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Omar Sy: «Il mio Lupin è l’eroe degli invisibili».

15 martedì Giu 2021

Posted by cristianaallievi in Attulità, cinema, Miti, Netflix, Personaggi, Senza categoria

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Cannes film festival, interviste illuminanti, ladro gentiluomo, Ludivine Sagnier, Omar Sy, Quasi amici, Serie tv, Spike Lee

Crescere con la pelle nera nella periferia francese. Sentire gli sguardi degli altri addosso. Insegnare ai suoi figli che è l’amore a rendere uguali gli esseri umani. L’attore Omar Sy torna in tv con la seconda serie sul ladro gentiluomo e racconta a Grazia che cosa lo lega a un personaggio divenuto un simbolo per chi si sente escluso

di CRISTIANA ALLIEVI

L’ATTORE FRANCESE OMAR SY, 43 ANNI, DALL’11 GIUGNO È SU NETFLIX CON LA SECONDA STAGIONE DI LUPIN.

A volte le star hanno modi molto normali di sorprendere. Omar Sy, attore e comico francese di origini senegalesi e mauritane, 43 anni, lo fa parlandomi del suo thiebu dieune. Se vi state chiedendo di cosa si tratti, l’ho fatto anche io prima di scoprire un piatto amatissimo della cucina senegalese. Subito dopo passa a raccontarmi della moglie, Helene, con cui vive da vent’anni e condivide ben cinque figli. Parlare di famiglia con lui è molto naturale, sta al centro della sua vita e anche della trama di Lupin, la serie tv Netflix di cui è l’interprete. La rivisitazione della storia del ladro gentiluomo è un grande successo della scorsa stagione e dall’11 giugno sono in onda i nuovi episodi. Me lo racconta direttamente dal sud della Francia, da una stanza della sua casa. «Nella prima stagione avevamo scherzato», racconta, «con la seconda le cose si fanno serie».  Come serio sarebbe stato il suo destino, se fosse finito in fabbrica come suo padre, un senegalese migrato in Francia che ha lavorato tutta la vita come operaio. Invece Omar, il quarto di otto figli, accompagna un amico a fare un provino in radio, con il risultato che li prendono entrambi. Dalla radio a Canal +, finché dieci anni fa esatti Quasi amici, uno dei più grandi successi della storia del cinema francese, gli apre le porte di Hollywood grazie al personaggio di Driss, il badante che assisteva l’aristocratico tetraplegico interpretato da Francois Cluzet. Quindi i grandi blockbuster, come X Men, Jurassic World e Il codice da Vinci. Non meraviglia che oggi sia al centro di un altro successo mondiale.

Che differenza c’è fra il successo avuto con Quasi amici e quello che sta avendo con Lupin? «La differenza è che sono più vecchio, e con questo intendo anche che ho più esperienza. Dieci anni fa Quasi amici (pronuncia il titolo in italiano, ndr) mi aveva preso alla sprovvista.  Era stato scritto per me, mentre sono stato più coinvolto nel processo di sviluppo di questa serie, e forse ero anche più preparato».

Guardare al passato è una sua abitudine?  «Non lo faccio mai, è il modo migliore per farsi male. Cerco sempre di vivere il momento presente e di fare il meglio che posso. Voltarti indietro a considerare quello che è stato è qualcosa che fai quando ti fermi, e io mi sto ancora muovendo, non voglio sprecare tempo».

Quando ha sentito arrivare il grande momento, quando tutto cambia per sempre? «Non è mai semplice individuare quel punto. Vedo la vita come un passo dopo l’altro, niente succede all’improvviso. Ho sempre avuto la sensazione di procedere perché quello era ciò che volevo. Tutt’oggi sto ancora  muovendomi nella mia avventura, non sono a un punto in cui dire “ecco, questo è quanto”. E mi piace questo continuare a progredire».

Quest’anno il regista afroamericano Spike Lee sarà presidente di giuria al festival di Cannes. Vi conosce di persona? «L’ho incontrato a Los Angeles in un momento favoloso della mia vita. I suoi film sono stati fondamentali per noi neri, ci hanno aperto la mente e fatto pensare in modo diverso. Perché crescendo in Francia non sai cosa significa essere un nero in altri paesi del mondo, come gli Usa. E con film come Malcom X abbiamo imparato molto anche su cosa è successo nel passato».

(continua…)

Intervista integrale pubblicata su Grazia del 10/6/2021

©Riproduzione riservata

«Vi spiego perché Downton Abbey parla un po’ di noi»

21 venerdì Nov 2014

Posted by cristianaallievi in Serie tv, Televisione

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Tag

Cristiana Allievi, Downton Abbey, Julian Fellowes, Meggie Smith, Panorama, Romeo e Giulietta, Serie tv, Televisione, William Shakespeare

Parla Julian Fellowes, ideatore della saga sulla famiglia aristocratica dei Crawley, vincitrice di 10 Emmy award, cinque Bafta e due Golden Globe.

julian fellows

E’ rimasto nell’ombra per vent’anni, facendo l’attore caratterista e lo scrittore per la tv. Poi è arrivato Robert Altman che gli ha fatto vincere un Oscar per la miglior sceneggiatura originale con Gosford Park, catapultandolo nella lista dei migliori scrittori per il cinema di Hollywood (The Tourist, The Young Victoria, Vanity Fair). Da lì in avanti è stata tutta un’ascesa per Julian Fellowes, attore, regista, produttore e scrittore di bestseller. E quando ha ideato la saga sulla famiglia aristocratica dei Crawley, Downton Abbey, di fatto ha creato una serie tv da Guinness dei primati che vanta nel palmarès 10 Emmy award (e 30 nomination), cinque Bafta e due Golden globe. Il 19 dicembre approda in Italia in prima serata la terza serie, su Rete4, mentre a gennaio in Usa ci sarà la première della quarta stagione e in Inghilterra inizieranno le riprese della quinta. Ricapitolando, la storia è quella della famiglia aristocratica dei Crawley che vive con la numerosa servitù in una casa nello Yorkshire, attraversando le varie fasi della storia inglese: dall’affondamento del Titanic alla dichiarazione di guerra alla Germania, poi, nella seconda stagione, gli anni della guerra…

Che cosa accadrà nella terza serie, finita al numero uno nella storia del network Pbs in Usa, con 24 milioni di telespettatori?
Sarà un po’ come quando, dopo un incidente, ci si tasta il corpo per capire quante ossa si sono rotte. Questo è quel che è successo negli anni Venti e Trenta, che mi colpiscono per la loro nebulosità, in un certo senso eccitante. C’erano tutti quei balli nuovi, gli aeroplani, i film, sempre più persone avevano la macchina, ma da un altro punto di vista serpeggiava la paura del futuro. Come oggi.

Non ha temuto di essere inopportuno mandando in onda una serie focalizzata su benessere e lusso, in un’epoca di crisi come la nostra?
È un momento di grandi insicurezze, i posti di lavoro o non ci sono o traballano, le regole sono vaghe, anzi nessuno sa esattamente quali siano. Proprio per questo credo che raccontare la vita di un gruppo di persone che vivono a stretto contatto tra loro, ma con orizzonti così diversi, sia molto utile. Era un’idea che avevo in mente già prima di scrivere Gosford Park.

Ha introdotto 18 personaggi, ognuno con una personalità e una direzione.
Il pubblico contemporaneo è molto sofisticato, è abituato a maneggiare tante informazioni in simultanea. Anche il racconto è veloce, in effetti, si deve rimanere svegli, mentre un tempo non importava se lo spettatore si alzava per andare a farsi una tazza di tè nel mezzo dello spettacolo tv.

Qual è il segreto di un tale successo?
L’abbraccio senza giudizio delle vite di tutti, benestanti e no. I personaggi sono presi sul serio dal primo all’ultimo, la servitù non è comica e i nobili non sono né padroni né egoisti. E poi ci sono i socialisti irlandesi, le femministe di specie differenti e i nuovi ricchi americani, i buoni e cattivi non dipendono dalla classe sociale. Regna un equilibrio ideologico che evidentemente premia.

Si ritiene uno snob?
Mi hanno accusato di esserlo. Francamente, analizzare perché le persone compiono certe azioni, e mostrare come in fondo la maggior parte degli esseri umani voglia andare avanti nella vita, non mi pare un atteggiamento snob.

Dal 2011 lei è un lord, vive con sua moglie Emma e suo figlio Peregrine a Londra e nel Dorset: ci sono similitudini tra la sua famiglia e quella protagonista di «Downton Abbey»?
Proprio come per i Crawley, nel mio caso gli antenati più nobili vengono dalla famiglia di mio padre, in quella di mia madre non se ne rintracciano. Questo fatto mi ha molto influenzato, credo sia il motivo per cui non prendo le parti di nessuno.

Una delle novità della terza serie è la presenza del premio Oscar Shirley MacLaine come interprete di Martha Levinson.
È salita a bordo in modo semplice, non si è mossa come una star che merita qualcosa di diverso dagli altri. È una donna gentile e conviviale, quando sono finite le riprese e se n’è andata tutti hanno vissuto una specie di lutto.

Dopo di lei ci dobbiamo aspettare una pioggia di star?
In realtà sono molti i big che ci hanno chiesto di venire a lavorare con noi, ma cose così vanno calibrate. Quando serve una grossa personalità, come nel caso della contessa di Grantham, va bene Maggie Smith, però non si può esagerare: le star di Hollywood si portano dietro una tale aura che rischiano di diluire l’atmosfera della storia e non va bene.

Sente la pressione del successo?
La pressione è un sottoprodotto inevitabile del successo, se non c’è significa che hai fatto un flop.

Non ha avuto timori nemmeno quando si è trattato di riscrivere William Shakespeare?
L’anno prossimo arriverà nelle nostre sale la sua versione di «Romeo e Giulietta». Shakespeare è stato riscritto più o meno dal giorno in cui ha reso l’anima al cielo, non c’è stata generazione, dopo, che non lo abbia affrontato, c’è stato persino chi ha dato alla storia un lieto fine. A far paura è il fatto di dovere tradurre un testo per un luogo, il cinema, diverso dal teatro, per cui era stato pensato.

La sua versione sarà fedele a quella del poeta inglese?
Abbiamo mantenuto i capisaldi di quella che secondo me è la miglior storia che sia mai stata scritta sul primo amore. Credo che solo uno studioso davvero raffinato potrà accorgersi di cosa ho modificato.

La locandina di Downton Abbey

La locandina di Downton Abbey

Qui il mio articolo su Panorama

© Riproduzione Riservata

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