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~ Interviste illuminanti

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Ruben Ostlund: «Vi mostro il lato spiacevole della natura umana».

21 lunedì Nov 2022

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Cristiana Allievi, interviste illuminanti, Palma D'Oro, Panorama, Ruben Ostlund, satira, The square, Triangle of sadness, umanità, Woody Harrelson

MAMMA COMUNISTA CONVINTA, FRATELLO CONSERVATORE DI DESTRA. LUI AFFASCINATO DA KARL MARX E OSSERVATORE DELLA REALTA’ ATTRAVERSO LA LENTE DI UNA SATIRA GRAFFIANTE. IL REGISTA SCANDINAVO RIVELA ANEDDOTI E RETROSCENA DEL SUO NUOVO TRIANGLE OF SADNESS (AL CINEMA) VINCITORE DELLA PALMA D’ORO A CANNES

di Cristiana Allievi

Il regista Ruben Ostlund, 48 anni, fotografato dalla moglie Sina. Ha vinto la seconda Palma d'Oro all'ultimo festival di Cannes.
Il regista Ruben Ostlund, 48 anni, fotografato dalla moglie, la fotografa di moda Sina Ostlund. Ha vinto la seconda Palma d’Oro all’ultimo festival di Cannes.

È uno dei registi scandinavi più celebrati e premiati. In abito grigio, pochi minuti dopo che iniziamo a parlare sgranocchia pistacchi e non smetterà di scavare la coppa che c’è sul tavolo fino alla fine dell’intervista.  48 anni, due figlie avute da un matrimonio precedente e un figlio nato dal legame con la nuova moglie, la fotografa di moda Sina Görcz, Ostlund è noto per film provocatori che raccontano aspetti spiacevoli della natura umana. I due più recenti, The square e  The triangle of sadness, hanno vinto la Palma d’Oro, rispettivamente nel 2017 e  lo scorso maggio. Da quando gli sono arrivati i riconoscimenti più significativi del cinema, racconta a Panorama, ha ricevuto anche molte offerte, non ultime quelle dalle società di streaming. Finora le ha rifiutate perché non vuole rinunciare alla libertà di autodefinirsi che ha oggi con la sua società di produzione, la Plattform. Dopo essere stato accolto con ovazioni dalla stampa a stelle e strisce, The tringle of sadness è tra i film più visti. Intanto per il regista di Goteborg si parla di Oscar, addirittura in più categorie considerato che è di nuovo autore della sceneggiatura e che questo è il suo primo film in lingua inglese. Il punto di partenza, come sempre, è l’osservazione dei comportamenti comuni. I protagonisti, Carl and Yaya (interpretata dalla modella sudafricana morta all’improvviso lo scorso agosto a 32 anni, per una presunta infezione virale ai polmoni, ndr), modello e influencer, sono invitati per una crociera a bordo di un superyacht di ricconi al cui comando c’è un infervorato capitano marxista (Woody Harrelson). Sarà un’avventura dall’esito catrastrofico, con i sopravvissuti abbandonati su un’isola deserta e comandati a bacchetta da quella che prima del naufragio era la  donna delle pulizie.

A cosa fa riferimento il triangolo del titolo? «È la zona fra le sopracciglia che è spesso corrucciata e crea rughe che il chirurgo estetico, usando il  Botox, spiana in 15 minuti. La società contemporanea è ossessionata dall’immagine, molto meno dal benessere interiore».

Questo film è più duro del precedente. «Mentre terminavo le riprese ho pensato al personaggio di Christian di The Square e  a quello di Thomas in Force Majeure. Sembra una trilogia sull’essere uomini, in cui tutti i personaggi cercano di cavarsela con l’idea di chi si suppone dovrebbero essere e  ciò che ci si aspetta da loro. E io li metto in trappola per vedere come si comportano». 

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(continua..)

Intervista integrale pubblicata su Panorama n. 47 del 16 Novembre 2022

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Emma Thompson, «La mia prima volta nuda».

10 giovedì Nov 2022

Posted by cristianaallievi in arte, Attulità, Berlinale, cinema, Cultura

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Casa Howard, Emma Thompson, Il piacere è tutto mio, interviste illuminanti, Orgasmo, piacere, Ragione e sentimento, Sesso, Sesso dopo i sessanta

IN IL PIACERE È TUTTO MIO L’ATTRICE INGLESE CI REGALA, A 63 ANNI, UN’INTERPRETAZIONE EMOZIONANTE E CORAGGIOSA. E UNA GRANDE LEZIONE DI LIBERTA’: «GUARDIAMOCI SENZA GIUDICARCI»

di Cristiana Allievi

L’attrice Emma Thompson, 63 anni e due premi Oscar (Courtesy Donna Moderna) intervistata da Cristiana Allievi per il film Il piacere è tutto mio, di Sophie Hyde.

Non ha mai avuto un orgasmo vero in trent’anni di matrimonio. Adesso che il marito è morto, però, Nancy è determinatissima a recuperare. Assolda Leo, sex worker di professione, e da brava ex insegnante, si presenta ai loro incontri con un elenco di “cose da fare”: in cima, il sesso orale.  Leo, uomo piacente e di un pezzo più giovane di lei, ha ampie vedute su molti argomenti, e questo la spiazza.  I loro appuntamenti, sempre nella stessa stanza d’albergo, all’inizio fanno emergere la sua frustrazione, poi la spingono ad accettare e includere una visione nuova del piacere.

A 63 anni Emma Thompson, che amiamo da oltre trenta per la bravura e la profondità, ci regala una delle sue interpretazioni migliori.  Figlia di due attori, laurea in Lettere a Cambridge, sposata in seconde nozze con l’attore Greg Wise (con cui è diventata cittadina onoraria di Venezia), dal 10 novembre la due volte premio Oscar sarà protagonista di Il piacere è tutto mio di Sophie Hyde. Un “percorso” che parte come un’esplorazione dell’intimità per diventare una riflessione sulla liberazione, grazie all’altro, dei nostri limiti.

Come ha reagito quando le hanno proposto questo film? «Katy Brand, la sceneggiatrice, è un’amica da molti anni. Mi ha mandato il copione dicendomi “l’ho scritto con te in mente, cosa ne pensi?”. La mia risposta alla lettura è stata viscerale, era la storia più bella che avessi mai letto. “Amo i temi, amo queste due persone, facciamo il film”, le ho risposto. Così abbiamo cercato insieme Daryl, l’attore che interpreta personaggio di Leo, il viaggio si è costruito giorno dopo giorno».

Questo ruolo la espone molto a livello fisico. «”Espone”, che verbo interessante! Qualsiasi cosa faccia come attrice, uso il mio corpo, ma non sono mai io: recito qualcuno, che in questo caso è piuttosto diverso da me. È vero che nel film c’è un momento di grande esposizione fisica, il mio nudo integrale, ma arriva alla fine ed è molto ben gestito. Tutto di quel momento è significativo, e io mi sentivo nelle mani sicure di Sophie. Abbiamo parlato molto di quella scena, prima di girarla».

Per esempio come posizionare le luci, considerato che è stata così audace da farsi riprendere in piedi, davanti allo specchio? «Esatto, volevo che tutto fosse autentico e onesto, perché in quel momento corpo ed emozioni sono un tutt’uno. Però è vero, la maggior parte di noi di solito non si espone in quel modo, nemmeno nella vita vera».

Come la fa sentire essere nuda? «Mi sento più esposta nella scena in cui piango perché non riesco a fare sesso orale a Leo. Oppure quando gli racconto di quell’unico momento della vita con mio marito in cui mi sono avvicinata all’idea di un piacere sessuale:  quelle emozioni sono molto più delicate da restituire, rispetto a mostrare il mio corpo. La cosa importante è che finalmente alla fine del film Nancy guarda il suo corpo senza giudicarlo più. È forse il primo vero momento di agio e di piacere».

È vero che nella storia originale non c’erano scene di nudo? «È vero, ma lavorando al film è cresciuta quell’esigenza. C’era l’idea che potevamo arrivare fino a lì, e che se mi fossi sentita a disagio non l’avrei girata».

Quando riesce ad essere aperta sui suoi bisogni sessuali nella vita vera? «Io e mio marito ne parliamo molto esplicitamente, ma il sesso non è mai come la nostra mente ci dice che dovrebbe essere. Siamo cresciuti con un sacco di spazzatura in testa su questo argomento».

Ad esempio? «L’idealismo romantico ci fa favoleggiare su tutto. Il sesso in realtà è spesso qualcosa di abbastanza strano e di profondamente non romantico. Ma non siamo onesti su questo punto, e facciamo esperienza di molta vergogna su quali sono gli aspetti che possono darci piacere e quali no. Credo che sarebbe molto meglio essere onesti, nei discorsi pubblici sul sesso e nel parlarne in genere.  Perchè è un campo molto sottile e complicato, fatto di tentativi e di esperienze, e questo film cerca di portarci in un territorio sconosciuto».

Ci racconta che la ricerca d’intimità e di connessione è potente, coraggiosa e necessaria. «I due personaggi non si innamorano, è la parte della storia che preferisco. Fra loro c’è intimità, e questa non ha niente a che vedere con l’amore romantico. Qui si parla di amore per se stessi, da mettere al primo posto, prima dell’amore di due persone una per l’altra.  Anche se i due sono molto vicini, lo sono in un modo molto particolare. Si “sbloccano” a vicenda, Leo vive la relazione imparando ad amarsi di più,  Nancy, trasforma la sua visione del piacere».

Tornare a se stessi sembra un messaggio fondamentale. «Avere una buona relazione con se stessi è il minimo per poter provare empatia verso chiunque altro». 

Cosa la aiuta a volersi bene? «La terapia costante, anni di terapia! Scherzo, ma non tanto in realtà… Pensare a me nel modo classico mi aiuta molto, capire come funziono mi da una chiave di comprensione del genere umano, perché io ne sono un esempio. Non c’è niente di speciale in me, sono un semplice essere umano, ma ciò che accade intorno a me mi da così tante comprensioni  su quello che provo io, esamino e comprendo le emozioni che provo. E questo processo mi regala pazienza verso me stessa, oltre alla la capacità di mettermi nei panni dell’altro, che  poi è anche ciò che faccio di lavoro».

C’è bisogno di un partner, per vivere l’amore verso se stessi? «Si può sperimentare anche senza gli altri, certo. Ma le relazioni migliori sono quelle che ci danno l’opportunità di provare compassione e che ci rimandano la nostra unicità. William Blake dice “abbiamo creato un piccolo spazio sulla terra per imparare a sopportare i raggi dell’amore…”». Io dico, meno bene, che cercare di amarci uno con l’altra è l’origine della vera saggezza».

Storia di copertina pubblicata su Donna Moderna del 27 ottobre

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Noemie Merlant: «È il coraggio che vince il dolore»

08 martedì Nov 2022

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attacco terroristico, Bataclan, Cate Blanchett, concerto, Cristiana Allievi, interviste illuminanti, Mi Iubita, Noemie Merlant, Ritratto della giovane in fiamme, Tar, Todd Field

Sette anni dopo l’attacco terroristico al Bataclan, l’attrice  ci riporta in quella notte. E racconta come, per superare i traumi della vita, ci sia un’unica via da cui è vietato scappare. Lei ce l’ha fatta

di Cristiana Allievi

L’attrice e regista Noemie Merlant, 33 anni, in una foto di Gareth Cattermole (courtesy Vanity Fair).

Scavando bene a fondo nella nostra personalità rischiamo d’imbatterci in uno sconosciuto. Ed è un po’ quello che è successo a Noemie Merlant. Classe 1988, Parigina cresciuta nella Loira da genitori agenti immobiliari, comincia a lavorare come modella. Un’esperienza che no la convince, «mi sembrava sempre appartenere a qualcun altro», racconta. Il padre le suggerisce la recitazione, lei torna a sentire la linfa vitale. Ma il passaggio al cinema non è facile, per una ex indossatrice: troppi pregiudizi. Ma lei riesce comunque. Il debutto è nel 2011, seguono una serie di ruoli di ragazze più giovani della sua età, poi la svolta: Ritratto della giovane in fiamme, storia d’amore queer diretta da Celine Sciamma. «Quel film, insieme al movimento #metoo, ha cambiato la condizione di noi donne. Abbiamo ancora molti altri passi da fare, ma oggi ci sentiamo più legittimate a parlare e ad agire».

Dopo la corsa per la Palma d’Oro, a Cannes e le candidature ai Cesar, lei è addirittura diventata regista, a 33 anni, con Mi Iubita, Mon Amour, racconto (molto scoperto) del suo amore per il giovane rom Gimi Covaci, 13 anni di meno. Ora è al montaggio di un docu sulla sua famiglia, «mia sorella e mio padre sono disabili, voglio condividere con il pubblico l’armonia che vedo fra loro e mia madre, un figura invisibile che si dedica agli altri». L’anno prossimo, a febbraio, la vedremo in Tar, diretto da Todd Field: sofisticato lavoro di scrittura e regia che esplora la natura mutevole del potere, la sua durevolezza e l’impatto che ha sulle relazioni intime. Ma prima di calarsi nei panni di Francesca Lentini, l’assistente personale di una grande direttrice d’orchestra  (Cate Blanchett) di cui sogna di seguire le orme, Noemie sarà Celine in Un anno, una notte, del regista spagnolo Isaki Lacuesta, in sala dal 10 novembre. Sette anni dopo l’attacco terroristico del Bataclan, il film racconta la storia di una coppia che quella sera del 13 novembre 2015 era proprio lì, al più tragico concerto di Parigi.

Lei interpreta una superstite che rifugge l’elaborazione del trauma. «In realtà, scappo solo all’inizio. La cosa incredibile di essere sopravvissuti a un attacco terroristico è che inizi a sentire di essere vivo. Questo ti permette di ricostruire l’amore che si era spezzato all’improvviso, dentro di te, e anche di tornare a dirigerlo verso un partner».

L’ha scoperto preparandosi per il ruolo? «Sì, ho studiato i dettagli della vita di chi era presente. Ramón Gonzalez, lo spagnolo che viveva a Parigi ed era al Bataclan insieme a due amici e alla sua ragazza, ha scritto il libro su cui si basa il film. È stato molto generoso nel raccontare cosa è successo in quella stanza, nel momento più difficile ed emotivo delle riprese è anche venuto sul set. E poi di traumi psicologici me ne intendo».

Li ha vissuti in prima persona? «Ricordo momenti d’ansia sin da bambina. E a 23 anni ho iniziato a soffrire di attacchi di panico».  

Come ne è uscita? «Volevo trovare un modo per guarire senza prendere medicine, e ho incominciato a meditare. Ho imparato a guardare in faccia il pericolo».

Che cosa intende? «Di fronte a un pericolo il corpo produce un’adrenalina che ti serve a scappare via, ad andare il più lontano possibile. Ma se fuggi non scoprirai mai quello che ti fa paura. Lo stesso vale per l’angoscia, dove il pericolo è sconosciuto».

Una ragione latente, però, c’è sempre. «Sì, e devi “restare”, per scoprirla. Devi fermarti a guardare negli occhi la belva feroce. Non è la cosa più facile, ma è l’unica che funzioni. Poi scopri che ansia e panico sono sì problemi, ma anche motori che ti spingono fuori dalla comfort zone».

Lei ci si è abituata, a uscirne, visto il modo in cui spesso  per lavoro ha dovuto rappresentare la sensualità. «Già. La meditazione è stata utile anche qui perché la sensualità, per me,  ha a che fare con il momento presente, con la consistenza del tuo corpo in un preciso momento, tutte sensazioni che si percepiscono meditando».

Quanto spaventa gli uomini mostrare la sensualità e la potenza del desiderio femminile? «Parecchio. Decostruire dinamiche patriarcali fa molta paura, e quando cade l’immagine che abbiamo di un ruolo salta anche un equilibrio. La presa di potere da parte delle donne fa paura e genera diffidenza. Nel mio ambiente ti senti dire frasi come “Adesso vuole addirittura fare la regista?”».

Come reagisce? «All’inizio ero molto frustrata, sognavo di essere un’attrice e una regista ma non potevo parlare troppo ad alta voce per non disturbare. “Non diresti le parole giuste,  sei una sconosciuta e rovineresti tutto…”, mi dicevoù».

Poi c’è stato il grande clamore di Ritratto della giovane in fiamme? «Quel film mi ha dato molta fiducia in me stessa, da lì in poi mi sono ascoltata di più, ho cercato di capire cosa volevo davvero.  Ho lavorato il doppio di prima e ho iniziato a osare. Ho finalmente sentito di poter dire la mia e ho iniziato a farlo con i miei amici. Per me è già un bel cambiamento».

In Tar è l’assistente personale di una delle più grandi compositrici e direttrici d’orchestra viventi. Lo considera un film femminista? «Scegliere di mettere una donna al top di una carriera normalmente riservata agli uomini, e mostrare quanto sia talentuosa,  mi farebbe dire di sì. Ma sarebbe dare una risposta a cosa è il film, e il suo intento è invece far nascere domande su dinamiche di potere profonde e sottili».

Quali dinamiche di potere si instaurano su un set in cui la protagonista è Cate Blanchett? «Per me Cate è un genio come la Lydia che interpreta. Nell’osservarla mentre faceva crescere il personaggio vivevo le stesse emozioni di Francesca, imparavo tanto quando Francesca impara da Lydia. Il carisma di Cate è qualcosa che non puoi spiegare a parole, ma lei è completamente diversa dal personaggio. Quando sei al top non è facile crerare un ambiente di rispetto per tutti, il processo creativo ti divora e non hai tempo per la gentilezza. Ma lei riesce ad essere molto attenta a che tutti vengano rispettati e ascoltati in ciò che hanno da condividere, è un modello importante».

Ne ha altri? «Mia madre, una helper di carattere che trova il senso della vita nel soccorrere gli altri. E io osservo che questa è un’idea figlia del patriarcato».

Sono argomenti di cui parlate? «Spesso. Lei non si è ha mai fatta certe domande, tutto era molto più rigido fino a poco tempo fa. Ma oggi analizza la sua vita e mi dice frasi come “non so più se è stata davvero una mia scelta, forse ho solo ceduto alle lusinghe…”, riferendosi a come è iniziata la storia fra lei e mio padre. A volte si spaventa, cerca rifugio in dinamiche conosciute. Mi dice “ho bisogno di qualcuno che mi protegga, e anche tu…”».

Cosa le consiglia? «Di prendere tempo per se stessa  smettere di occuparsi degli altri, in questo caso di mio padre e di mia sorella che sono diversamente abili (il padre a seguito di un incidente, ndr).  Le dico di non sentirsi in colpa quando si allontana».

E a se stessa, che consigli dà? «Di continuare a capire chi sono e cosa voglio. Sto iniziando a farlo a livello lavorativo: i prossimi due film da regista mi sono ben chiari. Il privato è un tasto più delicato. Più ci penso, più è dura capire cosa si vuole davvero nella vita. Ma, forse, è proprio il suo bello».

Intervista pubblicata su Vanity Fair del 9 Novembre 2022

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Louis Garrel «Ho il terrore di annoiare»

18 martedì Ott 2022

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Cannes, Cristiana Allievi, Festa di Roma, festival, interviste illuminanti, L'innocent, L'ombra di Caravaggio, Les Amandiers, Louis Garrel, Patrice Chereau, regista, VAleria Bruni Tedeschi

LA PAURA CHE IN SUA PRESENZA QUALCUNO SBADIGLI LO ACCOMPAGNA FIN DA RAGAZZINO. PER QUESTO FA L’ATTORE E ADESSO PURE IL REGISTA. “MI SONO SEMPRE SENTITO RESPONSABILE DELL’ATMOSFERA”. ANCHE QUELLA DEI SUOI FILM, «CHE DEVONO FARVI VENIRE VOGLIA DI VIVERE”

di Cristiana Allievi

Louis garrel Foto Stock, Louis garrel Immagini | Depositphotos
L’attore e regista francese Louis Garrel, 39 anni (courtesy Depositphotos).

«Da bambino ho incontrato tante persone appena uscite di prigione, e tutti gli intellettuali che frequentavano casa nostra erano interessati alla marginalità. È un mondo che conosco e che ho usato come aneddoto». Mentre mi racconta l’idea da cui è nato il suo quarto film da regista, mi accorgo che Louis Garrel è più tranquillo del solito. A 40 anni ancora non compiuti, sembra diventato grande.  Come il suo film, presentato fuori Concorso all’ultimo Festival di Cannes e proiettato in questi giorni alla Festa di Roma. L’innocent ha come idea di partenza  un aneddoto che riguarda la madre, Brigitte Sy, regista come il padre Philippe. E discendendo da due reali della Nouvelle Vague del cinema, Louis non poteva che diventare famoso con uno dei film più sexy della storia del cinema, quel The Dreamers offertogli dall’amico di famiglia Bernardo Bertolucci. Dai tempi del conturbante e ribelle Theo, 20 anni fa, ha fatto tutto il possibile per meritare il grande vantaggio di famiglia che aveva. Ce l’ha fatta, oggi ha un’identità sua ed è un cineasta di valore. Dal 3 novembre lo vedremo ancora in L’ombra di Caravaggio (passato prima alla Festa di Roma) diretto da Michele Placido, come l’uomo che ha investigato la vita del pittore e ha avuto potere di vita e di morte su di lui. E dopo essere stato Jean-Luc Godard, il simbolo della Nouvelle Vague mancato qualche settimana fa, dall’1 dicembre interpreterà un altro mostro sacro, Patrice Chéreau, direttore artistico della prestigiosa scuola del Theatre des Amandiers di Parigi. A dirigerlo la sua ex Valeria Bruni Tedeschi. Garrel indossa una t-shirt con giacca nera e pantaloni chiari, e ci tiene a parlare con me in italiano.

Come sempre nei suoi film, anche in L’innocent si ritaglia anche un ruolo di attore: Abel, di professione guida in un acquario.  «È un uomo che vive il lutto per la perdita di sua moglie. Un giorno scopre che sua madre (Anouk Grinberg) vuole sposare un uomo che è stato in carcere. Con l’aiuto della migliore amica lo tallonerà da vicino e scoprirà chi è veramente».

Ha dedicato il film a sua madre Brigitte Sy. «Ha lavorato per vent’anni in prigione con il teatro, come animatrice. Il punto di partenza è la sua vera storia, perché dopo che i miei si sono separati si è sposata in prigione con un uomo di nome Michael che mi piaceva molto.  Abbiamo legato, mi ha aperto le porte di un mondo che non conoscevo. Non volendo fare una semplice cronaca monotona, ho giocato con tanti registri, dalla commedia romantica al thriller, che è anche un modo per cambiare ritmo».

Il ritmo è importante per lei? «Molto, perché la mia più grande paura è quella di essere noioso».

Quando è iniziata, questa paura? «Verso i 13  o 14 anni, mi sentivo sempre quello che doveva fare qualcosa per evitare a tutti i momenti noiosi».

È ancora così? «Quando sono in mezzo alle persone mi sento responsabile dell’atmosfera. Se tutti sono annoiati sento il dovere di fare qualcosa per intrattenere».

E ne ha fatto una professione.  «Jean-Paul Carrère (regista e sceneggiatore mancato dieci anni fa), mi ha  insegnato a non essere né monotono né troppo psicologico. “Devi sorprendere” è una lezione che ho imparato da lui, e per farlo uso molto le emozioni».

Le piacciono, le emozioni? «Vado matto per le  affezioni sentimentali fra i personaggi, quelle fra un figlio e un padre adottivo, o fra una madre e sua figlia. Uso tanto questo ingrediente per nascondere altro, come fanno i maghi. A volte mi sento proprio così, un mago, incanto con le romanticherie e poi cambio strada, perché il film dev’essere un gioco».

“È così difficile prendere decisioni…” una frase di Abel che sembra sua. «Lo è, per me è un incubo prendere decisioni! Qualcuno mi ha detto “ogni decisione è una rinuncia”, e mi sembra un fatto pazzesco».

(continua…)

Intervista a Louis Garrel pubblicata su F del 18/10/2022

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Christoph Waltz, «Ci vuole resistenza»

22 giovedì Set 2022

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Bastardi senza gloria, Christoph Waltz, DEad for a dollar, Django Unchained, Inglorious Basterds, interviste illuminanti, Quentin Tarantino, successo, uomini, Vanity Fair

PER AVERE SUCCESSO LA PASSIONE NON BASTA. LUI LO DIMOSTRA DAI TEMPI IN CUI, CON TARANTINO, HA CONQUISTATO HOLLYWOOD E DUE OSCAR COME ATTORE NON PROTAGONISTA. ORA PERO’ HAIL RUOLO PRINCIPALE NEL NUOVO DEAD FOR A DOLLAR, E CI PARLA DI CONFINI E DELL’IMPORTANZA DI CERTE SINFONIE

L’attore e regista austriaco Christoph Waltz, due volte premio Oscar (courtesy Ausbury Movies)

di Cristiana Allievi

Con Hans Landa, il colonnello delle SS terrificante e colto di Bastardi senza gloria, e con il cacciatore di taglie King Schultz in Django Unchained, è passato quasi all’improvviso dall’oscurità all’eroismo, vincendo due Oscar. «I cattivi mi vengono bene per il mio aspetto e la mia fisionomia, a cui può aggiungere anche l’età e l’aura che emano», dice Christoph Waltz dopo aver chiesto l’autorizzazione a togliersi la giacca per restare in camicia azzurra, più consona al clima della laguna. La figura è sottile, quasi delicata. Tutta la sua forza emerge dagli occhi grigio chiaro, da cui non si sfugge tanto facilmente.

Nato a Vienna 65 anni fa da due scenografi tedeschi, ha avuto come nonno materno il noto psicologo Rudolf von Urban, che sembra avergli lasciato in eredità una visione chiara dell’ego e delle sue dinamiche: in un’epoca che spinge tutti a parlare di sé, lui non lo ha fatto nemmeno ai discorsi di ringraziamento per gli Oscar, preferendo citare solo le persone più importanti a cui deve il successo.

Ora Christoph Waltz ha una sfilza di film in uscita degna di un trentenne all’apice della carriera, e all’ultima Mostra di Venezia, dove l’abbiamo incontrato, è stato il magnifico protagonista di Dead for a Dollar, il nuovo western di Walter Hill prossimamente nelle sale.

È una storia di confini geografici e morali ambientata nel 1897 in cui interpreta Max Borlund, un cacciatore di taglie pagato da un ricco uomo d’affari per ritrovargli la moglie (Rachel Brosnahan), secondo lui rapita e portata in Messico da un disertore (Brandon Scott). Ma le cose non stanno così, e quando Max lo capisce, comincia a seguire la sua etica.

In tutti i film sul vecchio West, quando qualcuno non piace, finisce male, con una pallottola in corpo.
«C’era la legge, ma non veniva seguita in modo diligente perché mancavano le forze dell’ordine. La domanda che mi faccio ogni volta però è un’altra».

Quale?
«Come mai se passi un confine, che è una demarcazione arbitraria, le cose sono così diverse? Prendiamo il caso della sparatoria di massa accaduta lo scorso maggio a Buffalo. Il confine canadese è molto vicino, puoi quasi arrivarci a piedi. Perché, una volta che lo hai attraversato, non hai più questi fenomeni di violenza di massa, problemi con le armi e con il controllo delle armi? Intendo dire, hai solo i problemi normali, perché i pazzi sono ovunque».

Che risposta si è dato?
«Credo che la differenza stia nelle forze dell’ordine. L’America è un interessante fallimento di liberazione, si sono rivoltati contro il re, ma poi in un certo senso non hanno avuto un piano su cosa fare della situazione».

In Canada, in compenso, hanno sempre avuto la regina Elisabetta II, mancata pochi giorni fa.
«C’erano anche le montagne e la “polizia” locale ha anticipato l’espansione verso Ovest, elementi che hanno fatto una grande differenza. Tornando alla domanda, è un mito dei film farci credere che se non ti piaceva qualcuno potevi tranquillamente sparargli. Eri comunque un criminale, un assassino, e se eri fortunato venivi processato, altrimenti ti linciavano».

(continua…)

Intervista integrale pubblicata su Vanity Fair del 28 settembre 2022

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Samantha Morton, «Ho vinto io»

13 martedì Set 2022

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Caterina de Medici, Cristiana Allievi, Harvey Weinstein, interviste illuminanti, Minority Report, samantha Morton, She said, The New York Times, The serpent Queen, The Whale, Vanity Fair

UN’INFANZIA DRAMMATICA DI TRAUMI E ABBANDONO. LA CARRIERA CONQUISTATA LOTTANDO PER OGNI SPAZIO. HOLLYWOOD CHE LA CHIUDEVA FUORI. SAMANTHA MORTON HA LAVORATO DURO, E CE L’HA FATTA. OGGI SI È MESSA NEI PANNI DI UNA REGINA CHE LE SOMIGLIA MOLTO

di Cristiana Allievi

Quanti dolori può contenere una persona dentro di sé? E dove trova la misteriosa forza che la fa continuare a vivere, addirittura a diventare genitore? «Io ho molta fede, e la fede guarisce anche le ferite più profonde». In un rovente pomeriggio di agosto la risposta mi arriva forte e chiara da Samantha Morton,  mentre il giardiniere alle sue spalle inizia a tagliare l’erba. Per un verso una delle attrici e registe più significative del panorama indie contemporaneo, per un altro una sopravvissuta. Il perché è evidente. I suoi genitori si dividono fra abusi d’alcol e violenze varie quando lei ha solo tre anni.  Poco dopo, a causa dell’incuranza di entrambe, inizia il suo peregrinare tra affidi e orfanotrofi. E proprio nelle case in cui avrebbe dovuto trovare protezione, a 13 anni subisce abusi sessuali da parte di due responsabili. La disperazione, però, è una forza potente, e Samantha la usa per passare il test di ammissione alla Central Junior Television Workshop, organizzazione che forma i giovani per entrare nel mondo del teatro, della radio e del cinema.  Da lì cammina tanto da arrivare a lavorare con i migliori registi su piazza, come Steven Spielberg e Jim Sheridan, Woody Allen e David Cronenberg. Madre di tre figli avuti da due compagni diversi, è la donna perfetta per raccontare storie forti, come quelle in cui la vedremo nei prossimi giorni in anteprima mondiale alla Mostra del cinema di Venezia. The whale, il nuovo lavoro di Darren Aronofski, e She Said, di Maria Schrader, in cui veste i panni di Zelda Perkins, l’ex assistente di Harvey Weinstein. Prodotto da Brad Pitt, il film ha lo stesso titolo del libro delle due giornaliste del New York Times che hanno ricostruito e pubblicato la storia degli abusi sessuali del produttore cinematografico. Poi, dall’11 settembre, sarà nientemeno che la regina di Francia Caterina de Medici nella serie drammatica The serpent Queen (su STARZPLAY). «È riuscita ad avere un’enorme influenza politica per ben cinquant’anni», racconta a proposito della consorte di Enrico II, «e stiamo parlando del Seicento, un’epoca in cui le donne venivano bruciate come streghe, quando erano solo delle ostetriche».

Fino all’Ottocento l’italianissima Caterina è stata descritta come fredda, gelosa, vendicativa e avida di potere: lei che idea se n’è fatta? «Per me è una donna spirituale, una salvatrice che previene grandi disastri del tempo. Caterina vedeva molto lontano, è riuscita a quietare i conflitti fra cattolici e protestanti perchè aveva un modernissimo modo di permettere alle persone di seguire la propria fede. Chissà come sarebbe andata la storia se al potere non ci fosse stata lei».

Nella prima stagione scopriamo eventi della giovinezza e il percorso per arrivare a corte, poi cosa vedremo? «Da lì in avanti la storia si muoverà nella sua dimensione machiavellica. Si scoprirà come ha imparato a stare al gioco e a sopravvivere in famiglia, nel convento e infine a corte».

“Sopravvivenza” è una parola che le risuona? «Le racconto una storia. Molti anni fa ho chiesto al mio agente se potevo fare audizioni per i drammi in costume, ricordo che una regista donna in particolare mi rispose “non hai il sangue giusto, non sei l’animale giusto…”. Sono una persona comune,  vengo dalla classe operaria dal nord dell’Inghilterra e non da una buona famiglia».

(continua…)

Intervista integrale pubblicata su Vanity Fair del 14 settembre 2022

@Riproduzione riservata

Josh O’Connor: «E adesso mi metto a nudo»

28 giovedì Lug 2022

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Colin Firth, Cristiana Allievi, Donna Moderna, Eva Husson, guerra, interviste illuminanti, Josh O'Connor, Mothering Sunday, nudo, Olivia Colman, Secret Love, The Crown, uomini

Il protagonista di Secret Love colleziona ceramiche, adora il giardinaggio, si spoglia senza problemi. E qui fa un invito a se stesso e agli altri uomini: “Dobbiamo capire perché abbiamo avuto così a lungo tanti privilegi. Ed essere più gentili».

di Cristiana Allievi

L’attore inglese Josh O’Connor, 31 anni (courtesy TMDB)

Fa molto caldo nella stanza in cui ci troviamo. Josh O’Connor indossa una camicia bianca di seta con disegni neri ed è seduto su una poltrona. Con un accento molto british mi racconta la sua visione del maschio contemporaneo, mentre scivola in avanti con le gambe, per poi ritirarsi su. Da giovane voleva fare l’attore, ma pensando di non avere la stoffa si è dato al rugby. Gli torna in mente mentre parliamo di Secret Love di Eva Husson, finalmente al cinema dal 20 luglio. Quella che è forse la sua miglior interpretazione di sempre: ambientata nel 1924,  lo vede nei panni di Paul, il figlio di una famiglia di nobili che porta sulle spalle vari pesi: i fratelli morti in guerra, un matrimonio imminente che non vorrebbe e soprattutto  l’amore segreto per Jane (Odessa Young), domestica dei vicini di casa (Colin Firth e Olivia Colman). Lui è nudo per i tre quarti del film,  in quello che è un incontro sublime fra sesso, cinema e scrittura (la storia è tratta dal romanzo Mothering Sunday di Graham Swift). 31 anni, figlio di un insegnante e di un’ostetrica, come principe Carlo d’Inghilterra in The crown ha vinto Emmy e Golden Globe, e molti altri riconoscimenti sono arrivati per La Terra di Dio. A New York, dove vive, fa teatro e film indipendenti e ha un’altra passione insospettabile a cui dedicarsi.

Vado dritta al punto: prima Carlo d’Inghilterra, ora Paul,  un altro uomo costretto dall’etichetta.  Perché sceglie questi maschi che non conoscono la libertà? «Non è mai stata una decisione cosciente, piuttosto una sorta di gioco. Ho incontrato molti  uomini che si misurano con la loro mascolinità e le lotte di potere che questa comporta. Qualcuno mi ha detto di vedere una connessione  fra il principe Carlo e il Johnny Saxby che ho interpretato in La terra di Dio. La mia prima reazione è stata “stai scherzando?”, ma riflettendoci l’idea è convincente:  il principe Carlo era incapace di esprimere le proprie emozioni a causa del suo status sociale, esattamente come Johnny, che appartiene a una classe sociale molto inferiore. Chi come me viene dalla classe di mezzo, riesce molto bene a parlare di chi sta più in alto e di chi sta più in basso».

Il comune denominatore è l’essere “trattenuti”. «È un aspetto che mi affascina molto, ma mi interessa più quel senso di colpa che ha chi sopravvive. Paul è un uomo che eredita uno status in una certa società, e si deve portare sulle spalle il peso e la pressione dei suoi due fratelli morti in guerra, incluso il matrimonio con una donna che non ama ma che tutti intorno a lui amano, è la ricetta per un disastro perfetto!».

Cos’ha a che fare con lei, questo disastro? «Sto esplorando qualcosa che mi sembra interessante, ma non so perché continui a tornare. Sembra che non le stia rispondendo, la verità è che non conosco la risposta».

Come vede questa fase di confronto fra i sessi? «Credo che non sia un caso se vediamo spesso ruoli come quello che interpreto in Secret love. Gli uomini devono comprendere il loro posto nel mondo, e capire perché hanno avuto così tanti privilegi per così tanto tempo. In altre parole, dobbiamo capire come essere più gentili».

Il fatto che la regista sia una donna è un caso? «Neanche un po’. Finalmente abbiamo registe e sceneggiatrici che scrivono personaggi maschili per un pubblico di uomini e di donne.  Diciamo che stiamo rivalutando le cose, ci stiamo lavorando su».

(continua…)

Intervista integrale pubblicata su Donna Moderna del 21 luglio 2022

@Riproduzione riservata

Andie MacDowell, «Grigia e sexy, perché no?»

12 domenica Giu 2022

Posted by cristianaallievi in arte, Attulità, Cannes, cinema, Cultura, Miti, Netflix

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Tag

Andie Mac Dowell, Cairo Editore, Cristiana Allievi, donne, F magazine, Hugh Grant, interviste illuminanti, liberazione, Maid, MArgaret Qualley, Netflix, Quattro matrimoni e un funerale, Sesso bugie e videotape

«GLI UOMONI SONO LIBERI DI INVECCHIARE. VOGLIO ANCH’IO IL LORO POTERE, SENTIRMI DESIDERABILE COME LORO, NEL MIO CORO E ALLA MIA ETA’». PER QUESTO L’ICONA ANNI 90 HA DECISO DI NON TINGERSI PIU’. E DI INSEGNARE ALLE FIGLIE, CON L’ESEMPIO, CHE IL GIUDIZIO DEGLI ALTRI NON CONTA

di Cristiana Allievi

L’attrice americana Andie MacDowell, 64 ani. Fra i suoi film più famosi Sesso bugie e videotape e Quattro matrimoni e un funerale. Ha ricevuto 4 candidature ai Golden Globe per la serie tv Maid (Netflix).

Nella sua stanza d’albergo sulla Riviera francese, in tailleur dal taglio maschile color rosa acceso, è semplicemente magnifica. Mi chiede se sono italiana, e capisco che la cosa le fa piacere. Ha un’energia palpabile che non esplode verso l’esterno: è forte e quieta allo stesso tempo.

Musa dalla bellezza eterea che ha ispirato classici degli anni Novanta come Quattro matrimoni e un funerale, con Hugh Grant, e Sesso, bugie e videotape, il film rivoluzionario di Steven Soderberg che vinse la Palma d’oro a Cannes, Andie MacDowell è una ex modella che è sempre stata radicata rispetto al mondo in cui ha vissuto. Quando era ai vertici del successo si è trasferita in Montana a crescere i tre figli avuti con l’ex modello e marito Paul Qualley. Di questi le due femmine, cresciute facendo danza e teatro sin da bambine, hanno seguito le orme della mamma che, dopo il divorzio dal marito, ha sempre cercato di bilanciare le aspirazioni professionali con la vita in famiglia. Ed è stata premiata, perché finalmente le due cose si sono incontrate in Maid, la serie tv Netflix di grande successo ispirata alle memorie di Stephanie Land. Per interpretare Paula (madre di finzione della sua figlia vera, Margaret), una donna bipolare  “non diagnosticata”, si è ispirata alla sua di madre,  mentalmente instabile e malata di alcolismo. E poco prima del debutto della serie ci aveva già stupiti presentandosi a Cannes con quei meravigliosi riccioli grigi naturali che hanno fatto scalpore e la dicono lunga sulla donna che oggi, a 64 anni, è felicemente single a Los Angeles (dopo un secondo breve matrimonio, finito nel 2004), mentre Margaret sta per sposarsi con il produttore musicale  Jack Antonoff un anno dopo il fidanzamento.

Come si fa ad essere testimonial di un brand leader mondiale nel colore per capelli, smettendo di tingersi? «Le donne possono scegliere. Le mie sorelle si tingeranno finché non lasceranno questo pianeta, lo so per certo, e questa è un’opzione. Ma c’è anche quella di cambiare, e molte donne vogliono essere viste come gli uomini, a cui è concesso di invecchiare come sono».

Sta parlando di fare scelte chiare? «Non tingersi è come dichiarare che sì, sono più anziana, e mi va bene così.  Recentemente ho visto la foto di un magnifico attore, non dirò il nome.  È molto bello, accanto  a lui aveva una moglie bellissima, di 21 anni più giovane. Ecco,

voglio sentire lo stesso potere che sente quell’uomo, voglio essere a mio agio come lui, sentirmi sexy come lo è lui, nel mio corpo e alla mia età».

Occorre energia, per questo. «Ne ho tantissima, di solito quando sono pronta per uscire gli uomini sono distrutti sul divano!».  

Come fa? «Dormo molto, per me è importantissimo».

Sua figlia Margaret è un’attrice di grande talento, cosa le ha passato del suo mestiere? «Credo che Margaret sia un individuo, non voglio paragonarla a me. Se c’è qualcosa che ho fatto per lei è stata essere una madre, e questo non ha niente a che fare con la recitazione».

Considera il suo lavoro principale quello di madre, quindi? «Esatto. Le ho insegnato ad amarsi, ad essere libera e a non avere restrizioni. È stata una ballerina e sono stata attenta a che avesse i migliori insegnanti e a circondarla di persone che potessero darle di più di quello che ho avuto io alla sua età».

(continua…)

Intervista esclusiva pubblicata su F del 14 giugno 2022

@Riproduzione riservata

Austin Butler, Love me tender

06 lunedì Giu 2022

Posted by cristianaallievi in arte, Attulità, Cannes, cinema, Cultura

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Tag

Austin Butler, Baz Luhrmann, Cannes 75, Disney, Elvis, Festival di Cannes, interviste illuminanti, Jim Jarmush, Leggenda del rock, Quentin Tarantino, Vanity Fair, Warner Bros

Interpretando Elvis Presley, AUSTIN BUTLER ha scoperto di avere molto in comune con lui: un dolore importante e l’ansia di piacere che divorava l’icona del rock

Intervista esclusiva di Cristiana Allievi

L’attore americano Austin Butler in una scena del film Elvis di Baz Luhrmann in cui interpreta varie sfaccettature dello showman più famoso del ventesimo secolo:  il ribelle delle origini, l’attore, l’uomo pop e quello family-friendly, fino  alla versione epica  degli anni Settanta (Courtesy © 2021 Warner Bros. Entertainment Inc.)

La voce è profonda e lievemente roca. Potrebbe sedurre, con quella voce,  invece la usa per consegnarmi un’importante chiave di lettura della sua vita. «Anch’io ho perso mia madre quando avevo solo 23 anni», mi racconta, e non a caso. Californiano, classe 1991, magnifici occhi azzurri, Austin Butler il suo viso non si è ancora fissato nella mente di tutti. Però dal 22 giugno in poi sarà impossibile dimenticarsi di lui, perché Baz Luhrmann lo ha scelto per interpretare il più grande showman del ventesimo secolo, Elvis Presley. Un salto vertiginoso per Austin, diventato famoso grazie alla serie tv della Disney Hannah Montana, a cui è seguito l’esordio al cinema con The faithful nei panni di un cane che si trasforma in uomo. Certo, lo hanno già voluto anche Tarantino e Jarmush (in C’era una volta… a Hollywood e I morti non muoiono), ma per ruoli minori. In Elvis, presentato Fuori Concorso alla 75esima edizione del Festival di Cannes,  lo vedremo protagonista assoluto, mentre ancheggia, canta e si dispera per due ore e 39 minuti, ripercorrendo la complicata relazione che il re del rock aveva con il manager, il “Colonello” Tom Parker interpretato da Tom Hanks. Nel biopic si celebra anche l’Italia, visto che nella colonna sonora ci sono anche  i Maneskin con la hit If I Can Dream.

Qual è stata la sua reazione quando le hanno proposto di diventare l’uomo di spettacolo più famoso del ventunesimo secolo? «Per due anni mi sono svegliato alle tre di notte con il cuore che andava a cento all’ora: mi sono chiesto come interpretare questa reazione, finché ho capito che si trattava di terrore puro».

Terrore di cosa? «Di non saper rendere giustizia a Elvis, davanti a tutti quelli che lo amano, partendo dalla  sua famiglia che volevo fosse orgogliosa di lui. Mi è capitato di avere grosse crisi di autostima,  ho dovuto attraversarle e superarle».

Come si supera, il “terrore puro”? «Pensando che se mi hanno dato un lavoro,  dovevo prendermene la responsabilità e confrontarmi con il mio disagio.  Indagando questo terrore ho scoperto che conteneva  anche energia! Così ho  iniziato a lavorare, quando mi svegliavo in piena notte, guardavo video e sentivo che il terrore svaniva. Sono riuscito a indirizzare la mia paura, scoprendo che anche Elvis ne aveva, e molta».

Che paura aveva Elvis?  «Quella di salire sul palco e di non piacere, è diventato chiaro girando la parte del grande Come back special del  1968,  dopo sette anni di assenza dal palco, un momento in cui tutto era un rischio: sapeva di voler dare meglio di sè».

Un po’ come lei in questo momento? «Se fallisci con il primo film da protagonista  è difficile rialzarti. Ho sentito un’enorme pressione, ma dovevo continuamente tornare sulle emozioni di Elvis, capire cosa faceva strillare il suo pubblico, cosa lo faceva impazzire».

.

(continua…)

Intervista pubblicata su Vanity Fair dell’8 giugno 2022

@Riproduzione riservata

Adele Exarchopoulos, «Sto cercando il mio posto nel mondo».

27 mercoledì Apr 2022

Posted by cristianaallievi in arte, Attulità, cinema, Cultura, giornalismo

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Tag

Adele Exarchopoulos, cinema red carpret, donne, Generazione Low cost, giovani, interviste illuminanti, lavoro, madri, precariato, Star

Quando La vita di Adele l’ha rivelata al mondo, ADÈLE EXARCHOPOULOS era una ragazzina dal talento istintivo. Oggi, nove anni dopo, è un’attrice consapevole e contesa, una mamma organizzata, un’amica vera. Eppure, le manca ancora qualcosa

di Cristiana Allievi

L’attrice francese Adele Exarchopoulos, 28 anni, diventata una star internazionale con La vita di Adele.

«Sto cercando il mio posto nel mondo». Forse, non ti aspetti queste parole da un’attrice che pare avere le idee chiare da tempo: a 13 anni esordisce al cinema diretta da Jane Birkin, a 20 vince la Palma d’oro come protagonista – insieme a Léa Seydoux – de La vita di Adele di Abdellatif Kechiche e oggi, 28enne, ha una lista di film in uscita degna di una diva navigata. Di sicuro, Adèle Exarchopoulos, grandi occhi neri alla Maria Callas che tradiscono le origini greche da parte del nonno e capelli raccolti in uno chignon alto, è cresciuta in fretta. Come il personaggio che interpreta in Generazione Low Cost di Julie Lecoustre ed Emmanuel Marre. Cassandra è assistente di volo in una compagnia low budget; disperatamente sola, ha una vita sregolata, ama divertirsi e si nasconde dietro il profilo Tinder Carpe Diem; il suo vago sogno è passare a Emirates. Una mattina arriva tardi al la- voro e resta bloccata per la prima volta nella stessa città per qualche giorno, il che la costringe a fare i conti con il vuoto della sua esistenza e un lutto importante.

Che cosa accomuna i ruoli che sceglie?

«Si tratta in genere di donne indipendenti che commettono errori. L’umanità è imperfetta, e io non amo i luoghi comuni».

Lei ha conquistato rapidamente traguardi e premi notevoli. «Continuo a vivere situazioni che nemmeno immaginavo possibili».

Quanto ha dovuto lottare?

«Il lavoro è arrivato all’improvviso e per caso, in un mo- mento in cui avevo paura di lasciare la scuola, che non era esattamente il mio forte. Ho conosciuto la delusione di es- sere rifiutata ai casting e di essere considerata una seconda scelta. Tutti hanno le loro battaglie da combattere, crescere significa scegliere per quali spendere le proprie energie».

Crescere significa anche trovare il proprio posto nel mondo. Diceva che lo sta ancora inseguendo…

«Ho iniziato a recitare molto presto, a 17 anni vivevo già da sola e a 23 ho avuto Ismaël (dal rapper Morgan Frémont, in arte Doums, ndr) mentre gli amici andavano alle feste a ubria- carsi fino all’alba. A prescindere dai traguardi, ho spesso do- vuto cercare il mio spazio e il senso di ciò che facevo, perché non era adeguato né alla mia età né alla mia generazione».

Si è sentita più grande, più adulta?

«Nelle scelte, ma non nella testa, tanto che non ho mai vis- suto un momento in cui le percepissi coerenti all’ambiente in cui stavo».

(continua….)

Intervista pubblicata su Vanity Fair del 13 aprile 2022

© RIPRODUZIONE RISERVATA


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