UN’INFANZIA DRAMMATICA DI TRAUMI E ABBANDONO. LA CARRIERA CONQUISTATA LOTTANDO PER OGNI SPAZIO. HOLLYWOOD CHE LA CHIUDEVA FUORI. SAMANTHA MORTON HA LAVORATO DURO, E CE L’HA FATTA. OGGI SI È MESSA NEI PANNI DI UNA REGINA CHE LE SOMIGLIA MOLTO
di Cristiana Allievi
Quanti dolori può contenere una persona dentro di sé? E dove trova la misteriosa forza che la fa continuare a vivere, addirittura a diventare genitore? «Io ho molta fede, e la fede guarisce anche le ferite più profonde». In un rovente pomeriggio di agosto la risposta mi arriva forte e chiara da Samantha Morton, mentre il giardiniere alle sue spalle inizia a tagliare l’erba. Per un verso una delle attrici e registe più significative del panorama indie contemporaneo, per un altro una sopravvissuta. Il perché è evidente. I suoi genitori si dividono fra abusi d’alcol e violenze varie quando lei ha solo tre anni. Poco dopo, a causa dell’incuranza di entrambe, inizia il suo peregrinare tra affidi e orfanotrofi. E proprio nelle case in cui avrebbe dovuto trovare protezione, a 13 anni subisce abusi sessuali da parte di due responsabili. La disperazione, però, è una forza potente, e Samantha la usa per passare il test di ammissione alla Central Junior Television Workshop, organizzazione che forma i giovani per entrare nel mondo del teatro, della radio e del cinema. Da lì cammina tanto da arrivare a lavorare con i migliori registi su piazza, come Steven Spielberg e Jim Sheridan, Woody Allen e David Cronenberg. Madre di tre figli avuti da due compagni diversi, è la donna perfetta per raccontare storie forti, come quelle in cui la vedremo nei prossimi giorni in anteprima mondiale alla Mostra del cinema di Venezia. The whale, il nuovo lavoro di Darren Aronofski, e She Said, di Maria Schrader, in cui veste i panni di Zelda Perkins, l’ex assistente di Harvey Weinstein. Prodotto da Brad Pitt, il film ha lo stesso titolo del libro delle due giornaliste del New York Times che hanno ricostruito e pubblicato la storia degli abusi sessuali del produttore cinematografico. Poi, dall’11 settembre, sarà nientemeno che la regina di Francia Caterina de Medici nella serie drammatica The serpent Queen (su STARZPLAY). «È riuscita ad avere un’enorme influenza politica per ben cinquant’anni», racconta a proposito della consorte di Enrico II, «e stiamo parlando del Seicento, un’epoca in cui le donne venivano bruciate come streghe, quando erano solo delle ostetriche».
Fino all’Ottocento l’italianissima Caterina è stata descritta come fredda, gelosa, vendicativa e avida di potere: lei che idea se n’è fatta? «Per me è una donna spirituale, una salvatrice che previene grandi disastri del tempo. Caterina vedeva molto lontano, è riuscita a quietare i conflitti fra cattolici e protestanti perchè aveva un modernissimo modo di permettere alle persone di seguire la propria fede. Chissà come sarebbe andata la storia se al potere non ci fosse stata lei».
Nella prima stagione scopriamo eventi della giovinezza e il percorso per arrivare a corte, poi cosa vedremo? «Da lì in avanti la storia si muoverà nella sua dimensione machiavellica. Si scoprirà come ha imparato a stare al gioco e a sopravvivere in famiglia, nel convento e infine a corte».
“Sopravvivenza” è una parola che le risuona? «Le racconto una storia. Molti anni fa ho chiesto al mio agente se potevo fare audizioni per i drammi in costume, ricordo che una regista donna in particolare mi rispose “non hai il sangue giusto, non sei l’animale giusto…”. Sono una persona comune, vengo dalla classe operaria dal nord dell’Inghilterra e non da una buona famiglia».
(continua…)
Intervista integrale pubblicata su Vanity Fair del 14 settembre 2022
NELLA NUOVA SERIE TV SCRITTA DAL RE DEL BRIVIDO STEPHE KING, JULIANN MOORE È UNA VEDOVA CHE SCOPRE I SEGRETI DEL MARITO. «I MATRIMONI SONO SEMPRE UN MISTERO», DICE A GRAZIA. «E NESSUNO PUO’ CAPIRE DAVVERO CIO’ CHE LEGA NEL PROFONDO DUE PERSONE».
di Cristiana Allievi
Julianne Moore e Clive Owen nella serie tv Lisey’s Story (Photo courtesy Apple TV).
Mi dice che avrebbe preferito che la nostra intervista si svolgesse di persona, e la sua espressione è sinceramente dispiaciuta. Dalla mia parte dello schermo è già buio, mentre alle sue spalle il sole splende su un giardino con tavolini e sedie in paglia. Tutte le volte che incontro Julianne Moore non posso fare a meno di stupirmi per come porti i suoi anni, e questa volta non fa eccezione. Ho pensato la stessa cosa guardandola in Lisey’s Story, in onda dal 4 giugno su Apple tv, serie che coinvolge una coppia di assi come lo scrittore Stephen King e il regista Pablo Larrain. Lei è Lisey Landon, moglie di un noto scrittore interpretato da Clive Owen. «Quella scritta da Stephen è una storia folle e stratificata», racconta. «Riguarda una donna che attraversa un lutto per la perdita del marito, e che allo stesso tempo, nel presente, cerca di combattere i problemi mentali della sorella. In questo processo comprende il marito e la relazione che ha avuto con lui, è un viaggio soprannaturale e psicologico che le fa capire la propria vita». Appassionata di interior design, oltre a decorare gli interni di casa sua Julianne ha aiutato ad arredare la stanza in cui si svolge la cerimonia degli Academy Awards. Per il resto ha fatto molte cose tardi rispetto gli standard. Ha imparato a nuotare a 26 anni, e solo l’anno successivo ha guidato per la prima volta un’automobile. Idem dicasi per la fama, arrivata a 32 anni, età in cui molte delle sue colleghe a Hollywood sono già star. Si è accorta presto di sentirsi sola e confusa, nonostante la fama, molla che l’ha spinta a lavorare su di sé. Scoperto che l’aver messo al centro della sua vita la carriera non la rendeva felice, ha cambiato rotta e si è sposata con il regista Bart Freundlich (dopo aver divorziato dal regista John Gould Rubin), con cui vive nel west village di Manhattan e con cui ha due figli.
Nella serie tv è moglie di uno scrittore per cui i fans compiono gesti estremi. Da star di Hollywood che comprensioni ha portato nel suo ruolo? «Non mi sono mai trovata in pericolo a causa dei fans. Al contrario ho esperienze di persone che sono state molto toccate dal mio lavoro, ed è una cosa bellissima. Da attrice quello che ti sembra più personale è in realtà molto universale, quindi se interpreti ruoli con cui sei molto risonante di solito tocchi anche gli altri. E senti anche di aver fatto il tuo lavoro, ti senti gratificata».
Conosceva il romanzo di Stephen King? «Ho letto prima la sceneggiatura del film, che ha scritto lui stesso, il libro è venuto dopo. Quello che ho trovato davvero interessante è che la esplora una relazione lunga il corso di una vita. Molte storie romantiche mostrano il corteggiamento, come i due si sono conosciuti e come finiscono per sposarsi, il lieto fine. Ma in una relazione questo è solo l’inizio, se vuoi che continui è meglio che testimoni la vita dell’altro, che crei una vita insieme all’altra persona. A questo King aggiunge mondi soprannaturali che si manifestano, e l’insieme è meraviglioso».
(continua…)
L’intervista è pubblicata su Grazia del 3 giugno 2021
Ieri sera ha vinto un Emmy Award come miglior protagonista di Euphoria. È la più giovane attrice di sempre ad aggiudicarsi, a sorpresa, il prestigioso riconoscimento. Quando l’abbiamo incontrata la prima volta debuttava con Spider-Man ed era bastato un colpo d’occhio per capire che sarebbe diventata un’icona fashion, e così è stato. Il successo non ha cambiato questa eroina della Disney, che a Grazia aveva confidato in anteprima qual è il suo vero super potere…
Ero tremendamente nervosa, ma nessuno se n’è accorto, perché mi sforzo sempre di apparire controllata. Del resto, quando ho letto la sceneggiatura ho pensato: “Ma chi non vorrebbe interpretare un film stupendo come questo, e avere compagni di viaggio simili”?». Non mi aspettavo che dal vivo Zendaya fosse così alta e magra, e soprattutto che fosse così matura. Mentre la ascolto parlare del suo debutto sul grande schermo, in Spider-Man: Homecoming, nelle sale dal 6 luglio, la mia attenzione si divide in due: una parte segue il filo del suo discorso, l’altra cerca un indizio del fatto che la ragazza che ho davanti abbia davvero solo 20 anni.
Occhi scuri profondissimi, pelle perfetta, l’attrice e cantante ha quella bellezza tipica di chi nasce da un crogiolo di etnie: suo padre è afroamericano, la sua mamma ha origini tedesche, scozzesi e irlandesi. Il suo nome completo è Zendaya Maree Stoermer Coleman e si presenta all’intervista, a Barcellona, con pantaloni in seta verde brillante, stiletti altissimi bianchi e una maglia che aggiunge un tocco di rosso e lascia scoperte le spalle.
Zendaya è una star della Disney, un vivaio che sforna professionisti capaci di cantare, ballare e recitare. E lei, nata sulla baia di San Francisco, ha iniziato come modella per poi approdare alla serie tv A tutto ritmo, la prima di tanti successi. Poi è arrivato l’esordio musicale, quindi le collaborazioni con le popstar Selena Gomez, Beyoncé e Taylor Swift, e la firma di un contratto con la Hollywood Records.
E adesso è l’ora del salto sul grande schermo: sarà Michelle in una nuova versione del fumetto in cui Spider-Man è interpretato da Tom Holland. E a testimoniare che per Zendaya non sarà un atto unico, subito dopo sarà in The Greatest Showman, accanto a Hugh Jackman e Zac Efron.
Perché era così emozionata ai provini per Spider-Man? «Temevo di non poter dare il massimo. Dopo 12 anni di tv non vedevo l’ora di interpretare un film, e questo è il primo, capisce? Ho superato l’ansia concentrandomi su quello che dovevo fare: recitare».
Michelle, il suo personaggio, è piuttosto misteriosa. «L’ho trovata molto interessante proprio perché di lei sappiamo poco: è molto intelligente, una intellettuale che legge tanti libri. Proprio per queste qualità, fatica a frequentare le persone della sua età, un po’ perché non sa stringere amicizia, un po’ perché ama stare da sola ed essere indipendente. Comunque, mi sono divertita a interpretarla».
Spider-Man ha fatto parte della sua infanzia? «Da bambina non ho letto i fumetti del supereroe, nessuno mi ha introdotta in quel mondo. Eppure ricordo il primo film della serie che ho visto: avevo 16 anni e mi è piaciuto moltissimo. Spider-Man è un eroe. E quello interpretato da Tom Holland sarà ancora più coinvolgente, perché è una persona reale».
In che senso? «Non è un ragazzo cresciuto tra gli agi e, per quelli che, come me, sanno che cosa significhi, è una suggestione potentissima: “Anche io posso avere una seconda identità straordinaria, come lui”».
Mi parli della prima vita di Zendaya, quella di tutti i giorni. «Sono cresciuta a Oakland, non la comunità più facile in cui vivere. Da un certo punto di vista è una zona meravigliosa, ricca di cultura, di storia, di attivismo: sono successe lì molte cose importanti nella musica e nella lotta per i diritti civili. Però, per lo stesso motivo, è un luogo difficile, oltre alla creatività c’è tanta violenza. Ma è da posti così che arrivano le persone migliori».
Poi c’è la sua dimensione da star. «Questa è la mia vita da supereroe, in cui posso fare qualsiasi cosa, soprattutto giocare con personalità diverse: sono ancora io, ma in una versione migliore. Sembra di avere i poteri speciali, proprio come Spider-Man».
E come usa queste doti? «Il protagonista del film ha sviluppato le sue facoltà all’età di 15 anni, a me è successo tutto tra i 13 e 15, per cui ho dovuto imparare a usare la popolarità in modo responsabile, facendo sempre la scelta giusta e impegnandomi. Normalmente non mento, dico sempre quello che penso».
star del cinema e, adesso, anche un’icona della moda? «Credo che la mia dote principale sia la capacità di entrare in connessione con molte persone nel mondo. La gente sa chi sono e io ho questa abilità di dire ai giovani: “Mi piace questo, e siccome piace a me potrebbe piacere anche a te”».
Si chiama empatia. «È un potere, e mi chiedo ogni volta come usarlo per fare la cosa giusta. Voglio essere una fonte di ispirazione positiva, visto che molti mi guardano e vogliono imitarmi. Sono sempre concentrata nel regalare la versione migliore di me stessa in modo che anche i ragazzi facciano le scelte più giuste. Essere un modello per i giovani, nella parte più delicata della loro vita, quando stanno sviluppando un’identità, è una grande responsabilità».
Che cosa non sappiamo di lei? «Sono contenta di avere un carattere dolce. In più non mi piace uscire di sera, e questo mi tiene lontana dai guai».
I suoi genitori come l’hanno aiuta a diventare quello che è? «Sono entrambi insegnanti, hanno influenzato molto la mia crescita. I docenti sono le figure meno pagate e meno comprese della nostra società e, invece, mi chiedo che cosa ci sia di più importante del loro lavoro, che è dedicare tempo ai giovani e insegnare loro a diventare il più consapevoli possibile. Non è forse l’unico modo per avere un mondo migliore? Far crescere ragazzi maturi significa avere in futuro leader bravi che sapranno guidare il mondo. Ecco perché sono così fortunata ad avere loro come insegnanti e genitori. Se non avessi fatto l’attrice avrei seguito la loro strada».
È anche un peso? «Lo diventa se lo guardi in questo modo. Passi tutto il tempo a chiederti: “Che cosa diranno se mi muovo così?”. Ma a me piace considerarlo un dono. Sono grata di essere stata messa in una posizione per cui i genitori si fidano di me sulla cosa più importante della loro vita, i loro figli. Se accendi la tv e permetti ai ragazzi di guardarmi, mi lasci spazio per entrare nella loro mente, far parte della loro vita e avere i poster con il mio volto sui muri delle loro stanze. Per me è un regalo e non un pretesto per esaltarmi. Sono davvero quella che sembro, una tipa che non combina pasticci».
E come hanno reagito quando ha detto che voleva diventare un’attrice? «Mi hanno chiesto: “È davvero quello che vuoi fare? Allora va bene, crediamo in te e siamo con te”. Mi hanno aiutata, lasciando che seguissi il mio istinto».
Devono aver sostenuto anche molti sacrifici, lei ha iniziato che era ancora quasi una bambina. «È così, e avevo bisogno di loro. Oakland è a sei ore di auto dagli studi di Los Angeles, non ha idea di quante volte alla settimana abbiamo fatto avanti e indietro, per anni. Era impegnativo, soprattutto per il magro stipendio di due insegnanti, ma ne è valsa la pena». Ma avere i propri genitori come insegnanti non è strano? «Non posso dire che sia stato pesante, anzi. Ci sono vantaggi, per esempio posso entrare nell’ufficio di mio padre tutte le volte che voglio e usare il suo microonde».
Che cosa vorrebbe fare in futuro? «Ho tanti desideri, ma in cima alla lista metto la felicità. Quello che faccio, che siano film, moda o musica, voglio godermelo. E se un giorno mi accorgessi di non divertirmi più e di non essere soddisfatta, mi dedicherei ad altro. Forse diventerei anch’io un’insegnante».
Ci salutiamo e sono ancora più ammirata di quando è iniziata la nostra conversazione. Zendaya è molto più grande dell’età che ha e, soprattutto, può far imparare ai ragazzi che cosa sia un vero super potere: credere in se stessi.
IN SETTEMBRE GUIDERA’ LA GIURIA DELLA MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA, IL PRIMO FESTIVAL DAL VIVO DOPO I MESI DI QUARANTENA. MA CATE BLANCHETT È ANCHE AUTRICE E PRODUTTRICE DI STATELESS, LA SERIE CHE DENUNCIA IL LATO OSCURO DELLA POLITICA SULL’IMMIGRAZIONE IN AUSTRALIA. «IL MONDO VIVE VICENDE TERRIBILI, MA DOBBIAMO SUPERARLE TUTTI INSIEME RITROVANDO LA NOSTRA UMANITA’».
Tempo fa durante un’intervista a Cate Blanchett, per farle un complimento, mi confusi con le parole inglesi che dovevo usare. Le volevo dire che ero stata glaciale in un certo ruolo, e invece, usai la parola “gelato”. Al mio svarione seguì una risata improvvisa, sonora e generosa, e quell’episodio mi fece capire di più su Blanchett, e quanto sia genuina, diretta e passionale. Oggi, durante la nostra video intervista, scopro un aspetto diverso, quello più profondo e impegnato, della futura Presidente di giuria della Mostra del cinema di Venezia, in partenza il 2 settembre al Lido. Con il marito Andrew Upton, drammaturgo, sceneggiatore e regista australiano, ha scritto e prodotto una serie tv di cui Cate è anche interprete, dal 9 luglio su Netflix. È un progetto basato su vicende vere in cui Cate esce allo scoperto in prima persona, senza filtri, esponendosi su delicate questioni sociali e politiche. Ci ha lavorato per cinque anni, con persone fidatissime, come la producer Elise McCredie, compagna di liceo e di Università. hanno ambientato la serie all’inizio del 2000, dopo l’attacco alle Torri gemelle. «Era il momento in cui arrivavano in Australia molti barconi e molti rifugiati dall’Indonesia. Il governo di allora ha impostato delle specie di campi profughi molto isolati, spesso nel deserto. Di fatto erano prigioni in cui le persone venivano rinchiuse finché il loro stato di rifugiati veniva accettato, o meno. Ma questo processo poteva durare anche anni, quindi parliamo di detenzione indefinita per molti esseri umani». Per raccontare questa piaga hanno scelto la storia di una hostess fragile che finisce manipolata da una setta (la splendida Yvonne Strahovski de Il diario dell’ancella, ndr), un uomo arabo che passa la vita a raccogliere i mezzi necessari per portare la famiglia dall’Afganistan in una terra libera, su un barcone. E un padre che ha bisogno di lavorare per mantenere tre figli piccoli e la moglie. Per vie diverse tutti questi personaggi si ritrovano in un centro di detenzione, e capiscono presto di essere prigionieri e di non avere diritti, nonostante non abbiano commesso reati. Vengono trattati come criminali senza esserlo, quando, invece, la legge prevede che chiedano il diritto di asilo.
(…continua)
L’intervista integrale a Cate Blanchett è sul numero di Grazia del 16 Luglio 2020
Un horror a ritroso nel tempo, quando la marina britannica si avventurava verso i confini del mondo sul continente artico. Tra iceberg, naufragi, ammutinamenti, inuit, cannibalismo e mostri (ma nessuno più pericoloso dell’uomo)
Presentata in anteprima mondiale all’ultima Berlinale, la serie The terror, prodotta da Ridley Scott, è ora in onda su Amazon Prime Video. Basata sul romanzo di Dan Simmons del 2007, che a sua volta si ispira a una storia vera accaduta alla Royal Navy britannica, ci porta indietro al 1845, quando Sir John Franklin era in viaggio nelle terre sconosciute dell’Artico, alla ricerca del passaggio a Nord Ovest e le due navi della spedizione (Erebus e Terror) scomparvero nel nulla (per essere ritrovate solo nel 2014 e nel 2016, nella zona di King Willim Island).
La serie tv in 10 episodi, dalla produzione piuttosto ambiziosa, mostra pian piano come la scarsità delle risorse e le condizioni avverse devono aver portato gli equipaggi alla catastrofe. Nel gelodi quelle terre isolate ai confini del mondo, succedono cose orrende che mettono in luce il peggio di un gruppo di marinai che lotta per la sopravvivenza e invece di sconfiggere un male esterno finisce per combattersi al suo interno, fino al culmine di una violenza primordiale.
Nella serie Jared Harris (Sherlock Holmes, Operazione U.N.C.L.E, Allied e la serie The crown) è il Capitano Francis Crozier, al comando della HMS Terror e secondo al comando della spedizione. È un marinaio senza eguali ma è anche un irlandese che è cresciuto nelle gerarchie della Royal Navy, e ha quindi dovuto accettare uno stato di inferiorità senza metabolizzarlo.
Il suo consiglio da esperto non viene mai ascoltato e lui affoga i dolori nell’alcol.
Quando la spedizione si rivela disastrosa può finalmente mostrare il proprio valore, ma i suoi demoni sono duri da combattere.
Suo antagonista è il Capitano James Fitzjames, terzo capo della spedizione, interpretato da Tobias Menzies (già nella serie The crown, in Games of Thrones e presto nel film tv King Lear con Anthony Hopkins e nel mistery ispirato al romanzo gotico Carmilla). È una promessa della Royal Navy, ha la stima di Franklin nonostante non abbia mai navigato verso il Polo ed è in competizione con Crozier. La sua falsa sicurezza verrà frantumata e i suoi tremendi segreti emergeranno.
Conoscevate la storia narrata in The terror?
T. «In inghilterra non è molto nota, al tempo hanno voluto dimenticarla, mentre in Canada viene insegnata nelle scuole».
J. «Per via del cannibalismo, gli inglesi dicono “non è vero, non è mai successo”…».
Non ci sono stati sopravvissuti, come facciamo a conoscere i fatti oggi?
J. «Una nave che viaggiava sul ghiaccio ha incontrato due gruppi di Inuit che cacciavano, in due punti diversi del percorso. Quegli Inuit sapevano cosa stava succedendo. Durante successive ricerche, che sono andate avanti per 10 anni, gli Inuit hanno raccontato tutto. Quindi sono iniziati i ritrovamenti di ossa lunghe; c’era una famosa foto con un uomo su una barca circondato di ossa umane, ed erano visibili i segni dai coltelli, quindi non ci sono dubbi su quanto accaduto».
È una coincidenza il fatto che questa storia vada in onda oggi, o è lo specchio di qualcosa?
J. «L’idea era mostrare come stiamo impattando l’ambiente, l’arroganza delle persone che entrano nel mondo e credono di esserne i padroni. Un’attitudine che produce degli effetti».
T. «Sento il tema della sopravvivenza, e forse anche l’idea di incontrare una forza più grande di te, l’arroganza dell’imperialismo».
Siete attori esperti, anche di teatro, come si crea un’atmosfera horror sul set, da far respirare poi agli spettatori?
T. «Jonathan, il production designer, ha creato un mondo magnifico. Poi si è trattato di calarsi con l’immaginazione in un mondo pre moderno e vedervi dei mostri».
J. «I mostri cambiano, uno di loro è Cornelius Hickey, ma poi per un paio di episodi lo sono io, poi lo diventa Tobias… forse il mostro peggiore è l’ammutinamento…».
T. «L’ammutinamento è la cosa più temibile per un capitano, sempre».
Dove avete girato il film?
J. «Principalmente a Budapest, sede del set, per sette mesi, poi siamo stati un mese in Croazia: un’isola chiamata Pag, piena di pietre, funzionava bene come paesaggio per la fine della storia, quando si scioglie il ghiaccio».
Cosa c’è di nuovo in questa serie, nella vostra percezione?T. «La cosa più importante è il fatto di raccontare la storia stessa, che non è molto nota. Sembra diversa dalle cose che ho visto fin qui, ma è difficile spiegare perché. Dovevano trovare un modo originale di fare un horror, e David Kajganich e Soo Hugh che hanno scritto la storia conoscono il genere, eravamo in ottime mani».
J. «Il primo episodio mi ha reso chiaro che non ci sono clichè sul modo di intrattenere il pubblico. La storia si costruisce lentamente, non salta subito sulle terrificanti forze esterne presenti nei ghiacci, per esempio. Direi che è reale, non ruba dai classici del genere per attirare l’attenzione, non copia i finali di Brian De Palma, per intenderci».
Jared, lei ha altre due serie in uscita, una Amazon Original, Carnival Row, e una per HBO, Chernobyl.
J. «Carnival Row uscirà alla fine del 2019, io sono Absalom Breakspear, un cancelliere imperioso assediato da nemici politici da tutti i lati. È una grande storia fantasy, in cui devi buttarti senza esitazioni. E in Chernobyl, che uscirà all’inizio del prossimo anno, sono un investigatore mandato a cercare di risolvere un problema che negano esistere».
Tobias lei invece ha girato Re Lear…
T. «Alla fine dell’anno scorso, con Anthony Hopkins. Uscirà alla fine del 2018 sulla BBC, è una produzione inglese. Io sono Cornwall, membro della famiglia Lear, e ho lavorato molto accanto a Emily Watson (che è anche in Chernobyl, ndr). Hopkins è sempre stato un mio eroe, non è stato difficile accettare».
Amazon e Netflix sono buona cosa, per la libertà degli attori?
J. «Il problema è che gli studios hanno abdicato, hanno deciso molto tempo fa di rinunciare a grandi film. Paramount sette anni fa ha detto “non ne faremo più”, e HBO, Amazon e Netflix hanno sentito quel vuoto. E poi… organizzare le uscite di un’intera famiglia è difficile, se puoi vedere qualcosa di molto ben fatto anche stando a casa, non è male».
T. «Credo che tutta questa concorrenza forzerà il cinema ad alzare di nuovo l’asticella, quindi credo che andrà bene per tutti».
RECITARE GLI HA SALVATO LA VITA, SUO PADRE GLI HA SALVATO l’ANIMA. E ORA L’ATTORE INGLESE È PRONTO PER TORNARE DIETRO LA MACCHINA DA PRESA (COME L’AMICO QUENTIN)
«Lei è una di quelle giornaliste che twitta giudizi prima della fine dei film per battere la concorrenza facendo felice il suo direttore?». Scenario numero uno. È rovente, e gli succede quando si parla di cinema, ma soprattutto quando si impossessa di lui il personaggio di membro di una giuria, ruolo che ha ricoperto varie volte nella sua lunga carriera. In queste circostanze diventa l’accusa, e sfodera prove a suo favore. «A Cannes mi è capitato di scendere da un treno e vedere che in rete impazzavano già pareri su un film, quando sapevo con certezza che la proiezione non era ancora finita». Scenario numero due. Interno molto soleggiato, qualche giorno dopo aver visto i primi episodi dell’acclamatissima nuova stagione di Twin Peaks. «Molti anni fa una donna ha capito che ero in pericolo, e ha deciso di salvarmi. Con il contribuito di Samuel Beckett…». Scenario numero tre. Al telefono da New York, poco prima dell’inizio delle riprese della seconda serie di Tin Star, produzione anglo canadese di Amazon di cui è protagonista e che la scorsa stagione ha fatto impazzire l’America. «Un giorno mio padre mi ha portato al pub e mi ha fatto domande su una vicenda molto scura che ci riguardava entrambe. È stato così che abbiamo iniziato a guarire, insieme». Tre sguardi diversi che, messi insieme, fanno intuire i frammenti di un caleidoscopio nell’anima dell’attore e regista inglese che reputa Quentin Tarantino uno di famiglia. Padre giornalista e membro del Partito comunista, madre pittrice e insegnante, da giovanissimo Tim Roth è arrivato in California e oggi vive ancora lì, con moglie e due figli.
Partendo dall’inizio, perchésuo padre ha cambiato il cognome di famiglia lasciando l’americano Smith per l’ebreo Roth? «Non ne ha mai parlato davvero, ma credo che nel periodo della Seconda guerra mondiale qualcosa in lui sia cambiato per sempre. Ha visto cose terrificanti, è entrato in spazi molto bui. Alla fine di quel periodo ha preso un nome ebreo, è stato più un fatto di solidarietà. Era un socialista, è tornato dalla guerra ancora più a sinistra, e approdato di nuovo a Londra ha tradotto i racconti dei soldati italiani in inglese, pubblicandoli sui giornali».
Potrebbe quasi quasi essere una vicenda contemporanea. «Stiamo andando troppo a destra, se è questo che intende. Ma non è una sorpresa, almeno non del tutto. Siamo pilotati dalle grandi corporazioni a cui conviene farci sentire insicuri e in pericolo. E poi ci sono due guerre in Medio Oriente, la situazione in Siria è disastrosa, e il governo inglese ha un ordine del giorno basato sugli stessi obiettivi di Trump, un fomentatore le divisioni».
Perché da giovane ha lasciato Londra per Los Angeles? «Avevo già iniziato una carriera ma in Inghilterra non c’erano fondi per l’arte, il cinema e la tv. Mi hanno offerto un lavoro in Australia, non era un ottimo film ma ci sono andato lo stesso. Mi hanno offerto un film dopo l’altro, poi ho conosciuto mia moglie e oggi mi trovo nel punto della vita in cui ho vissuto più anni in Usa che nel Regno Unito».
A proposito di casa, ha frequentato l’Istituto d’arte, come sua sorella. «Mia madre era una pittrice, mio padre un ottimo illustratore, era normale partire da lì. Ma nello stesso periodo ho iniziato a fare teatro, nella scena pop che mi ha portato fino a Glasgow. Frequentavo classi di improvvisazione e mi sono accorto che mi interessava più sparire lì, per cui dopo un anno e mezzo ho lasciato la scuola».
Ai professori sarà dispiaciuto, so che era un ottimo scultore. «Lavorare la creta e scolpire mi piaceva moltissimo, ma hanno capito e mi hanno sostenuto. Mi hanno detto “prova a fare l’attore, se non funziona ti teniamo un posto qui…”».
Qual è stato l’elemento che ha direzionato la sua vita diversamente, lo ha capito? «È la stessa domanda che ho fatto a una donna molti anni dopo. Gli ho chiesto cosa avesse visto in me, dopo un’audizione. “Una persona in pericolo, un uomo che era meglio afferrare…”, mi ha risposto “. Credo che avesse ragione».
[…continua]
L’intervista integrale sul numero di ICON Panorama di marzo 2018
Parla Julian Fellowes, ideatore della saga sulla famiglia aristocratica dei Crawley, vincitrice di 10 Emmy award, cinque Bafta e due Golden Globe.
E’ rimasto nell’ombra per vent’anni, facendo l’attore caratterista e lo scrittore per la tv. Poi è arrivato Robert Altman che gli ha fatto vincere un Oscar per la miglior sceneggiatura originale con Gosford Park, catapultandolo nella lista dei migliori scrittori per il cinema di Hollywood (The Tourist, The Young Victoria, Vanity Fair). Da lì in avanti è stata tutta un’ascesa per Julian Fellowes, attore, regista, produttore e scrittore di bestseller. E quando ha ideato la saga sulla famiglia aristocratica dei Crawley, Downton Abbey, di fatto ha creato una serie tv da Guinness dei primati che vanta nel palmarès 10 Emmy award (e 30 nomination), cinque Bafta e due Golden globe. Il 19 dicembre approda in Italia in prima serata la terza serie, su Rete4, mentre a gennaio in Usa ci sarà la première della quarta stagione e in Inghilterra inizieranno le riprese della quinta. Ricapitolando, la storia è quella della famiglia aristocratica dei Crawley che vive con la numerosa servitù in una casa nello Yorkshire, attraversando le varie fasi della storia inglese: dall’affondamento del Titanic alla dichiarazione di guerra alla Germania, poi, nella seconda stagione, gli anni della guerra…
Che cosa accadrà nella terza serie, finita al numero uno nella storia del network Pbs in Usa, con 24 milioni di telespettatori?
Sarà un po’ come quando, dopo un incidente, ci si tasta il corpo per capire quante ossa si sono rotte. Questo è quel che è successo negli anni Venti e Trenta, che mi colpiscono per la loro nebulosità, in un certo senso eccitante. C’erano tutti quei balli nuovi, gli aeroplani, i film, sempre più persone avevano la macchina, ma da un altro punto di vista serpeggiava la paura del futuro. Come oggi.
Non ha temuto di essere inopportuno mandando in onda una serie focalizzata su benessere e lusso, in un’epoca di crisi come la nostra?
È un momento di grandi insicurezze, i posti di lavoro o non ci sono o traballano, le regole sono vaghe, anzi nessuno sa esattamente quali siano. Proprio per questo credo che raccontare la vita di un gruppo di persone che vivono a stretto contatto tra loro, ma con orizzonti così diversi, sia molto utile. Era un’idea che avevo in mente già prima di scrivere Gosford Park.
Ha introdotto 18 personaggi, ognuno con una personalità e una direzione.
Il pubblico contemporaneo è molto sofisticato, è abituato a maneggiare tante informazioni in simultanea. Anche il racconto è veloce, in effetti, si deve rimanere svegli, mentre un tempo non importava se lo spettatore si alzava per andare a farsi una tazza di tè nel mezzo dello spettacolo tv.
Qual è il segreto di un tale successo?
L’abbraccio senza giudizio delle vite di tutti, benestanti e no. I personaggi sono presi sul serio dal primo all’ultimo, la servitù non è comica e i nobili non sono né padroni né egoisti. E poi ci sono i socialisti irlandesi, le femministe di specie differenti e i nuovi ricchi americani, i buoni e cattivi non dipendono dalla classe sociale. Regna un equilibrio ideologico che evidentemente premia.
Si ritiene uno snob?
Mi hanno accusato di esserlo. Francamente, analizzare perché le persone compiono certe azioni, e mostrare come in fondo la maggior parte degli esseri umani voglia andare avanti nella vita, non mi pare un atteggiamento snob.
Dal 2011 lei è un lord, vive con sua moglie Emma e suo figlio Peregrine a Londra e nel Dorset: ci sono similitudini tra la sua famiglia e quella protagonista di «Downton Abbey»?
Proprio come per i Crawley, nel mio caso gli antenati più nobili vengono dalla famiglia di mio padre, in quella di mia madre non se ne rintracciano. Questo fatto mi ha molto influenzato, credo sia il motivo per cui non prendo le parti di nessuno.
Una delle novità della terza serie è la presenza del premio Oscar Shirley MacLaine come interprete di Martha Levinson.
È salita a bordo in modo semplice, non si è mossa come una star che merita qualcosa di diverso dagli altri. È una donna gentile e conviviale, quando sono finite le riprese e se n’è andata tutti hanno vissuto una specie di lutto.
Dopo di lei ci dobbiamo aspettare una pioggia di star?
In realtà sono molti i big che ci hanno chiesto di venire a lavorare con noi, ma cose così vanno calibrate. Quando serve una grossa personalità, come nel caso della contessa di Grantham, va bene Maggie Smith, però non si può esagerare: le star di Hollywood si portano dietro una tale aura che rischiano di diluire l’atmosfera della storia e non va bene.
Sente la pressione del successo?
La pressione è un sottoprodotto inevitabile del successo, se non c’è significa che hai fatto un flop.
Non ha avuto timori nemmeno quando si è trattato di riscrivere William Shakespeare?
L’anno prossimo arriverà nelle nostre sale la sua versione di «Romeo e Giulietta». Shakespeare è stato riscritto più o meno dal giorno in cui ha reso l’anima al cielo, non c’è stata generazione, dopo, che non lo abbia affrontato, c’è stato persino chi ha dato alla storia un lieto fine. A far paura è il fatto di dovere tradurre un testo per un luogo, il cinema, diverso dal teatro, per cui era stato pensato.
La sua versione sarà fedele a quella del poeta inglese?
Abbiamo mantenuto i capisaldi di quella che secondo me è la miglior storia che sia mai stata scritta sul primo amore. Credo che solo uno studioso davvero raffinato potrà accorgersi di cosa ho modificato.