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~ Interviste illuminanti

Cristiana Allievi

Archivi della categoria: Festival di Cannes

Josh O’Connor: «E adesso mi metto a nudo»

28 giovedì Lug 2022

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Colin Firth, Cristiana Allievi, Donna Moderna, Eva Husson, guerra, interviste illuminanti, Josh O'Connor, Mothering Sunday, nudo, Olivia Colman, Secret Love, The Crown, uomini

Il protagonista di Secret Love colleziona ceramiche, adora il giardinaggio, si spoglia senza problemi. E qui fa un invito a se stesso e agli altri uomini: “Dobbiamo capire perché abbiamo avuto così a lungo tanti privilegi. Ed essere più gentili».

di Cristiana Allievi

L’attore inglese Josh O’Connor, 31 anni (courtesy TMDB)

Fa molto caldo nella stanza in cui ci troviamo. Josh O’Connor indossa una camicia bianca di seta con disegni neri ed è seduto su una poltrona. Con un accento molto british mi racconta la sua visione del maschio contemporaneo, mentre scivola in avanti con le gambe, per poi ritirarsi su. Da giovane voleva fare l’attore, ma pensando di non avere la stoffa si è dato al rugby. Gli torna in mente mentre parliamo di Secret Love di Eva Husson, finalmente al cinema dal 20 luglio. Quella che è forse la sua miglior interpretazione di sempre: ambientata nel 1924,  lo vede nei panni di Paul, il figlio di una famiglia di nobili che porta sulle spalle vari pesi: i fratelli morti in guerra, un matrimonio imminente che non vorrebbe e soprattutto  l’amore segreto per Jane (Odessa Young), domestica dei vicini di casa (Colin Firth e Olivia Colman). Lui è nudo per i tre quarti del film,  in quello che è un incontro sublime fra sesso, cinema e scrittura (la storia è tratta dal romanzo Mothering Sunday di Graham Swift). 31 anni, figlio di un insegnante e di un’ostetrica, come principe Carlo d’Inghilterra in The crown ha vinto Emmy e Golden Globe, e molti altri riconoscimenti sono arrivati per La Terra di Dio. A New York, dove vive, fa teatro e film indipendenti e ha un’altra passione insospettabile a cui dedicarsi.

Vado dritta al punto: prima Carlo d’Inghilterra, ora Paul,  un altro uomo costretto dall’etichetta.  Perché sceglie questi maschi che non conoscono la libertà? «Non è mai stata una decisione cosciente, piuttosto una sorta di gioco. Ho incontrato molti  uomini che si misurano con la loro mascolinità e le lotte di potere che questa comporta. Qualcuno mi ha detto di vedere una connessione  fra il principe Carlo e il Johnny Saxby che ho interpretato in La terra di Dio. La mia prima reazione è stata “stai scherzando?”, ma riflettendoci l’idea è convincente:  il principe Carlo era incapace di esprimere le proprie emozioni a causa del suo status sociale, esattamente come Johnny, che appartiene a una classe sociale molto inferiore. Chi come me viene dalla classe di mezzo, riesce molto bene a parlare di chi sta più in alto e di chi sta più in basso».

Il comune denominatore è l’essere “trattenuti”. «È un aspetto che mi affascina molto, ma mi interessa più quel senso di colpa che ha chi sopravvive. Paul è un uomo che eredita uno status in una certa società, e si deve portare sulle spalle il peso e la pressione dei suoi due fratelli morti in guerra, incluso il matrimonio con una donna che non ama ma che tutti intorno a lui amano, è la ricetta per un disastro perfetto!».

Cos’ha a che fare con lei, questo disastro? «Sto esplorando qualcosa che mi sembra interessante, ma non so perché continui a tornare. Sembra che non le stia rispondendo, la verità è che non conosco la risposta».

Come vede questa fase di confronto fra i sessi? «Credo che non sia un caso se vediamo spesso ruoli come quello che interpreto in Secret love. Gli uomini devono comprendere il loro posto nel mondo, e capire perché hanno avuto così tanti privilegi per così tanto tempo. In altre parole, dobbiamo capire come essere più gentili».

Il fatto che la regista sia una donna è un caso? «Neanche un po’. Finalmente abbiamo registe e sceneggiatrici che scrivono personaggi maschili per un pubblico di uomini e di donne.  Diciamo che stiamo rivalutando le cose, ci stiamo lavorando su».

(continua…)

Intervista integrale pubblicata su Donna Moderna del 21 luglio 2022

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A tu per tu con Charlotte Gainsbourg

18 lunedì Apr 2022

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Antichrist, Charlotte Gainsbourg, Cristiana Allievi, GLi amori di Suzanna Andler, interviste illuminanti, Jane Birkin, Jane by Charlotte, Lars Von Trier, Nymphomaniac, Serge Gainsbourg, Yvan Attal

UN PADRE, SERGE GAINSBOURG, MAI DIMENTICATO. UNA MADRE, JANE BIRKIN, SPESSO ALLONTANATA, ORA, A 50 ANNI, L’ATTRICE FRANCESE FA PACE CON I “FANTASMI” DEL PASSATO. GRAZIE A UN MUSEO E A UN FILM

di Cristiana Allievi

(… continua)

Intervista integrale pubblicata su Donna Moderna del 14 aprile 2022

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Sean Penn, di padre in figlia

01 venerdì Apr 2022

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actors, cinema, DEad man walking, directors, Dylan Penn, festival, figli, Flag Day, genitori, Milk, padri, red carpet, Robin Wright, Sean Penn, Usa

di Cristiana Allievi

L’attore, regista e produttore Sean Penn sul set del nuovo film da lui diretto e interpretato Una vita in fuga (Courtesy Lucky Red)

ARRIVA NELLE SALE UNA VITA IN FUGA, E RACCONTA LA VITA DEL PIU’ GRANDE FALSARIO DELLA STORIA USA. È IL DEBUTTO DI DYLAN PENN, PRIMOGENITA DI SEAN, CHE PER QUESTA VOLTA LA SEGUE MOLTO DA VICINO.


Ci sono almeno due volti di Sean Penn. Il primo è quello del (due volte) premio Oscar che si presenta all’intervista con le guardie del corpo. E quando entra dalla porta crea un misto di imbarazzo e meraviglia che fermano l’aria. Poi c’è l’altro Penn, quello della foto che ha fatto il giro del mondo nelle ultime settimane: cammina da solo con il suo trolley, sulla strada che dall’Ucraina lo porta in salvo in Polonia. A guidare entrambi i Penn è l’istinto, non fa differenza che si trovi a raccontare l’invasione russa in Ucraina, come sta facendo in questo momento, o i fili emotivi e misteriosi che legano un padre a una figlia, come vedremo nel suo Una vita in fuga (Flag Day) dal 30 marzo, dopo essere stato in Concorso a Cannes. È la storia del più noto falsario conosciuto in Usa, John Vogel, raccontata dalla figlia Jennifer nell’autobiografia Flim-Flam Man. Vogel (Penn) è un padre che insegna a vivere una vita avventurosa a Jennifer, ma man mano che lei cresce, le sue storie si scoprono sempre meno credibili e più dolorose, fino al tragico finale. A interpretare Jennifer è Dylan, la figlia che il divo americano ha avuto con la ex moglie Robin Wright.  Quando parla di lei papà Penn si illumina.

Cos’ha di personale la storia di Una vita in fuga? «Ho sempre fallito nel rispondere a questa domanda, me ne sono accorto dopo svariati giorni da sobrio. È come spiegare perché mi piace quella donna, non ci riesco. Ho pensato raccontasse qualcosa che volevo approfondire, e quando mi è venuto in mente il volto di Dylan ho visto una grandiosa storia di verità e inganno,  tutti aspetti dello stesso flag day (la festa che celebra la bandiera americana a stelle e strisce adottata il 14 giugno 1777, ndr).

È il primo film in cui recita e dirige insieme, oltre a guidare l’esordio di Dylan. Cercava una nuova sfida per i suoi sessant’anni?  «Il multitasking mi ha sempre attratto e messo in ginocchio allo stesso tempo, non dirigermi era stata una specie di scelta religiosa. Sapevo che mi avrebbe fatto impazzire, e infatti è stata la cosa più dura che abbia mai fatto in vita mia».

L’ha anche costretta ad analizzare i suoi fallimenti come padre? «Da genitore devi riesaminare tutti i giorni il rapporto con i tuoi figli, è la cosa più vera che posso dirle. Ma sapevo dal primo giorno di riprese che sarei stato orgoglioso di Dylan, e che non sarebbe stato un fallimento».

Cosa, invece, non sapeva? «Quanto fosse sofisticata, quanta profondità avrebbe portato al racconto».

John Vogel amava molto la figlia, ma non riusciva ad essere sincero con lei… «La parte che ci siamo goduti io e Dylan riguarda certi aspetti della relazione, le cose che da padre vorresti credere che tua figlia conosca di te, e altrettante cose che una figlia vorrebbe che un padre capisse e sapesse di lei, nel bene e nel male». 

Dylan Penn, interprete del film, al suo esordio da attrice e diretta dal padre Sean (courtesy Lucky Red)

(…continua)

Intervista pubblicata su Vanity Fair del 6 aprile 2022

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Mathieu Amalric che immagina le vite degli altri

08 martedì Feb 2022

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famiglia, Il sole 24 Ore, interviste illuminanti, lutto, Mathieu Amalric, perdita, Stingimi forte, Vicky Krieps

Il suo film “Je reviens de loin” ha per protagonista Vicky Krieps

di Cristiana Allievi

L’attore Mathieu Amalric sul set del suo sesto film da regista, Stringimi forte, con la protagonista Vicky Krieps.

«Nanni Moretti ha apprezzato molto il mio film e mi ha chiesto di presentarlo al Cinema Nuovo Sacher, il 4 Febbraio». Famoso come compagno di James Bond in “Quantum of Solace”, e come l’uomo dalla sindrome locked-in nel capolavoro di Julian Schnabel, “Lo scafandro e la farfalla”, in realtà Mathieu Amalric considera la recitazione un secondo impiego. Il primo è essere un regista, e ce lo ha fatto  capire con la pellicola che lo ha reso famoso, “Tournée”. Ed è già la sesta volta che si mette dietro una macchina da presa, con quel “Stringimi forte”, presentato allo scorso Festival di Cannes, un’esplorazione delle radici del lutto. Tratto da una piece teatrale di Claudine Galea, “Je reviens de loin”, la trama ambigua (ma solo fino al quarantesimo minuto) ha per protagonista un’ottima Vicky Krieps che ci fa viaggiare a ritroso nei meandri di un’anima ferita a causa di uno strappo lacerante.  «L’ho incontrata a Parigi, non avevo ancora scritto il film», racconta il regista francese. «Era il 2019, l’avevo vista solo tre mesi prima in “Il filo nascosto”. Proprio le prime scene del film di Paul Thomas Anderson l’hanno impressa nella mia mente. Fa la cameriera, e a me capita spesso di immaginare le vite che ci sono dietro le facce delle persone che incontro, soprattutto nei ristoranti e nei caffè».

 “Stringimi forte” si ispira a un testo teatrale. «Claudine lo ha scritto 15 anni fa, ma non è mai stato rappresentato.  È immaginato per il palcoscenico, ma molte frasi sono dialoghi interiori, e anche il tempo e lo spazio sono incerti. La storia  è nata da un sogno, dalla visione della mano di una donna su una porta, non era chiaro se fosse viva o morta».

La musica  è un “mezzo” importante, nel film. «Da bambino ho studiato pianoforte, ho smesso a 17 anni quando me ne sono andato da Mosca lasciando la casa dei miei. Ho scritto la colonna sonora del film ricordandomi quello che avevo studiato allora, la Sonata n. 1 di Beethoven, Gradus ad Parnassum di Debussy… Ho continuato la vita di pianista che non avevo vissuto allora, perché sono pigro».

Vive da sette anni con la direttrice d’orchestra e soprano Barbara Hannigan. «Mi ha fatto scoprire Ligeti, con cui ha lavorato personalmente. Nel film c’è quella nota “la” ripetuta che troviamo in “Ricercata 1”. Poi è arrivato Rameau suonato da Marcelle Meyer, una delle prime pianiste a suonare su un vero pianoforte, negli anni Trenta».

Dove vivete, lei e la Hannigan? «In Bretagna, dove ho scritto il film, fra vento, mare, sole e pioggia. Leggendo la storia ho pianto molto, poi sono partito  dalla lista degli oggetti menzionati nella piece teatrale, l’accendino, la macchina, il cavallo… Chiudevo gli occhi per mettere la storia in ordine e per immaginare cosa mostrare sullo schermo e cosa affidare sole alle parole».

Conosce da vicino quel dolore che fa diventare matti? «Come tutti noi. Quando finisce un amore diventiamo pazzi, è come se esplodesse una bomba, tutto diventa frammentato… Immaginiamo cose che non esistono, sentiamo perfino l’odore del corpo dell’altro, che non c’è. E devi trovare un modo per mettere un piede davanti all’altro. Chiamiamolo spiritismo, o spiritualità: tutti dobbiamo  credere in qualcosa, per andare avanti».

Intervista pubblicata su Il sole 24 Ore

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Vicky Krieps, «Il mio posto».

10 venerdì Dic 2021

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cinema, Il filo nascosto, interviste illuminanti, Mia Hansen-Love, Sull'isola di Bergman, Vanity Fair, Vicky Krieps

PER LE DONNE IL TEMPO DEGLI SFORZI E DELLE GIUSTIFICAZIONI È FINITO: DEVONI PRENDERSI IL LORO SPAZIO PROPRIO COME FANNO GLI UOMINI, DICE VICKY KRIEPS. LEI LO HA FATTO, E ODPO UN PERIODO DI CRISI TORNA AL CINEMA, PASSANDO DALL?ISOLA DI UN GRANDE MAESTRO SVEDESE

di Crisitiana Allievi

L’attrice lussemburghese Vicky Krieps, 38 anni, protagonista di Sull’Isola di Bergman (foto courtesy Mubi).

Tiene le braccia incrociate, mani all’insù e gomiti appoggiati sul ventre, per un lungo lasso di tempo. È una presenza  calma e rassicurante, apaprentemente  in contrasto con quel lato punk che, quando aveva 20 anni, l’ha portata in Africa a fare volontariato per evadere da un puntino sulla carta geografica chiamato Lussemburgo. «È il paese più piccolo che ci si possa immaginare, una specie di fiaba, lì nessuna persona è più importante di un’altra…», dice senza inflessioni nella voce, dando lo stesso peso a ogni parola. Madre tedesca e padre a capo di una casa di distribuzione cinematografica, racconta di essere cresciuta in mezzo ai boschi, parlando con gli alberi. E così ti spieghi perché dopo il clamore suscitato da Il filo nascosto di Paul Thomas Anderson invece di cedere alle lusinghe hollywoodiane sia ritornata in Europa, rinunciando a offerte di lavoro importanti. Le ci sono voluti due anni a riprendersi da quella che definisce un’esperienza traumatizzante: una costante esposizione allo sguardo pubblico e una campagna mediatica per gli Oscar in cui le veniva ripetuto che con la stampa si lasciava andare a troppe opinioni personali.  È fuggita, cercando di ritrovare un po’ di pace. Il 2021 è stato l’anno del grande ritorno, soprattutto per il film della regista francese Mia Hanson-Love, Sull’isola di Bergman, uno dei due titoli che l’hanno vista protagonista all’ultimo Festival di Cannes. Nei cinema italiani dal 7 dicembre,  con Tim Roth come altro protagonista, racconta la storia di una coppia di registi che cerca ispirazione fra le pieghe della propria relazione, in un gioco di realtà e finzione, ma anche di creatività e competizione, sull’isola di Faro, nel Baltico, dove il cineasta svedese a cui si riferisce il titolo ha girato alcuni dei suoi capolavori e ha vissuto l’ultima parte della vita. «Sono legata a Mia da un ricordo importante», dice a proposito della regista. L’ho vista da spettatrice, prima che lei vedesse me. Recitava in Fin aout, debut septembre. Ricordo che alla fine della proiezione dissi ai miei amici cinefili “è la prima volta che rintraccio una direzione, che vedo la messinscena dietro il film”. Fu un’esperienza molto forte, ero ancora una ragazzina».

Poi è cresciuta, e le è arrivata la proposta per questo film. «È stata molto dura per me accettare quella proposta. Uscivo da un successo frastornante e da un momento affatto facile da attraversare».

Ci spiega perchè? «Ero diventata un’attrice che alcune persone conoscevano, e prima non era così. Mi sembrava di non poter tornare a casa, da dove venivo, perché qualcosa era cambiato dentro di me. Il punto è che non mi vedevo a fare le valigie e andare a vivere in California. Ero davvero persa. Quando mi ha cercata Mia avevo appena programmato una vacanza con i miei due figli, e mi sono trovata nel conflitto, fra vita privata e lavoro».

Guarda il caso, la regista le offre la storia di una donna che si emancipa e si prende la libertà di trarre ispirazione creativa da ciò che le piace e la circonda.  In Sull’isola di Bergman il mondo è ancora dominato dagli uomini, e il femminile cerca uno spazio proprio… «Ci augureremmo di non doverne nemmeno parlare in questi termini, ma non possiamo ignorare il tema a cui allude, perché non è superato. Fino a poco tempo fa non c’erano nemmeno registe donne, e anche se la situazione sta cambiando dobbiamo continuare a ricordarcelo».

(continua…)

Intervista integrale pubblicata su Vanity Fair del 15 dicembre 2021

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Lea Seydoux, «Seduco quando voglio»

29 martedì Set 2020

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007, Abdellatif Kechiche, Arnaud Desplechin, Bond Girl, Grazia, interviste illuminanti, La vita di Adele, Lea Seydoux, Louis Vuitton, No time to die, Roubaix une lumiere

NELL’ARCO DI UN MESE PASSERA’ DALL’ESSERE UNA DONNA DISPERATA AL RUOLO DELLA BOND GIRL. MA SEMPRE LEA SEYDOUX SA COME CATTURARE LO SGUARDO DEL PUBBLICO. L’ATTRICE FRANCESE HA POSATO IN ESCLUSIVA PER GRAZIA E HA SPIEGATO CHE PER VINCERE, IN AMORE E IN CARRIERA, BISOGNA SEMPRE DETTARE LE REGOLE DEL GIOCO

di Cristiana Allievi

L’intervista di copertina a Lea Seydoux è accompagnata dalle foto di Eric Guillemain (courtesy of Grazia).

Se si dovesse scegliere una frase che la rappresenta bene sarebbe “amo scomparire”. Parole, quelle dell’attrice Lea Seydoux, che non si riferiscono solo alla vita sotto i riflettori di un personaggio pubblico. Lea è una donna che ama nascondersi dietro i personaggi che interpreta. E fuori dallo schermo è estremamente riservata, oltre che timida. Essere cresciuta con due genitori che si sono separati quando aveva tre anni, età che oggi ha suo figlio George, avuto con il compagno, André Meyer, ha lasciato un’impronta. L’attrice, però, ha imparato a mettere questo aspetto del carattere al servizio del suo carisma. In Francia di lei si parla anche per le radici del suo successo, ovvero l’appartenere alla più importante famiglia del cinema nel Paese. Una madre attrice diventata poi filantropa, Valerie Schlumberger, e un padre, Henri Seydoux, magnate delle telecomunicazioni. Ma soprattutto un nonno che è stato il fondatore della Pathé, e un prozio che ha creato Gaumont: parliamo delle due più grandi e antiche case di produzione cinematografica di Francia. Cresciuta vicino ai giardini Luxembourg, in Saint-­Germain-des-Prés, con sei fratelli, in realtà Lea avrebbe voluto fare tutt’altro nella vita. Sognava di diventare una cantante d’Opera, ma il grande amore le ha fatto cambiare idea. È stato quel “lui” attore che non viene mai nominato, a farla invaghire del cinema. Ed è stata una fortuna per tutti, se pensiamo al suo viso, che ammiriamo nel servizio esclusivo delle pagine di Grazia, realizzato sui tetti di Parigi, in cui Lea veste Louis Vuitton, maison di cui è amica da quattro anni. Seydoux ha brillato in tanti film, da Bastardi senza gloria, di Quentin Tarantino, a Robin Hood di Ridley Scott, passando per La vita di Adele, con cui ha vinto la Palma d’Oro a Cannes nel 2013. Da lì in avanti, Seydoux ha continuato a miscelare film d’autore con grandi blockbuster. Una formula che si ripresenta adesso: dall’1 ottobre arriva Roubaix, une Lumiere di Arnaud Desplechin, film d’autore in Competizione a Cannes nel 2019, e di seguito l’attrice sarà per la seconda volta la Bond Girl nel nuovo James Bond di No Time to Die.Occorre tempo, per entrare in sintonia con lei. «Non sono una persona che spinge le situazioni, preferisco attrarle. È il mio modo di essere educata», racconta descrivendo la propria timidezza. Mentre colpisce subito vederla povera, alcolizzata e senza trucco, amante di un’altra donna, nel thriller che la vede accusata di omicidio in un paesino sperduto nel Nord della Francia. 

(continua…)

L’intervista di copertina è su Grazia del 24 settembre 2020

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«Non m’importa di sbagliare per amore», Adele Exarchopoulos

24 lunedì Giu 2019

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Adele Exarchopoulos, Justine Triet, La vita di Adele, Nureyew The white Crow, Palma D'Oro, Sybil

È DIVENTATA FAMOSA CON UN FILN DI SESSO E SENTIMENTI ESTREMI. E ORA SULLO SCHERMO SARA’ LA DONNA CHE SALVO’ LA VITA AL GRANDE BALLERINO RUDOLF NUREYEV. CON GRAZIA ADELE EXARCHOPOULOS HA PARLATO DELLA PASSIONE E DEL PERCHE’ NON VI RINUNCEREBBE MAI

di Cristiana Allievi

L’attrice francese Adele Exarchopoulos fotografata da Eric Catarina (courtesy of Grazia Italia).

Sono passati due minuti da quando ci siamo incontrate e ha già acceso la prima sigaretta. La manicure è in tinta con la tuta rosa di Miu Miu che indossa. Scandisce lentamente il cognome “Ec-sar-co-pu-los”  con un accento così francese da far dimenticare le radici greche che la legano al nonno. Di Adele percepisci l’energia e la complessità anche quando sta in silenzio e ti guarda con grandi occhi neri.  Così mi spiego l’evento del 2013 che ha segnato la sua carriera. Steven Spielberg, allora presidente di giuria a Cannes, ha voluto premiarla per La vita di Adele insieme all’attrice Lea Seydoux e al film stesso: un’eccezione per le dinamiche di un festival con cui il leggendario regista Usa ha voluto sottolineare la magia d’amore e libertà vista sullo schermo. «Continuano a paragonare ogni cosa che faccio a quel film estremo», mi racconta quando glielo nomino. «Ho incontrato poco fa Abdellatif Kechiche e gli ho detto “mi hai rovinata”. Accetto completamente il fatto che lui è le mie radici nel cinema, mi ha dato luce ed è uno dei migliori registi che ho incontrato. Ma chiedo a tutti di guardare avanti…». Intanto dal 27 giugno sarà in Nureyev, The white Crow, il film di Ralph Fiennes che racconta quando l’icona russa della danza ha chiesto asilo politico in Francia in piena Guerra fredda e lo ha ottenuto grazie all’aiuto dell’amica  dell’alta società Clara Saint, interpretata da Adele. Poi sarà la volta di Sybil, di Justine Triet,appena visto all’ultimo festival di Cannes, in cui  interpreta una giovane attrice in crisi sentimentale che cerca l’aiuto di una psicoterapeuta (Virginie Efira). E con cui finirà per ritrovarsi in situazioni surreali.

Figli di un’infermiera e di un chitarrista, ha iniziato a fare l’attrice a soli 13 anni in una serie poliziesca per la tv francese. Poi otto film a fila, prima della svolta. Da allora ne ha girati altri nove, ha cercato di fare i conti con la fama improvvisa e ha avuto un figlio, Ismail, due anni, con il rapper francese Morgan Fremont. Difficile, mentre le parlo, tenere a mente che ha solo 25 anni.

(continua…)

Intervista integrale pubblicata su Grazia del 20 giugno 2019

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Antonio Banderas, «Se solo fossi un poeta»

25 sabato Mag 2019

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Antonio Banderas, Cannes 2019, CAnnes 72, Dolor Y Gloria, interviste illuminanti

GLI AMORI DEL PASSATO E LA DONNA CON LA QUALE OGGI HA CONQUISTATO LA SERENITA’. L’ESPERIENZA DI INTERPRETARE IL REGISTA PEDRO ALMODOVAR NEL FILM CHE PORTA A CANNES. LA SCELTA DI GUIDARE UN TEATRO NELLA SUA SPAGNA. ANTONIO BANDERAS PARLA CON GRAZIA DELLE SUE EMOZIONI, COSI’ FORTI CHE ANCORA NON TROVA LE PAROLE GIUSTE PER ESPRIMERLE

di Cristiana Allievi

«È andata così, a un certo punto nella mia vita l’amore si è preso tutto lo spazio che prima aveva la carriera». Quando incontriamo Antonio Banderas ha voglia di parlare di setimenti, quelli veri, che prova per sua figlia Stella, avuta con la ex moglie, l’attrice Melanie Griffith. «Quello che vedo riflesso in lei è il tipo di donna che amo, e le confesso che mi rende molto orgoglioso». I conti tornano: Stella oggi ha 22 anni, è nata alla fine degli anni Novanta, l’epoca in cui sbarcato in America, il “latin lover” costruiva la sua carriera di star mondiale con Philadelphia, accanto a Tom Hanks, La maschera di Zorro, con la Zeta Jones, e Intervista col vampiro insieme ad altri sex symbol come Brad Pitt e Tom Cruise. «Sono stati anni bellissimi, e in America mi sono anche innamorato e ho messo su famiglia. Per i successivi 20 anni la mia vita ha conosciuto una fase molto diversa da quella precedente», dice. Poi nel 2015 Banderas ha divorziato dalla Griffith, sua seconda moglie, e oggi è legato a Nicole Kimpel, la consulente finanziaria conosciuta cinque anni fa proprio a Cannes e con cui vive nel Surrey, a sud di Londra. Atteso a Cannes il 17 maggio,  sarà la star più fotografata del Festival di Cannes il giorno in cui verrà proiettato Dolor Y Gloria, lo stesso giorno  in cui uscirà al cinema e in cui interpreta Salvador Mallo, un regista sul viale del tramonto alle prese con ricordi, depressione e potenza dirompente della creazione artistica. In pratica Banderas racconta la vita del regista del film, Pedro Almodovar, l’uomo che 37 anni fa lo volle in Labirinto di passioni, il primo di otto film insieme. La somiglianza fra i due è impressionante. «Mi sono immerso in un contesto in cui tutto era suo, dalla casa ai mobili della cucina al resto dell’arredamento, incluse le scarpe e molti dei vestiti che indosso. Poi ci sono i capelli, mi hanno pettinato proprio come Pedro».

Cosa le ha detto per trasformarla in se stesso? «“Se pensi che in qualche sequenza ti possa aiutare imitarmi, puoi farlo”. Gli ho detto che non era necessario, preferivo che il personaggio emergesse da dentro di me».

Anche la depressione che mostra sembra reale. «Perché la conosco, è vera, l’ho vissuta anch’io. Qualche tempo fa sono finito in ospedale, è bastato non potermi muovere come prima per iniziare a pensare a tutto quello che è accaduto nella mia vita. Ho capito molte cose, sono cresciuto». 

Almodovar l’ha fatta tornare a un personaggio intenso e profondo, come quelli che recitava prima di lasciare l’Europa. Cosa prova oggi quando guarda l’America? «Dipende, gli Usa sono tante cose insieme, anche in Italia non si mangia solo pizza… C’è il lato oscuro, soprattutto in politica, fatto di populismo, nazionalismo, estremismo, ma c’è anche l’innocenza, quel modo adorabile di creare cose dal nulla. In Europa ci portiamo un gran peso sulle spalle, siamo lenti quando ci muoviamo, lì sono pratici e molto più veloci. E Melanie per ha rappresentato qualcosa che mi faceva perdonare i peccati commessi dall’America».

Addirittura? «Certo, infatti l’ho sposata. Ha qualità come bellezza, generosità e allo stesso tempo vulnerabilità, le stesse che ho visto anche negli occhi di Marilyn Monroe e di Ava Gardner. È un femminile molto speciale, che in un certo senso rappresenta una nuova nazione, una nuova speranza, un progetto fatto di molte persone di diverse razze e religioni che convivono insieme. È un esempio di come potrebbe essere il mondo, con tutti i problemi che comporta. C’è qualcosa che ho amato in quegli occhi e che è difficile da spiegare: parlare d’amore e di come ti innamori non è facile, devi essere un poeta».

(continua…)

Intervista integrale pubblicata su Grazia del 16 maggio 2019

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C’era una volta a Hollywood, di Quentin Tarantino

22 mercoledì Mag 2019

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Brad Pitt, C'era una volta a Hollywood, Cannes 2019, CAnnes 72, DiCaprio, Margot Robbie, Quentin Tarantino

Dopo tanta attesa, poche ore fa sulla Croisette abbiamo assistito all’anteprima mondiale di C’era una volta… a Hollywood di Quentin Tarantino. Nella sala Lumiere, alle 16.30, è stato letto un messaggio ufficiale del regista: “Cari giornalisti amanti del cinema, vi preghiamo di non diffondere dettagli sul film che ne rovinerebbero la visione. Fate che sia la stessa che avete avuto voi”. Solo a lui è concesso di fare certe cose, diciamolo, e non meraviglia, perché per il regista che 25 anni fa ha vinto qui la Palma d’Oro per Pulp Fiction sulla Croisette c’è un tifo da stadio. E alla fine della proiezione si contano sei minuti di standing ovation per lui e il cast presente.

Questo è forse il film più tarantiniano di Quentin Tarantino, che ne è regista, scrittore e produttore. Ci ha messo dentro il suo adorato western e il cinema dei generi, i suoi ricordi da giovane, le serie tv di culto come FBI, i produttori, le star di un tempo, i set di Hollywood. A distanza di poche ore da Nicolas Bedos, che anche lui con il suo ottimo La belle Epoque ci ha fatto vedere il cinema dentro il cinema.

L’ambientazione, senza spoilerare, è nel 1969 e precede noti fatti criminali  avvenuti a Hollywood. La storia ruota intorno a Rick Dalton (uno straordinario Leonardo DiCaprio), idolo della tv, che vive un momento di cambiamento  nella carriera. Al suo fianco c’è il compagno storico, il suo stunt Cliff Booth, interpretato da Brad Pitt (un figurino, con abbronzatura californiana). I due sono molto amici e cercano di cavarsela nell’ultima fase della golden age di Hollywood, con Rick che vive in una casa sulle colline e ha come vicini di casa i Polanski, mentre Cliff ha come dimora una roulotte con il cane e la tv. Dopo aver girato un grosso western, Rick accetta di andare in Italia a girare lì quattro film con Sergio Corbucci (che Tarantino ama e che ha omaggiato con Django). Torna quindi a Los Angeles con moglie italiana e un bel po’ di soldi. Una volta a casa lui e Cliff si ritrovano per una memorabile serata di sbronze che culmina in un tripudio di cinema destinato a passare alla storia (e che non riveleremo per rispettare la richiesta del regista).

Il racconto è pieno di salti temporali, in avanti e indietro, e come al solito porta cambiamenti alla storia. Sul set si incrociano personaggi favolosi interpretati da Al Pacino, Dakota Fanning, Kurt Russell, e Luke Perry poco prima della sua scomparsa. Per godere della presenza di tutti occorrerà aspettare il 19 settembre, mentre gli Usa anticipano al 26 luglio, esattamente  a distanza di 50 anni dai terribili fatti di cronaca che racconta.

Leggi cosa mi è piaciuto del film e cosa meno nel mio articolo per GQ.it

Pubblicato il 22 maggio 2019

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Antonio Banderas, «Adesso divento Pedro»

16 giovedì Mag 2019

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Antonio Banderas, Cannes 2019, CAnnes 72, Dolor Y Gloria, GQ Italia, interviste illuminanti, Pedro Almodovar

Nella lunga conversazione avuta con Antonio Banderas a Madrid, l’attore e produttore mi ha parlato della sua esperienza con la morte, per prima cosa. Ovvero di quando, due anni e mezzo fa, ha subito tre interventi al cuore e ha toccato la morte da vicino. Fatto, questo, che lo ha riavvicinato alla vita e che ha lasciato tracce visibili in lui. E mentre l’icona latina di Hollywood faceva i conti con quello squarcio apertosi su qualcosa di vertiginoso, sulla scena della sua vita si ripalesava un mentore. Anzi, il mentore, Pedro Almodovar, a sua volta pronto per un film epocale. È così dopo essere stato Dalì, Pancho Villa, Picasso e Mussolini -solo per citare i personaggi realmente esistiti che ha incarnato- Antonio Banderas si è trovato a interpretare l’uomo che 37 anni prima lo aveva notato, fuori da un caffè di Madrid.  Hanno fatto sei film insieme, Banderas è diventato una star europea. Ma lui voleva di più, voleva Hollywood. Così è volato Oltreoceano, costringendo Almodovar a incassare un duro colpo. E dopo anni di successi clamorosi al botteghino, deve aver sentito il richiamo della profondità dei personaggi di Pedro, così i due si sono ritrovati in Dolor Y Gloria, nelle nostre sale dal 17 maggio, in contemporanea con la proiezione al Festival di Cannes, in Concorso. Una prova di recitazione minimalista ma della massima efficacia, la materializzazione di una connessione fra anime per cui Banderas interpreta Pedro stesso. E per cui, ne siamo certi, entrambi avranno riconoscimenti importanti. La nostra conversazione è avvenuta il giorno dopo la visione di Dolore e Gloria a Madrid.

L’intervista è pubblicata sul GQ Italia, numero Maggio/giugno 2019

© Riproduzione riservata

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