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~ Interviste illuminanti

Cristiana Allievi

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Paola Cortellesi, «Siamo tutte figlie di Nilde Iotti»

01 lunedì Mar 2021

Posted by cristianaallievi in Attulità, cinema, Cultura, giornalismo, Miti, Mostra d'arte cinematografica di Venezia

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Come un gatto in tangenziale, Grazia, interviste illuminanti, Iwonderfull, La befana vien di notte, La reggitora, Leonilde, Nilde Iotti, Paola Cortellesi, Peter Marcias, Riccardo Milani, Sky

In tv legge le lettere e i pensieri della prima presidentessa della Camera, la pioniera di tante battaglie femministe. «L’ho sempre ammirata» , racconta a Grazia l’attrice, «perchè grazie a lei la politica non ha più potuto ignorare le donne»

di Cristiana Allievi

  • L’attrice e sceneggiatrice Paola Cortellesi, 47 anni, sul set di Nilde Iotti, il tempo delle donne (foto di Francesca Cavicchioli)

Paola Cortellesi ha usato bene questa pandemia. Ha appreso cose nuove di sè. Ha rivoluzionato le sue abitudini. Ha superato i propri limiti. Me lo racconta in questa chiaccherata in cui sembra che la primavera, intesa non solo come stagione,  si affacci alla finestra.   «Ci stiamo allenando a vivere le alternative nel quotidiano, a pensare con un’altra testa. La prima volta il lockdown ci aveva presi alla sprovvista, adesso ci stiamo abituando al fatto che non si può programmare troppo», racconta con tono pacato, «e a tratti si può anche essere meno produttivi. Io ho imparato ad amare la calma, e ora voglio conservarla». È questa la promessa che fa a se stessa l’attrice record d’incassi come La Befana vien di notte  e Come un gatto in tangenziale. Un’artista che ormai è anche sceneggiatrice dei suoi progetti, in questi giorni impegnata proprio nella revisione del testo di Petra 2 – la serie tv Sky in cui è single  e anaffettiva – e nelle prove di abiti e trucco della stessa serie, poco prima di iniziare le riprese. Nel frattempo il docu film di Peter Marcias che sarebbe dovuto uscire in sala a novembre si fa largo in rete (il regista firma anche un libro con prefazione di Cortellesi, La Reggitora, edito da Solferino). Nilde Iotti, il tempo delle donne è già disponibile sulle piattaforme di #Iorestoinsala, e dal 25 febbraio lo sarà anche su quelle di #IWONDERFULL, infine dal 10 aprile arriverà su Sky Tv.  In questo straordinario omaggio a Nilde Iotti, prima donna a diventare presidentessa della Camera, nel 1979, Cortellesi ci restituisce il suo pensiero facendo da cerniera fra le immagini contemporanee, con testimonianze delle amiche più care e di figure di spicco della cultura e della politica di quegli anni, e le magnifiche scene di repertorio. E quando riapriranno i cinema la vedremo nel sequel di Come un gatto in tangenziale, diretta dal marito Riccardo Milani con cui ha una figlia, Laura, 9 anni.

Nilde Iotti è una figura importantissima, raccontarla dev’essere stato impegnativo. «Avevo già raccontato Iotti nello spettacolo teatrale Leonilde. Narrava le vicende anche personali, che diventarono presto di dominio pubblico. Peter Marcias aveva visto lo spettacolo e mi ha voluta come filo conduttore nel suo documentario, per dar voce alle sue lettere personali».

Sono testi struggenti.  «Privatissimi e inaccessibili per 40 anni. Strappano il cuore, per la bellezza e la cura con cui pesava ogni parola».

Iotti ha ha precorso molte battaglie femminili. Nel 1956 fondò l’Associazione delle donne e iniziò a combattere per una settimana lavorativa di quattro giorni, la parità nella visione, l’aborto e il divorzio. «Diciamo che ha combattuto per la parità, anche dei coniugi, quando per le donne non c’erano nemmeno i diritti di base. Ci sono lettere in cui racconta come veniva guardata in quanto figura di potere, con tanto di commenti che facevano su di lei. Sentiva di avere addosso un giudizio costante, ma non voleva scimmiottare un uomo per essere credibile».

Si innamorò perdutamente di Palmiro Togliatti e fu uno scandalo: lui era un uomo sposato, lei pagò la scelta sentimentale. Oggi sarebbe uguale? «Sarebbe diverso, proprio grazie alle sue battaglie».

 

Che ricordi aveva di questa politica? «Essendo nata nel 1973, è stata il primo Presidente della Camera che ho conosciuto. Ricordo che avevo un forte senso di rispetto per lei, per le sue dure battaglie e per quel suo rischiare la vita, senza alzare mai la voce. La cosa che trovo straordinaria è quel modo di muoversi e di parlare che, seppur morbido, non toglieva un grammo di forza all’efficacia delle sue azioni. Soprattutto, Iotti era una donna che sapeva ascoltare gli altri».

Paola, lei è stata una delle prime donne a firmare il manifesto “Dissenso comune”, tre anni fa esatti, in tempi di #Metoo contro gli abusi e le molestie. È servito? «Il #Metoo è nato come denuncia e reazione davanti a molte cose non dette e che andavano denunciate, come assalti e violenze. Noi ci siamo ispirate ai diritti della donna in generale, a tutto ciò che viene prima di arrivare alle azioni più deprecabili. Per quanto mi riguarda mantengo alta l’attenzione, e non mi riferisco solo agli uomini ma a come ci muoviamo nella società, perché c’è un problema culturale,negli atteggiamenti e nelle parole, difficilissimo da scardinare».

(continua…)

L’intervista integrale è pubblicata su Grazia del 25/2/2021

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Gaia Bermani Amaral, «Il mio cuore sa aspettare».

08 lunedì Feb 2021

Posted by cristianaallievi in Attulità, cinema, Cultura, Netflix

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Anni Cinquanta, Film, Gaia Bermani Amaral, interviste illuminanti, Italia, L'ultimo paradiso, Riccardo Scamarcio

di Cristiana Allievi

L’attrice Gaia Bermani Amaral, 40 anni (courtesy Andrea Ciccalè, Grazia)

L’ABBANDONO DA PARTE DI PADRE BRASILIANO. GLI INIZI CON LA PUBBLICITA’, POI LA SCOPERTA DEL CINEMA. IL ROMANZO CHE STA SCRIVENDO. L’ATTRICE E MODELLA GAIA BERMANI AMARAL RACCONTA A GRAZIA LE SVOLTE IMPREVISTE DELLA SUA VITA E L’OCCASIONE DI RECITARE UN FILM CAPACE DI METTERLA ALLA PROVA: UNA STROIA D’AMORE TRAVOLGENTE CON RICCARDO SCAMARCIO

La intercetto, non vista, mentre sta armeggiando con Zoom. Si sta preparando al nostro incontro, e in epoca di connessioni virtuali sappiamo tutte cosa significa: trovare  l’angolazione in cui la luce fa l’effetto migliore sulla nostra faccia. Non glielo dirò, durante il nostro incontro di lì a poco, ma la schiettezza della voce che ho sentito in quel frangente mi ha dato l’impressione di una persona solare, a cui non daresti i 40 anni che ha. Gaia Bermani Amaral è una modella nata a San Paolo, con madre italiana e padre carioca, che a nove anni è stata catapultata dal Brasile in Italia. Studi classici al Parini di Milano, si iscrive a Lettere finché uno spot della Tim con cui gira l’Italia in barca a vela, diventando di colpo molto popolare, la strappa ai libri. «Ero molto giovane e mi sentivo impreparata, temevo di bruciarmi», racconta con sorriso grande e voce squillante, e mi ricorda molto  Julia Roberts. Invece quell’esperienza è stata l’inizio di tutto, l’esordio al cinema, con un film d’autore come I giorni dell’abbandono di Roberto Faenza,  la conduzione di Bi-live  sul canale musicale All music, il video clip di Afferrare le stelle, di Bennato, poi le serie tv come Capri e A un passo dal cielo. Dal 5 febbraio  la vedremo per la prima volta in un ruolo da protagonista in L’ultimo paradiso, accanto a Riccardo Scamarcio coproduttore e cosceneggiatore del film. Scopro con questa conversazione che  il regista del film Netflix, Rocco Ricciardulli , è anche il suo compagno, e che la storia è ispirata a una vicenda realmente accaduta a un parente della sua famiglia. Siamo nell’Italia del Sud, anni Cinquanta. Bianca (Amaral) ama Ciccio (Scamarcio), che però oltre a essere sposato con un’altra donna (Valentina Cervi) è anche  in conflitto con i proprietari terrieri, uno dei quali è il padre di Bianca. I due amanti progettano una fuga, ma un delitto d’onore li fermerà. Fino a qui è tutto vero, segue una chiusa poetica su cui non spoileriamo.

Come racconterebbe L’ultimo paradiso? «È la storia di un amore impossibile, con un finale simbolico, quasi surreale. Essendo milanese ho dovuto prendere lezioni di pugliese, il regista voleva che avessi solo un po’ di cadenza, essendo la figlia di un proprietario terriero non dovevo parlare il dialetto ma essere credibile in quei panni».

A cosa ha attinto per essere credibile come una donna del Sud? «Alle mie radici sudamericane, a quella sensualità che si respira in Brasile. E poi se da un lato sono molto dolce, dall’altro sono fumantina, ho spinto molto su questa parte del mio carattere».

Come ha avuto la parte? «Sono stata privilegiata, il mio compagno è il regista del film, non credo che altri avrebbero creduto in me per questo ruolo. Siamo insieme da quasi sette anni, ho sentito il suo racconto nel 2015 e ne sono rimasta colpita. Ho avuto tutto il tempo di entrare nella storia, che in realtà è accaduta in Lucania ma che noi abbiamo girato in Puglia».

(…continua)

Intervista pubblicata su Grazia del 4/2/2021

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Soko, finalmente consapevole di sorprendere (ancora)

03 mercoledì Feb 2021

Posted by cristianaallievi in arte, cinema, Cultura, giornalismo, Musica, Personaggi

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A Good Man, cinema, Cristiana Allievi, D La repubblica, giornalista, interviste illuminanti, Soko, The dancer

di Cristiana Allievi

L’attrice e cantante francese Soko, 30 anni (courtesy http://www.amyharrity.com)

Dall’altra parte del monitor la luce è abbagliante. A Los Angeles una donna si raccoglie i capelli dietro la nuca. Sorride, scherza, ammicca. Nella stanza accanto un bimbo si è appena addormentato, e quando si risveglierà lei esisterà solo per lui e per il loro momento di gioco insieme. Una normale scena famigliare, non fosse che dall’altra parte dell’Oceano c’è Soko, al secolo Stéphanie Sokolinski, l’artista che fino a una manciata di anni fa era nota per due motivi: essere la ex fiamma di Kristen Stewart e la musa di Gucci. Lo scenario, oggi,, sole californiano incluso, è molto cambiato per la polistrumentista, cantautrice e attrice nata a Bordeaux, ma di origini polacche. Si è lasciata alle spalle una vita con la valigia in mano e una serie di relazioni instabili, e ha ceduto al richiamo ancestrale di diventare mamma di  Indigo Blue (“abbiamo scelto il nome dalla canzone dei The Clean”), partorito due anni fa, che sta crescendo con la compagna Stella. “Sono in un relazione con una donna del mio sesso, e ho un bambino, sì, è possibile”, dice con un tono serio ma con un sorriso. Con il suo curriculum esistenziale, era perfetta per A good man, il film diretto da Marie-Castille Mention-Schaar in cui interpreta Aude, una donna che ama Benjamin, un transessuale (interpretato magnificamente da Noémie Merlant, la star di Ritratto di una donna in fiamme) e che non può avere bambini. Sarà proprio Benjamin a sacrificarsi per la coppia,  non avendo ancora completato la transizione a uomo. Basato su una storia vera, il film uscirà nelle sale francesi il 3 marzo (da noi prossimamente) mostra molto non detto sulle conseguenze psicologiche delle scelte della coppia, per esempio quando uno dei due rinuncia alla carriera per stare con l’altro. «Per la maggior parte della mia vita sono stata al posto di Ben, nelle relazioni», racconta. «Ho sempre vissuto correndo e ho preso grandi decisioni di vita dicendo ai miei partner  “io faccio questo, vuoi farne parte?”. Mi hanno seguita sui set, in tour o in qualsiasi cosa avessi già programmato, e lo hanno fatto a costo di grandi sacrifici. Ho sempre voluto lavorare su questo aspetto, riuscendo a far sentire l’altra persona speciale, e soprattutto ascoltata».

Nel 2006 il nome di Soko era balzato alle cronache per aver registrato I’ll Kill Her con un telefonino e avere spopolato su Myspace. E come si conviene a una donna che vive(va) di contrasti, da attrice ha attirato l’attenzione nei panni di una donna dell’Ottocento,  Augustine, la prima paziente “isterica” dalla storia della medicina.  Mentre è stato Io danzerò a regalare la fama internazionale, con la sua straordinaria rappresentazione di Loïe Fuller nel film basato sul romanzo di Giovanni Lista. L’anno dopo quel successo si è rinchiusa a scrivere le proprie storie. Il risultato è stato un terzo disco, Feel Feelings, uscito lo scorso luglio, con un video del singolo Are You a Magician? diretto dall’amica di lunga data Gia Coppola, nipote di Francis Ford. Un disco che celebra l’amore, naturalmente di ogni tipo, e che sembra frutto anche di una nuova consapevolezza. Arriva forte e chiara dai suoi ragionamenti. «Pensa che la maternità mi abbia cambiata?», sdrammatizza.

(continua…)

L’intervista integrale su D la Repubblica, 30/1/2021

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Elio Germano: «È ora di sognare in grande».

10 giovedì Dic 2020

Posted by cristianaallievi in arte, cinema, Cultura, Miti, Netflix, Politica

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Elio Germano, Giorgio Rosa, Grazia, idee geniali, interviste illuminanti, L'incredibile storia de L'isola delle rose, Rimini Sessantotto

di Cristiana Allievi

Nel suo ultimo film Elio Germano è un ingegnere che realizza un’idea impossibile: costruire un’isola artificiale al largo della Romagna. «Adesso dovremmo avere tutti», dice, «l’entusiasmo di chi osa per dare un futuro migliore a tutti»

L’attore e cantante Elio Germano, 40 anni.

È di Elio Germano uno dei primi esperimenti mondiali di teatro in realtà virtuale. Con tanto di occhiali e cuffie, ha fatto immerge gli spettatori in una dimensione che confonde immaginario e reale.  Segnale d’allarme – La mia battaglia VR, tutt’ora in cartellone nei teatri italiani, non mi viene in mente per caso. Anche il personaggio che gli ho appena visto interpretare nel film di Netflix, disponibile dal 9 dicembre, è un ingegnere emiliano realmente esistito che ha avuto un’idea molto brillante.

Elio Germano  è diventato padre per la seconda volta, da poco. Ma difende la sua vita privata come un leone difende i suoi cuccioli. «Che elementi hai per dire che sono padre?», mi chiede quando accenno alla sua vita famigliare. Nel film L’incredibile storia de L’isola delle rose, diretto da Sydney Sibilia e prodotto dallo stesso con Matteo Rovere, è Giorgio Rosa, un uomo che nel Sessantotto si è inventato speciali pali d’acciaio su cui costruire un’isola al largo di Rimini. Una superficie di cemento di 400 metri quadri, fuori dalle acque territoriali, proclamato poi stato indipendente, che ha attirato presto l’interesse di stampa e gente in fuga da mezzo mondo.

Nel Sessantotto, anno in cui è ambientato il film, non era nemmeno nato. Come si è preparato a quell’universo? «Una persona molto presa da quello che studia, com’è l’ingegnere che interpreto, è un po’ la stessa in tutte le epoche. Sono quei tipi d’uomo che  non guardano nemmeno a come si abbottonano la giacca o si pettinano i capelli. Non hanno idea di quello che fa il loro corpo, sono tutti persi nella loro mente».

Stavo per dire che con i capelli rossicci un po’ più lunghi del solito, e giacche favolosamente eccentriche, ha il look migliore di sempre. «Che però il mio personaggio indossa con distrazione, un po’ come fanno questi geni di oggi, che poi sono più geni della vendita che dell’ideazione di un prodotto. Penso ai ragazzi della silicon valley, con quesi look monocromatici fatti di maglietta nera e jeans».

L’ingegneria è mai stata nei suoi piani? «Ho frequentato il liceo scientifico e mio padre è un architetto. Gli ho dato una mano in studio per un po’, quindi una possibilità c’è stata. Ti costringono a prendere una direzione a soli 14 anni, quando le uniche certezze che hai sono ciò che fanno i tuoi genitori i tuoi genitori, e mio padre aveva frequentato lo scientifico».

Però? «Io con la matematica non avevo feeling, all’Università ho scelto Filosofia».

Facoltà in cui trionfano le idee, come sull’isola delle rose. «La differenza è che l’ingegnere in questione ha un’idea geniale e la concretizza, direi quasi che prima di avere un’idea l’ha già costruita. Il suo intento è stato costruire qualcosa nel mare che si reggesse da solo. La sua invenzione più importante, e brevettata, sono pali telescopici simili all’antenna delle vecchia tv ma che funzionano al contrario: invece di andare verso il cielo, scendono sott’acqua, riuscendo a infilarsi nel terreno e a sopportare un grande peso».

(continua…)

Intervista pubblicata su Grazia del 17 dicembre 2020

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Olivia Colman – Un’altra stagione per sua Maestà

14 sabato Nov 2020

Posted by cristianaallievi in arte, Attulità, cinema, Cultura, Netflix, Personaggi, Politica

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corona, D La repubblica, Elisabetta II, Inghilterra, interviste illuminanti, Olivia Colman, reali, The Crown

REGINA PERFETTA SUGLI SCHERMI, L’ATTRICE INGLESE CI PARLA DELLE NUOVE ANTAGONISTE NELLA SERIE (VEDI LADY D) E DI COME SIA PRONTA A DEPORRE LO SCETTRO

Il premio Oscar Olivia Colman, protagonista della quarta stagione di The crown, sulla cover di D La Repubblica del 14 novembre 2020.

di Cristiana Allievi

Nessuno sa mai cosa accade veramente nella famiglia Windsor, eccetto i Windsor.  E anche questo caso non fa eccezione: nessuno sa se Elisabetta II abbia mai visto la serie tv che racconta la sua vita e quella della famiglia reale, tanto più che per scrivere di loro, e rappresentarli in una fiction, non occorre avere autorizzazione da parte degli interessati. Mentre fonti autorevoli sostengono che i giovani rampolli di corte si siano piazzati davanti a The crown, l’unica certezza è che il nome di Olivia Colman resterà negli annali. La sua interpretazione della regina d’Inghilterra è magnifica, e la quarta stagione su Netflix dal 15 novembre lo marcherà  in modo netto. Il destino dell’attrice si è avverato grazie a un greco visionario, Yogor Lanthimos, che l’ha voluta in un film surreale in cui chi non trovava un partner entro 45 giorni veniva trasformato in un animale e spedito nella foresta (The Lobster). Subito dopo lo stesso le ha fatto indossare i sontuosi abiti di Anna Stuart, regina settecentesca dalla salute cagionevole e dal carattere umbratile. Al potere dal 1702 al 1714, e divisa fra due amanti del suo stesso sesso e 17 conigli (a ricordarle i figli, tutti persi), questa sovrana le è valsa un Oscar, un Golden Globe e la Coppa Volpi a Venezia. Poi è venuta l’Elisabetta della serie scritta da Peter Morgan che, nonostante ora si trovi a fronteggiare l’arrivo in scena della destabilizzante Diana Spencer, futura principessa del Galles, resta il fulcro intorno a cui tutto ruota. Perché mai come in questa stagione si capirà cosa significhi davvero far parte del regno più potente al mondo e far brillare solo lei, come un sole.

(continua…)

Intervista di copertina pubblicata su D la Repubblica del 14 novembre 2020

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Greta Thunberg, «Troviamo un vaccino anche per il pianeta».

07 sabato Nov 2020

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Climate change, Covid 19, docu film, Greta Thunberg, I am Greta, interviste illuminanti, summit clima 2030, svolta green

CON GI SCIOPERI PER IL CLIMA GRETA THUNBERG HA DATO VITA A UN MOVIMENTO GLOBALE PER FERMARE IL SURRISCALDAMENTO TERRESTRE. HA PARLATO ALLE NAZIONI UNITE, CONQUISTATO IL PAPA E LE SUE IMPRESE SONO ORA RACCONTATE IN UN DOCUMENTARIO. LA PANDEMIA HA PURTROPPO RALLENTATO LA RIVOLUZIONE ECOLOGISTA E LEI DICE A GRAZIA “L’EMERGENZA SANITARIA E QUELLA AMBIENTALE SONO COLLEGATE. DOBBIAMO AGIRE SUBITO”.

di Cristiana Allievi

L’attivista svedese Greta Thunberg, 17 anni (courtesy Torinotoday).

Greta Thunberg è stanca. Si è capito quando, all’ultima Mostra del cinema di Venezia, è stato presentato  I Am Greta – Una forza della natura, il docufilm su di lei. L’anno scolastico era appena ricominciato e l’ecoattivista svedese non voleva perdere le lezioni che aveva saltato per buona parte dell’anno passato, quindi aveva disertato la Laguna e l’opportunità di portare in Italia il suo messaggio contro il surriscaldamento globale in uno dei luoghi che più hanno da temere dall’innalzamento delle maree.
In realtà Greta è entrata nella fase due della sua battaglia. Dopo aver creato uno dei più significativi movimenti globali della storia recente, vuole fare un passo indietro e agire in maniera diversa. Nel frattempo, però, è diventata un’icona globale, come dimostra il documentario di Nathan Grossman che doveva essere al cinema in questi giorni e che è stato rimandato a causa della chiusura delle sale italiane in seguito all’emergenza Covid.  Il film inizia nell’agosto del 2018, con una giovane studentessa di 15 anni che si siede davanti al Parlamento svedese. Silenziosa, se ne sta dietro a un cartello che invita a fare uno sciopero per manifestare contro il cambiamento climatico. In pochi mesi, accompagnata ovunque dal papà, quella ragazza si troverà alla testa di un movimento globale. Persino il Papa, con una pacca sulla spalle, le dirà: «Brava, vai avanti così». Il racconto culmina con l’incredibile viaggio fatto del 2019 in barca a vela nell’Oceano Atlantico, viaggio che da Plymouth la porta a New York, all’Onu, per parlare al Summit sul clima. Sono immagini che, in poco più di un’ora e mezza, polverizzano le dietrologie che per mesi hanno voluto Greta in mano a qualche misterioso burattinaio. Così come è chiaro che la piccola svedese non ha mai cercato un’esposizione personale, tanto meno la gloria.  Nel momento in cui i Paesi europei stanno discutendo nuovi obiettivi climatici per il 2030 e parlano di una “virata verde” per uscire dalla crisi economica del Covid-19, lei chiede di più. E la sua richiesta è più che mai significativa, considerato che gli scienziati hanno già evidenziato la forte correlazione che esiste fra inquinamento e diffusione del Coronavirus.

(continua…)

L’intervista a Greta Thunberg è in edicola su Grazia del 5 novembre 2020.

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Chloe Sevigny

14 mercoledì Ott 2020

Posted by cristianaallievi in cinema, Cultura, Sky

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adolescenza, Chloe Sevigny, interviste illuminanti, Luca Guadagnino, omosessualità, Sky, We are who we are

DA ATTRICE FENOMENO INDIE DEGLI ANNI NOVANTA AD ATTRICE, REGISTA E MAMMA OUTSIDER 2020: NELLA VITA E IN WE ARE WHO WE ARE, LA NUOVA SERIE TV DI LUCA GUADAGNINO

di Cristiana Allievi

L’attrice e regista Chloe Sevigny, 46 anni, candidata ai Golden Globe e agli Oscar. Attualmente nella serie tv We are who we are, su Sky (courtesy Who What Wear).

Capelli corti. Bomber. Black boots. Non bastasse il look,  a ricordarle che è una donna determinata è la sua fidanzata, che la incoraggia con un “sei nata per comandare”. Suo figlio, un millennial ossigenato con lo smalto bicolore i cui desideri sessuali sono tanto effervescenti quanto confusi, le dice invece di odiarla. Del resto, lo ha sradicato dall’amata New York offrendogli in cambio una base militare americana in Veneto. È questo l’incipit intrigante di We are who we are, la serie tv Sky HBO in otto puntate di Luca Guadagnino di cui Chloë Sevigny, 46 anni, è protagonista. Ma la conversazione prende una direzione che non potrebbe essere più diversa da Sarah. «Ho appena avuto un figlio, si chiama Vanja e ha tre mesi. Il nostro lockdown è stato speciale, eravamo concentrati sul bambino e non ci dovevamo preoccupare di altre cose che di solito occupano la vita quotidiana. Abbiamo creato una routine tutta nostra prima che arrivasse, e quando è nato è entrato in una specie di bolla. Lo abbiamo nutrito e lui ha nutrito noi». E quando parla di “noi” Chloe Sevigny si riferisce al padre di suo figlio, il serbo Sinisa Mackovic,direttore della Karma Art Gallery di New York. «È il mio compagno, non ci siamo ancora sposati.  Un’amica artista voleva presentarci da tempo, ci siamo trovati per caso a una festa e ci siamo guardati a distanza». Un bel contrasto quello fra la Chloe che parla della sua vita vera e quella della serie di Guadagnino, in cui porta la famiglia a vivere a Chioggia in una base militare americana, completamente ricostruita dalla produzione per la serie tv. Con una compagna, Maggie (Alice Braga), in servizio nell’esercito Usa come lei, e il timido quattordicenne Fraser (Jack Dylan Grazer), un figlioalla ricerca della propria identità sessuale. «Sono cresciuta in un’epoca in cui il solo argomento era un taboo, ora è mainstream», racconta l’attrice e regista la cui carriera è iniziata proprio con quel Kids che aveva al centro sesso e droga, ed è proseguita con Boys don’t cry, in cui amava un transgender. L’apice della trasgressione però lo ha raggiunto con The Brown Bunny, in cui la fellatio (vera) al regista, Vincent Gallo, aveva fatto il giro del mondo partendo dal festival di Cannes.

(continua…)

Intervista di copertina pubblicata su D La Repubblica del 10 ottobre 2020

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Pierfrancesco Favino: «Le mie bambine sono tutto per me».

09 venerdì Ott 2020

Posted by cristianaallievi in Attulità, cinema, Cultura, Mostra d'arte cinematografica di Venezia

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bambini, Donna Moderna, famiglia, fantasia, figli, interviste illuminanti, Padrenostro, padri, Pierfrancesco Favino, terrorismo, Vision Distribution

di Cristiana Allievi

Suo papà gli ha insegnato a credere nel lavoro, nell’onestà, nella generosità. E ora l’attore, protagonista dell’emozionante Padrenostro che gli ha regalato la Coppa Volpi a Venezia, cerca di fare lo stesso con le 2 figlie: «Ogni energia è per loro»

L’attore e produttore Pierfrancesco Favino, 51 anni (courtesy The walk of fame).

Un padre negli anni di piombo. Un premio vinto per quel padre all’ultima Mostra del cinema di Venezia. E le parole pronunciate durante la cerimonia. « Un grande maestro diceva che i film sono come le stelle. Io dedico il premio a tutte le stelle che ancora nasceranno, e al brillare degli occhi nel buio». Adesso sono gli occhi di noi spettatori a brillare vedendo Pierfrancesco Favino al cinema  in Padrenostro. Però se gli si fa notare che – dopo questa Coppa Volpi che va a sommarsi a tre Nastri d’argento e 4 David di Donatello (solo per citare qualche premio), a 51 anni non è più solo un bravo interprete ma rientra nella categoria degli attori cult, lui sdrammatizza: «Penso che nella vita arrivi un momento in cui quello che si fa è veramente quello che si è». Padrenostro, che lo vede anche nelle vesti di produttore, è  ispirata a una vicenda accaduta alla famiglia del regista Claudio Noce. Siamo nel 1976 e Valerio (Mattia Garaci) è un bambino di 10 anni la cui vita viene sconvolta da un attentato terroristico ai danni del padre (Favino). Da lì in avanti la paura domina la sua vita, rafforzando la sua già sviluppata immaginazione. Finché non arriva Christian (Francesco Gheghi), poco più grande di lui, a fargli compagnia.

Cosa significa questo film per te? «Riguarda la mia infanzia, qualcosa che non solo mi ricordavo ma che mi coinvolgeva in prima persona. Parla di uomini che  conosco. Mio padre e quello del regista appartengono alla stessa generazione, hanno atteggiamenti simili nel modo di essere maschi. A loro era complicato parlare direttamente».

Chi eri tu a 10 anni? «Un bambino che andava a letto dopo il Carosello, e che dal suo lettino sentiva parlare i propri genitori e quelli degli amici, senza che loro lo sapessero. Quel tipo di famiglia, come la mia, decideva che non dovevi avere le preoccupazioni dei grandi, ma tu sentivi che quella preoccupazione era presente. E provavi una sottile angoscia».

(continua…)

Intervista pubblicata su Donna Moderna dell’8 ottobre 2020

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«Sono stato un papà severo», Alessandro Gassmann

10 giovedì Set 2020

Posted by cristianaallievi in arte, cinema, Cultura, Mostra d'arte cinematografica di Venezia

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Alessandro Gassmann, Mauro Mancini, Mostra del cinema di Venezia, Non odiare, Notorius Pictures, rai cinema, Soah, Venezia 77

di Cristiana Allievi

«A LEO HO DATO LO STESSO TRATTAMENTO CHE HO RICEVUTO IO», CONFESSA L’ATTORE E REGISTA, CHE A VENEZIA PRESENTA NON ODIARE. UN FILM CHE TOCCA TEMI IMPORTANTI: LA VIOLENZA CHE CIRCOLA SUL WEB E CHE HA PRESA SUI PIU’ GIOVANI

Fra i suoi film più belli ci sono Il bagno turco e Caos calmo. Ma nonostante il cinema d’autore gli stia a pennello, sono i ruoli sul piccolo schermo ad aver fatto di Alessandro Gassmann uno dei volti più amati del cinema italiano. Come quello di Giuseppe Lojacono in I bastardi di Pizzoflacone 3, la serie di Rai 1 di cui sono iniziate le riprese interrotte per il Covid. A 55 anni il suo fascino non è diminuito, anzi: da quando, vent’anni fa, conquistò le dodici pose del calendario di Max in versione dio greco, si è approfondito. E ora lo vedremo in un ruolo maturo che fa già discutere. Non odiare, dal 10 settembre al cinema, esordio alla regia di Mauro Mancini proiettato in anteprima mondiale alla Mostra di Venezia. Prodotto da Mario Mazzarotto per Movimento film, con Rai Cinema e Notorious Pictures, lo vede nel ruolo di un chirurgo ebreo che si tira indietro dal soccorrere un uomo coinvolto in un incidente stradale. Il motivo è la svastica tatuata sul suo petto. Un film forte, che si ispira a fatti realmente accaduti alcuni anni fa in una sala operatoria tedesca.

Non odiare tocca temi delicati come Soah ed estremismo di destra: una scelta rischiosa anche per un attore. «Lo spunto è proprio il motivo per cui ho accettato il film, mi ha colpito. È la prima volta che mi viene offerta una storia equilibrata sull’argomento, che cerca di capire come nasce un fenomeno e come potrebbe tornare. Perché l’unico modo per evitarlo è lavorare alle sue origini, che sono paura, ignoranza e smarrimento. Per questo Non odiare è un film importante».

C’è anche un legame con tuo padre Vittorio, che aveva una madre ebrea. «La nonna era di Pisa, e come tutti all’epoca  ha dovuto italianizzare il suo cognome da Ambron in Ambrosi. Mio padre salvò la famiglia perché era un giocatore di pallacanestro di serie A, e il regime fascista idolatrava gli atleti».

Oggi la violenza dove si scatena di più? «È molto trainata dai media. Di colpo la generazione di mio figlio ha smesso di seguire la tv e ha iniziato a informarsi solo con la rete. Ma mentre la tv è fatta da persone che hanno studiato e sono dei professionisti, in rete tutti dicono tutto e soprattutto tutti valgono uno. La confusione è totale, chi non ha i mezzi per discernere è perduto».

Su Twitter hai più di 275mila follower. «Trovo doveroso per un personaggio pubblico far sentire la propria voce, soprattutto se ha seguito. Lo faccio con grande coscienza e senso di responsabilità».

(… continua)

Intervista integrale su Donna Moderna – 3 settembre 2020

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Il senso di un percorso

23 domenica Ago 2020

Posted by cristianaallievi in Cultura, giornalismo, Quella volta che

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Cosmopolitan, Cristiana Allievi, editori, giornalismo, Hearst, interviste illuminanti, maestri di giornalismo, Mondadori

di Cristiana Allievi

RITROVARE NEL CASSETTO L’INVITO A UNA FESTA A CASA DI LEONARDO MONDADORI, MI HA FATTO FARE IL PUNTO DEGLI ULTIMI 20 ANNI DI APPASSIONATO LAVORO

Per raccontare questo invito devo fare un passo indietro.
Tutto iniziò alla fine del 1999, che già sembra un titolo di fantascienza. Gli americani sbarcarono in Italia per riaprire un giornale che negli anni Settanta e soprattutto Ottanta nel nostro paese fu un cult. Una rivista  che tutti compravano e tutti leggevano, ma di nascosto,  avvolgendola nel quotidiano per non farsi notare: era troppo trasgressiva, sexy ed emancipata per il pubblico di allora.Alla fine del 1999 l’idea di riaprire la testata in team con la Mondadori fu un evento clamoroso per l’editoria. L’allora vicedirettore di Io Donna, Silvia Brena, scelse un pool di giovani donne fidate con cui lavorava da tempo nella redazione del femminile del Corriere della Sera, fra cui me. Una delle cose più incredibili che ricordo erano le riunioni con gli americani di Hearst, che in Usa avevano fondato il giornale a fine Ottocento, partendo con un rotocalco per famiglie. La sterzata su sessualità, carriera ed emancipazione femminile con Helen Gurley Brown, che ha tolto i pannolini da casa e ha rivestito le donne a colpi di  gioielli  e scollature profonde.  Tornando alle riunioni, per me furono la scoperta di un modo completamente nuovo di pensare e  quindi di scrivere. Passavo le giornate a smontare e rimontare i pezzi perché quello che era il must del giornale era una specie di tabù per il resto dell’editoria: dare del TU ai lettori. Non si trattava solo di un cambio di pronomi personali. Venendo dal rigore di Io donna significava ribaltare un modo di comunicare, con se stessi e con il pubblico. Bisognava andare al cuore delle cose, scoprire se valevano per sé e poi condividerle come si fa quando si ha un consiglio prezioso da dare a un amico. Ci feci anche una tesi di giornalismo, tanto fu forte l’impatto che ebbe su di me questa direzione. Quando finalmente il primo numero fu pronto per andare in edicola eravamo elettrizzate. Figuriamoci quando l’editore in persona ci invitò una ad una per andare a festeggiare l’evento con la redazione internazionale made in Usa, a capo di 56 edizioni nel mondo. Andai da un sarto di Viale Piave a Milano che mi confezionò un abito in shantung di seta che ho ancora nell’armadio.
Ne approfitto per ringraziare i maestri che ho incontrato agli inizi della carriera, che mi hanno insegnato tutto e hanno tirato fuori il meglio di me preparandomi a quella  nuova fase. All’epoca non ero così consapevole  della fiducia e degli incarichi, a volte incredibili, che mi avevano affidato. Oggi onoro il percorso. 
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