamo, quindi non ne sono troppo impressionati».

I suoi figli non hanno visto i suoi film?
«Nessuno. Forse nemmeno Angelina l’ha fatto! Non abbiamo molto tempo libero».

Com’è dover sempre fare i bagagli? 
«In famiglia siamo bravissimi in questa attività, soprattutto Angelina».

Come vi organizzate, visto che ogni mossa di lei e della Jolie muove 

stuoli di paparazzi? 
«Cerchiamo di viaggiare di notte, quando la gente dorme, perché è molto, molto difficile farlo alla luce del sole».

Prima diceva che si preoccupa dei suoi figli e di come giudicheranno i suoi film. Ne teme qualcuno in particolare?
«Una volta mi piacevano i personaggi più irriverenti, ora voglio che i ragazzi sappiano che il loro papà è un uomo maturo».

Ci dobbiamo preoccupare? 
«Sono più consapevole di non essere… “eterno”. Ci sono un po’ di film che voglio fare presto. Non dico che cambieranno il mondo, ma sono storie che hanno un senso. E sono sicuro che lo avranno anche per i miei figli».

Cristiana Allievi

La Locandina di "The Tree of Life" in concorso a Cannes

La Locandina di “The Tree of Life” in concorso a Cannes.

Qui il mio articolo su Grazia

2011 © Riproduzione Riservata 

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