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Cristiana Allievi

~ Interviste illuminanti

Cristiana Allievi

Archivi della categoria: Zurigo Film Festival

Rebel Wilson, «Ho perso peso, non carisma»

02 venerdì Dic 2022

Posted by cristianaallievi in Attulità, cinema, Personaggi, Zurigo Film Festival

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carisma, Charlotte Gainsbourg, Cristiana Allievi, Hollywood, interviste illuminanti, Le amiche della sposa, magra, Nicole Kidman, Rebel Wilson, the almond and the seahorse, Zurigo Film Festival

«MANGIAVO SEMPRE, LA MIA ERA UNA FAME EMOZIONALE». DAL LOCKDOWN L’ATTRICE SI LASCIA ALLE SPALLE 40 CHILI. E SVOLTA: SI INNAMORA DI UNA DONNA, DIVENTA MAMMA, INTERPRETA UN FILM CHE FA (ANCHE) COMMUOVERE

di Cristiana Allievi

L’attrice e comica australiana Rebel Wilson, 42 anni.

Mettiamola così, se non avessimo avuto un appuntamento non credo che l’avrei riconosciuta. La regina di commedie hollywoodiane patinate come Le amiche della sposa e Pitch Perfect, con cui l’abbiamo scoperta, è distante mille miglia dalla donna che ho davanti. Siamo in un hotel di lusso a Zurigo, lei indossa una camicia in chiffon nero con pantaloni e tacchi di vernice in tinta. Il suo corpo è letteralmente la metà di quello quell’amica simpatica e in sovrappeso da cui tutti andavano a consolarsi a cui ci aveva abituati. L’anno della svolta è stato il 2020, quando ha iniziato a perdere i primi dei 40 chili che si è lasciata alle spalle. Mentre cercava un fidanzato, si è innamorata di Ramona Agruma, imprenditrice californiana con cui fa coppia dallo scorso febbraio. E pochi giorni fa, a completare questa specie di rivoluzione copernicana, è arrivata Royce Lilian, la figlia avuta con la maternità surrogata. Anche il cinema risponde a questo forte cambiamento, e dal 16 dicembre arriva The almond and the seahorse su piattaforma (Prime Video), che ha presentato all’ultimo Festival di Zurigo con la coprotagonista Charlotte Gainsbourg. È la storia drammatica (ma raccontata con leggerezza) di due coppie in cui un partner è affetto da una lesione cerebrale traumatica, e con il passare del tempo non riconosce più chi ha accanto e non ricorda la vita insieme.

Un bel salto, dalle commedie a cui ci aveva abituati. «In realtà con questo ruolo ritorno agli inizi, quando volevo diventare la prossima Judi Dench e mi esibivo a teatro con Shakespeare e Marlowe. Solo nel 2003, quando ho vinto una borsa di studio di Nicole Kidman, mi sono specializzata nella commedia, a New York».

Conosceva la malattia di cui parla il film? «Non sapevo molto ma ho avuto una nonna che ha sofferto di demenza senile e pian piano si è dimenticata di chi fossi, è stato tragico. Da quando ho girato il film non sa quante persone mi hanno detto “mio cugino ha avuto quella malattia…”, “mio marito ne soffre…”, è stata una scoperta».

Fra le altre cose, questo film ci mostra quanto non vogliamo che le cose cambino. «Il mio personaggio è un’archeologa, una metafora di tutte quelle persone che vorrebbero che il mondo tornasse a com’era prima della pandemia.  Io non mi sento bloccata nel passato, sono fra i pochi che non vorrebbero mai tornare ai tempi del liceo».

(continua…)

Intervista esclusiva pubblicata su F del 6/12/2022

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Eddie Redmayne: «All’ansia non penso»

02 mercoledì Nov 2022

Posted by cristianaallievi in Attulità, cinema, Miti, Netflix, Zurigo Film Festival

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Tag

Charles Cullen, Charles Graeber, Eddie Redmayne, Jessica Chastain, storie vere, The good nurse, tv

SI VIVE UNA VOLTA SOLA, DICE L’ATTORE. E ALLORA MEGLIO GODERSELA SENZA FARSI ASSALIRE DAI BRUTTI PENSIERI. E PRENDENDO ESEMPIO DA SUO PADRE: «NON SAPEVA NULLA DEL MIO LAVORO, MA MI HA SEMPRE SOSTENUTO».

di Cristiana Allievi

Siamo nel cuore di Zurigo, in un bell’hotel a bordo lago.  Mi viene incontro e dopo avermi salutata posa lo sguardo sul tavolo.  «Mi ricordo anni fa, quanto erano diversi questi dispositivi…». Mentre commenta il mio registratore e i segni del passare del tempo, il volto di Eddie Redmayne si allarga in un sorriso. Indossa un maglione color verde acqua, come i suoi occhi, e questo è il suo modo per alleggerire l’atmosfera. Ho appena visto l’anteprima europea di The good nurse al Zurigo Film Festival, e leggerezza è ciò che occorre. La storia su Netflix è quella vera e incredibile di Charles Cullen, un infermiere che ha ucciso 39 persone (questo il numero di quelle ammesse, ma si sospetta le vittime siano 400) passando di ospedale in ospedale, e agendo praticamente indisturbato. Finchè non ha incontrato sulla sua strada Amy (Jessica Chastain), un’infermiera del reparto intensivo molto empatica e coraggiosa, che si troverà nella scomoda posizione di amica e testimone di una sconcertante verità, e riuscirà a fermarlo. Diretto da Tobias Lindholm, il film si basa sull’omonimo libro di Charles Graeber. Ne parlo con il premio Oscar che ha studiato arte al Trinity College di Cambridge, dopo aver frequentato l’Eton college insieme al principe William. Oggi è padre di due figli, avuti con la moglie Hannah Bagshave, e la famiglia  vive a Londra, in un quartiere vicino al Borough Market.

Cosa sapeva di Charles Cullen, l’infermiere che interpreta in The Good nurse? «Non sapevo niente, l’ho scoperto leggendo la sceneggiatura, e non ho capito subito la portata di quello che ha fatto: quando ho avuto chiaro il quadro completo della vicenda sono andato in shock. La cosa più interessante era che non sembrava possibile classificare la storia in nessun genere, era la vicenda di un’eroina che riesce a vincere su un intero sistema che non riusciva a gestire la situazione? Era la vicenda di un folle, o la storia di un’amicizia?».

Come si è preparato? «Ero così intrigato dal capire cosa c’è dietro alla sua storia, che ho iniziato a scavare come faccio sempre. Il libro di Charles Graeber è in un certo senso basato su quello che è un sogno per un attore, perché raccoglie ogni pezzettino della sfaccettatura psicologica della persona. Di film sui serial killer ne abbiamo visti tanti, ma mai avevamo visto un individuo che si trova a combattere un intero sistema, come fa in questo caso il personaggio di Jessica».

Cullen non era un serial killer affascinante… «No, non era un Hannibal Lecter, concordo con lei. Ciò che era affascinate e terrificante era l’idea di queste  persone,  i medici e le infermiere, a cui portiamo le nostre madri e i nostri figli che soffrono, e che all’improvviso trasformano un ospedale in un luogo di omicidi. La mia parte si sarebbe dovuta basare sulla paura, è questo il nocciolo della storia».

Paura è ciò che si prova anche  all’idea di trovarsi così indifesi davanti alla follia di qualcuno. «Un mio amico americano  ha vissuto una situazione di ricovero che lo ha portato a  sperimentare quanto un essere umano, in un momento di bisogno, possa contare su figure come quelle degli infermieri. Ci trascorri la giornata, loro sono delle specie di cerniere fra quello che dicono i medici e il contesto più umano del paziente che affronta la realtà giorno dopo giorno. C’è un coinvolgimento a livello personale, e la relazione è così emotiva che quando un infermiere se ne va, e ne arriva uno nuovo, il paziente si ritrova in uno stato di incredibile vulnerabilità».

Cos’altro ha scoperto, che non si aspettava? «Gli infermieri in un certo senso sono simili a noi attori. Devono tirare avanti in un clima di dolore, agendo con empatia e umanità, e poi tornare a casa e mettere da parte le tragedie che vedono tutto il giorno».

(continua…)

L’intervista integrale è pubblicata su F magazine dell’1/11/2022

@Riproduzione riservata

Incontri on the road, Viggo Mortensen

09 sabato Feb 2019

Posted by cristianaallievi in cinema, Letteratura, Personaggi, Zurigo Film Festival

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Tag

amicizia, cinema, Golden Globe, Greenbook, interviste illuminanti, On the road, Oscar, razzismo, Star, stile, uomini, Viggo Mortensen

POETA, SCRITTORE (DI TANTE LETTERE), REGISTA. VIGGO MORTENSEN È UN SOLITARIO IN TOURNEE CON GREENBOOK

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«Scrivo molte lettere e cartoline, e adoro riceverle. La stranezza è che gli uffici postali non sono efficienti come quelli di una volta, in Europa come negli Stati Uniti i finanziatori non vogliono investire nel settore. Ma io sono spesso davanti alle buche delle lettere, alimento il mercato». Polo grigia con giacca e pantaloni blu, macchina fotografica in mano, Viggo Mortensen riesce sempre a spiazzarti con una storia mai sentita prima. Come questa. «Da giovane non ero un tipo socievole, tendevo a evitare sia chi mi piaceva sia le persone di cui non mi fidavo. Ma trovandomi in situazioni in cui non avevo via d’uscita, in paesi stranieri, ho trascorso tempo con persone che non avrei frequentato, e questo mi ha cambiato. Ho dovuto capirle, comprenderne anche la lingua, conoscere i loro background, diversi dal mio. E sono diventato più curioso, è stata mia madre a incoraggiarmi in questo senso». Grace Gamble, americana, incontra Viggo Peter Mortensen Sernior, danese, a Oslo, Norvegia, poco dopo lo ha sposato nei Paesi Bassi. Se il loro primo figlio scrive sceneggiature mentre è in volo sull’Oceano, intasa le buche delle lettere, parla sette lingue e ha due fratelli minori che fanno i geologi, invece di lavorare in banca, un motivo c’è. Per esempio il fatto di aver vissuto fra Venezuela, Danimarca e Argentina, e di essere stati mollati da soli in un collegio isolato sulle montagne, a soli sette anni.  «Quel modello di educazione anglosassone non è per tutti. Io mi sono fatto degli amici, sono sopravvissuto, ma altri bambini ne hanno risentito a livello psicologico».

Anche gli inizi della carriera non sono stati facili per lui, se si pensa che Jonathan Demme e Woody Allen hanno tagliato le uniche scene in cui era presente, e che Oliver Stone all’ultimo gli ha preferito Willem Dafoe per il suo sergente Elias. Poi però Sean Penn lo ha voluto nel suo Lupo solitario, sigaretta in bocca e petto nudo, e da lì in avanti nessuno lo ha più fermato. In questi giorni è in Ontario, Canada, per girare il suo primo film dietro la macchina da presa: Falling, una storia scritta partendo da eventi della sua famiglia che vedremo il prossimo autunno.  Intanto è al cinema con Green Book,  il film di Peter Farrelly visto in anteprima europea al Festival di Zurigo, vincitore di 3 Golden Globe e candidato a 5 Oscar (miglior film, attore protagonista, non protagonista, sceneggiatura, montaggio) . È la storia vera del buttafuori italoamericano Tony Lip Vallelonga (in seguito attore noto per il ruolo del boss Carmine Lupertazzi ne I Soprano) che fece da autista al jazzista nero Don Shirley, in tour fino nel sud degli Stati Uniti. Siamo negli anni Sessanta, ma per molti versi quel paese razzista e classista assomiglia all’America di Trump. Nonostante questo, e le differenze fra i due uomini, fra loro nascerà un’amicizia profondissima.

Green Book mette al centro una convivenza forzata fra due uomini, che sono spesso in auto insieme e si guardano attraverso lo specchietto retrovisore. «Il film racconta una storia che fa pensare, magari anche ridere, ma non dice tutto. Sei tu spettatore a farti la tua idea su quel momento storico, a fare i collegamenti con quello che stiamo vivendo oggi, ma non ti viene detto come farli. Detesto quando un artista, o un film, si impongono, e inconsciamente sottintendono “io ne so più di te”, è molto più interessante attrarre le persone con la qualità di quello che si fa».

Ha dichiarato che insieme a Dangerous Method e a Far from men, è stato il peggior film dal punto di vista delle paure che ha scatenato in lei.  «Non sono italoamericano, anche se capisco la vostra lingua più di molti americani, inclusi alcuni italoamericani e sono stato in grado di aiutare nella traduzione di alcune frasi per la sceneggiatura».

Lei è un po’ maniacale, nel lavoro… «Ho detto a Peter che la storia era bellissima, il personaggio anche e alcuni dei migliori attori che abbiamo sono italoamericani. Insomma, c’era chi lo avrebbe interpretato meglio di me».

E il regista? «Mi ha risposto che se gli ero sembrato credibile nei panni di un assassino russo, in La promessa dell’assassino, potevo farlo anche in quelli di un tassista italoamericano. La svolta è stata l’invito a pranzo dalla famiglia di Tony,  nel loro ristorante in New Jersey, il Tony Lips. li ho osservati, mentre siamo stati seduti a tavola per ore, e ho capito che sarebbe stato un gran lavoro ma potevo farcela. Finalmente avevo qualcosa da imitare».

(continua…)

Intervista di copertina pubblicata su GQ di febbraio 2019 

© Riproduzione riservata

Kossakovsky da brividi

14 mercoledì Nov 2018

Posted by cristianaallievi in cinema, Cultura, Miti, Personaggi, Zurigo Film Festival

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Tag

Acqua, Aquarela, Cristiana Allievi, Festival di Zurigo, Ghiaccio, GQ Italia, interviste illuminanti, journalism, Kossakovsky

L’ultimo lavoro, che il regista ha presentato prima al Festival di Cannes e poi a quello di  Zurigo, racconta la potenza dell’acqua in tutte le sue forme. Liquide e no

 

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Un’immagine del docu film Aquarela, di Kossakovsky (Courtesy of Mymovies).

 

Si vedono 500 metri di iceberg che si staccano in Groenlandia, spostando una massa d’acqua immensa tale da scatenare piccoli maremoti circostanti. Si passa alle superfici ghiacciate del lago Baykal, in Russia, poi sull’isola Bornholm, dove si resta senza fiato davanti al colore dell’acqua del Mar Baltico che cambia col passare delle ore: rossa, verde, grigia, poi completamente nera.  Arriva la strabiliante visione frontale delle Angel Falls in Venezuela, mille metri di cascate in cui l’acqua non arriva mai a terra, polverizzandosi a metà percorso. «Mi ha chiamato un produttore scozzese chiedendomi se volevo girare un film sull’acqua», racconta il pluripremiato documentarista russo Victor Kossakovsky, incontrato al Festival di Zurigo. «Ho detto subito di no, quelli che avevo visto raggruppavano vari tipi di persone, dai politici agli scienziati agli attivisti. Tutti parlavano di clima, di inquinamento, di leggi, ma non si vedeva mai l’acqua. Finchè un giorno, ricontattandomi, ha detto “e se lo chiamassi Aquarela?”. Mi sono visto con un pennello in mano, e ho accettato». Così è iniziato un viaggio incredibile, anche per cercare i finanziamenti di un film senza esseri umani,  senza una storia, solo acqua in diverse forme e tre momenti di musica degli Apocalyptica, un gruppo symphonic metal finlandese. «Nel 2011 stavo girando Viva gli antipodi!, e il personaggio all’improvviso ha detto una cosa strana: “nella prossima vita vorrei non essere una persone, ma acqua”. Quando si è presentata l’opportunità ho deciso di partire da lì: ho messo la macchina nello stesso posto, sul lago Baycal, per riprendere quel ghiaccio spesso solo un metro, trasparente, sotto cui riuscivi a vedere i pesci… Ma è accaduto qualcosa di orribile, e  ho preso una direzione diversa». Conosciuto come il Rembrandt dei documentari (“perché metto le immagini al primo posto, prima ancora delle storie”), ha presentato questi 90 minuti mozzafiato in anteprima mondiale a Cannes. Girato a 96 fotogrammi al secondo, con un suono creato grazie al lavoro di 120 canali, è una chiamata viscerale all’umanità sotto forma d’arte, perché si svegli davanti al bene più prezioso che abbiamo. Un lavoro immane, incominciando lontano dal set. «Ogni mattina col mio team facevamo disegni, chiedendoci come regalare immagini che non si erano mai viste prima. Siamo stati dentro una tempesta  per tre settimane nell’oceano Atlantico, con onde di 20 metri, ci voleva un giorno per spostare la macchina da una parte all’altra della barca». Considerato che a Hollywood film come I Pirati del Caraibi sono girati in piscina, i segreti dietro ogni ripresa di questo lavoro hanno suscitato immediatamente l’interesse di Participant Media.  «I produttori americani mi hanno chiesto di smettere di parlare di come abbiamo lavorato perché volevano farne un libro. Ho appena incominciato a lavorarci, oltre alle parole ci saranno molti disegni».

Articolo pubblicato su GQ numero di Novembre 2018 

© RIPRODUZIONE RISERVATA

 

 

 

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