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Archivi tag: Robert Pattinson

Good Time, Robert Pattinson diventa un criminale da applausi

27 sabato Mag 2017

Posted by cristianaallievi in cinema, Festival di Cannes, Personaggi

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Cannes2017, cinema, Cristiana Allievi, fratelli Safdie, Good time, GQ Italia, recensioni, Robert Pattinson

L’ex teenager da botteghino si trasforma una volta per tutte nelle mani dei fratelli Safdie, o meglio della loro «energia autentica e selvaggia». E partecipa alla sceneggiatura di un film che è più volte un pugno nello stomaco. E per cui si aggiudica sei minuti di standing ovation

La nona giornata del festival di Cannes ha proposto il brillante Robert Pattinson di Good Time, diretto dai fratelli Josh e Benny Safdie, due bravi del cinema indipendente. L’ex vampiro di Twilight veste i panni di un disgraziato immerso nelle strade della New York degradata del Queens.

Gli occhi pallati, l’aria tutt’altro che in sé, si trascina dietro, per una rapina in banca, il fratello affetto da ritardo mentale: i due si infilano in un casino via l’altro, in una spirale negativa che non molla lo spettatore neanche per un minuto.

Scappa Pattinson, scappa per tutta la notte, dopo che la sua rapina è andata male, ed è sudato, trafelato e a caccia di una via d’uscita per tutto il tempo. Nella sua trasformazione in “villain” si tinge persino i capelli di biondo platino, e gira per le strade tra delinquenti veri.

A guidarlo è la bravura dei Safdie, che a Cannes avevano già portato Lenny and the kids (e successivamente alla Mostra d’arte cinematografica di Venezia Mad Love in New York). «Abbiamo preparato in film in modo molto speciale», racconta Pattinson, che ha partecipato alla stesura della sceneggiatura. «Amo l’energia dei Safdie, sento che è autentica e selvaggia».

L’attore è ormai di casa sulla Croisette, dove negli anni ha presentato Cosmopolis, The rover e Maps to the stars, ma questo è un film in concorso, ed è un’altra cosa. «Volevamo fare qualcosa di espressamente adatto a lui, e abbiamo lavorato a un’idea di ossessione scrivendo la storia insieme. Ci ha fatto un sacco di domande, Rob è peggio di qualsiasi sceneggiatura, non sapevamo quanta passione avesse».

L’attore inglese è sincero quando racconta che c’è stato qualcosa di mai sperimentato nei film precedenti. «Ho incontrato molte persone che ti dicono di fare tutte le domande che vuoi, anche su dettagli che sembrano stupidi, ma non ho mai trovato questa disponibilità. Stavolta ho sentito che ogni domanda era bene accolta, e che non era mai il momento sbagliato per farla. Non mi era mai capitato nemmeno di sperimentare questo livello di intensità su un set, in cui si guida a 200 all’ora e ci si sente dire “fa niente se i freni non funzionano bene!”, mi sono molto divertito».

In questo film guerriglia style è un vero disperato. «Connie èun uomo a cui non importa di nessuno, ed è inconsapevole di quello che gli accade intorno. È un po’ la stessa cosa che è successa a me come attore, per il resto non ho molto in comune con lui».

I fratelli Safdie hanno messo tutta la loro esperienza passata in un lavoro che flirta col genere pulp e soprattutto con Martin Scorsese. «Non avevamo punti di riferimento, quando abbiamo girato il film, e poi l’ispirazione non viene da altri film, ma dalla vita reale. Per noi contano certe amicizie, e la nostra ossessione per le serie tv sui poliziotti. Si trovano più verità lì che altrove, per questo i poliziotti sono persone con cui vorresti passare un sacco di tempo».

Articolo pubblicato su GQItalia.it

© Riproduzione riservata 

 

Robert Pattinson, «Io, vagabondo in The rover»

15 lunedì Dic 2014

Posted by cristianaallievi in cinema

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Tag

animal kingdom, cosmopolis, david michod, Panorama, Robert Pattinson, the rover, Twilight

Con The rover,  nelle sale dal 4 dicembre, Pattinson convince anche gli indecisi. Dopo i lavori con Cronenberg, ecco l’impegnativo film girato con David Michod (regista di Animal Kingdom) che seppellisce definitivamente il passato mainstream di Twilight

Pattinson in The Rover

Sporco, brutto (si fa per dire) ma tutt’altro che cattivo, con i capelli mal rasati, i denti neri, la barba corta biondiccia, eccolo aggirarsi per una landa desolata australiana. Siamo in un’epoca non specificata, dopo il collasso del sistema economico occidentale. Il mondo non ha più né risorse né tantomeno una morale e tra parassiti, reietti e criminali, spicca lui, Rey, fratello minore di un criminale che con la sua band ha rubato l’auto a Eric (Guy Pearce), un vagabondo distrutto dall’odio e dalla noia e mosso dal desiderio di tornare in possesso del suo unico bene. Guardando The rover, “il vagabondo”, nelle sale dal 4 dicembre, del regista di Animal Kingdom David Michod, non si può che concordare con Variety, “Pattinson è la sorpresa del film, Pearce è impressionante”. Il nostro Robert ha studiato molto per essere questo Rey, ferito e, forse solo apparentemente, ritardato: cammina spingendo la testa in avanti e strizza gli occhi, dimostrando ancora una volta quanto le sue abilità performative siano articolate, in generi molto meno mainstream delle saghe dei vampiri. «Per questo film ho fatto tre ore di audizione, per ben due volte, e pensare che le odio… Sono pessimo in quelle situazioni, però poi tutte le volte, quando le supero, mi accorgo di avere più fiducia in me stesso». A sentire queste parole uno non crede che siano di Pattinson, diventato oggetto del desiderio da quando è apparso sullo schermo, in Harry Potter e il calice di fuoco. Da quel momento prima il cinema, poi a ruota la moda e le donne, lo corteggiano insistentemente. E per quanto si continui a salutare ogni nuovo bello che sbuca all’orizzonte come “il nuovo Pattinson”, di fatto continua a esserci solo lui. Va detto, non ha sbagliato un colpo. Da Edward Cullen in avanti, ha sedotto in Cosmopolis di Cronenberg, tanto che al grido “anch’io sulla limousine con Pattinson…” ha conquistato le ultime indecise (se ce n’erano). I maschi? Li ha catturati con l’aplomb del miliardario e i folli testa a testa con Paul Giamatti. Anche in Come l’acqua per gli elefanti di Francis Lawrence ha fatto fuori uno del calibro di Christoph Waltz e si è aggiudicato Reese Wintherspoon con una storia non banale (peccato per il nome affibbiato al suo personaggio: con tutti quelli a disposizione, dovevano chiamarlo proprio Jacob, come il suo rivale in Twilight?).

In Twilight, con la ex Kristen Stewart

E ci piace anche nei panni di questo disperato in salsa apocalittica, di cui spiga così la perdita di umanità: «se devasti il pianeta non esiste più nessuna speranza, cosa vuoi fare, quando non sai nemmeno dove vivere? Ma non so dire quale sia il vero messaggio del film, è interpretabile in molti modi». In questo caos tremendo, lui rappresenta una sorta di innocenza. «Michod non mi ha chiesto di recitare un ideale, però quando l’ho incontrato e gli ho chiesto se ero uomo handicappato mi ha risposto, “no, sei affetto da una sindrome per cui non si cade a pezzi, piuttosto si è come i cani, a cui si tirano calci e loro continuano a tornare da te…». Animal Kingdom per Pattinson è il miglior film degli ultimi 15 anni, e quando gli si fa notare che sta facendo una meravigliosa carriera, non ha dubbi sul segreto. «Dopo Cosmopolis ho capito la cosa più importante: se lavori con degli autori, non sarai mai scontento di quello che fai. Non importa come andrà il film, tu avrai fatto comunque un’esperienza che ti cambia».

L’articolo pubblicato su Panorama del 4 dicembre  2014

© Tutti i diritti sono riservati     

Jeremy Irvine, «Pattinson, fatti più in là»

23 martedì Set 2014

Posted by cristianaallievi in cinema

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Tag

cinema, Colin Firth, Cristiana Allievi, Fallen, Grazia, Jeremy Irvine, Leonardo DiCaprio, Robert Pattinson, The railway men, Toronto

 Ha solo 24 anni ma ha già Hollywood ai suoi piedi. E nessuna intenzione di diventare un sex symbol. Perché ha capito cosa regala la vera felicità…

936full-jeremy-irvine«Ero a un passo dal mollare tutto e andare a lavorare con mio padre. Quando ti senti dire cinque no a settimana, per due anni, non vedi più un motivo per insistere…». Reduce da Toronto per l’anteprima di The reach, seduto su una sedia, gambe allungate in avanti, parla guardandomi con due occhi blu grandi e sereni. Indossa una giacca in pelle nera e jeans a fasciargli i quadricipiti, ed è educatissimo. Non meraviglia, considerando che è cresciuto a Gamlingay, nella campagna dello Cambridgeshire, con padre ingegnere a madre politica, e forse anche grazie a questo oggi Jeremy Irvine ha davanti a sé uno scenario molto diverso da quello dei suoi esordi: Hollywood lo corteggia, lo stesso dicasi per gli stilisti e i registi. Perché dopo la serie di porte in faccia è arrivato Steven Spielberg a sceglierlo come protagonista di War Horse, un tale successo al box office da trasformarlo istantaneamente da signor nessuno in star. Da lì in poi ha fatto solo scelte intelligenti, come non montarsi la testa e scansare le offerte di franchise per teeneger, cosa che ti riesce solo se hai un mare di fiducia dalla tua. Dopo il successo di Now is good, dall’11 settembre è in Le due vie del destino, di Jonathan Teplitzky e, prossimamente, in quel The woman in Black- Angel of death in cui lo aveva preceduto Daniel Radcliffe. Guardando più in là, il 2015 sarà il suo anno, come protagonista di Fallen, primo capitolo della nuova adult saga scritta da Lauren Kate che lo impegnerà per ben cinque film. Insomma, ho davanti a me un bello che porta i capelli alla James Dean ed è il prossimo Robert Pattinson in circolazione. A me il compito di verificarne la stoffa…

 In Le due vie del destino interpreta la parte di Colin Firth da giovane, e divide il film con lui e la Kidman. Alla sua età ha già lavorato con Ralph Fiennes, Helena Bonham Carter, che effetto le fa volare così alto? «Condividere il set con star di questo calibro mi ha insegnato presto a lasciare da parte pensieri del tipo “sono solo il nuovo ragazzino…”, se ti fai intimorire sei fregato. Ma se penso che Colin, un premio Oscar, mi ha invitato a casa sua a Londra per preparare il personaggio insieme, ancora non ci credo. È un uomo appassionato e alla mano, e ha un gran senso dell’umorismo».

 Due inglesi con un certo aplomb si influenzano anche nello stile? Sul red carpet di Londra, insieme, eravate scintillanti… «Lì eravamo elegantissimi, ma nella vita di tutti i giorni sono più casual di Colin, mi sento bene con skinny jeans e t-shirts e mi vesto più o meno sempre così. Ho anche una collezione di giacche di pelle, tutte nere. Mia madre mi prende in giro, non capisce perché le scelgo tutte uguali. La risposta è che è il colore più facile da indossare, come mi hanno insegnato Dolce & Gabbana».

Con War House Spielberg l’ha trasformata in una star da un giorno all’altro, ma il suo primo ruolo da attore lo ricorda? «Impossibile dimenticarlo. Gli amici della compagnia teatrale shakespeariana mi dicevano che ero perfetto per fare l’albero… (ride, ndr). Di fatto è quello che è successo: la mia prima volta in palcoscenico è stata con due rami addosso».

La molla che l’ha fatta iniziare? «Un grande insegnante di teatro mi ha detto che la scuola di recitazione sarebbe stata pesante come l’addestramento militare. Non so dirle perchè, ma proprio questo mi ha attratto».

Infatti a 19 anni si è arruolato nell’esercito britannico, ma poi è stato rifiutato perché non ha dichiarato di essere diabetico. «(ride, ndr) Ho avuto la tipica fase di ribellione di un teenager, me lo spiego così. Ma tornando all’esercito, per fortuna la mia vita ha preso un’altra direzione».

Lei ha cambiato nome prendendo quello di suo nonno, perché? «C’era già un Jeremy Smith all’actors union, e siccome devi averne uno unico, mi hanno chiesto di sceglierne un altro».

Sua madre è una politica – e tra le altre cose si occupa di ridare una casa ai senzatetto – e suo padre è un ingegnere. L’hanno presa sul serio vedendola in scena, a fare l’albero? «Per due anni nessuno mi ha fatto lavorare, venivo respinto cinque volte a settimana. Il dubbio di aver buttato via il mio tempo mi è venuto, confesso. Stavo per mollare, diciamo per trovarmi un lavoro vero».

(continua…)

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Intervista esclusiva per  Grazia 

©Riproduzione riservata

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