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James Ivory: «Festeggio 90 anni con il DVD di Chiamami col nome e penso a Shakespeare»

08 venerdì Giu 2018

Posted by cristianaallievi in cinema, Miti, Oscar 2018, Personaggi

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Camera con vista, Casa Howard, Chiamami col tuo nome, Cristiana Allievi, GQ, James Ivory

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James Ivory, regista, produttore e sceneggiatore, 90 anni, alla premiazione degli Oscar 2018 (courtesy GQ.it).

Per i 90 anni dell’autore di “Camera con vista” e “Casa Howard”, un regalo speciale: l’uscita homevideo del film che gli ha finalmente portato l’Oscar, “Chiamami col tuo nome”, premiato per la sua sceneggiatura

Lo hanno sempre definito il più europeo dei registi americani. E nonostante James Ivory, che è anche anche sceneggiatore e produttore, ripeta di non avere niente di inglese, basta dare un occhio ai suoi film, soprattutto a quel fiume di candidature agli Oscar che hanno avuto Camera con vista, Quel che resta del giorno e Casa Howard, per non essere tanto d’accordo.

Se lo si incontra, più che un californiano sembra un gentleman inglese dal bon ton d’altri tempi. Anche i gusti e gli interessi sono distanti un bel po’ da quelli hollywoodiani, forse perché ha sempre vissuto a New York. Comunque, è impossibile parlare di James Ivory al singolare, visto che dal 1961 “lui” è la Merchant Ivory Productions, fondata con Ismail Merchant, produttore indiano a cui si è legato e con cui ha dato vita a decine di film e documentari, girati in ogni angolo di mondo. Nonostante Ismael sia mancato all’improvviso, 13 anni fa, Ivory continua a usare il plurale riferendosi ai suoi lavori. Specializzato in architettura e storia dell’arte, ha compiuto 90 anni il 7 giugno, lo stesso giorno in cui è uscito in DVD Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino, con cui quest’anno ha vinto il suo primo Oscar per la miglior sceneggiatura non originale.

In una carriera lunga come la sua, in cui ha vinto 50 premi ed è stato nominato quattro volte agli Oscar, cosa rappresenta la sua prima statuetta?
«Il significato speciale di questa vittoria non è che sono vecchio, ma che me l’abbiano attribuita per una sceneggiatura. Avevo lavorato con sceneggiatori ad altri film, ma ho scritto Chiamami col tuo nome completamente da solo, e per me significa molto».
Pensavo lo avesse scritto con Guadagnino.
«Luca non scrive in inglese, ma solo in italiano».

È il premio più importante della sua carriera o ne ha vinti di minori che significano di più?
«No, credo che se fai film che vanno in tutto il mondo, e se li fai per il pubblico, un Oscar sia il riconoscimento supremo».

Come lo ha festeggiato?
«Ero con molti amici, abbiamo bevuto parecchio champagne».

Dove si trovava?
«A Los Angeles, mi sono trattenuto per vari giorni e per festeggiamenti ripetuti. E quando sono tornato a casa, a New York, abbiamo ricominciato».

Lei è un maestro nei ritratti di famiglia: in questo film ne vediamo di nuovo uno che mette a confronto varie culture.
«In effetti mi piacciono le grandi storie di famiglie, in cui tutti hanno idee diverse e c’è molto confronto».

Ricorda la prima volta che ha incontrato Luca Guadagnino?
«Era a una festa a Roma, molti anni fa, poi ci siamo rincontrati di nuovo in occasione della festa del mio film, Quella sera dorata. È stato un incontro importante».

Era dispiaciuto che non abbia vinto l’Oscar per la miglior regia? In molti pensano che la meritasse…
«È capitato anche a me. Sono stato nominato come miglior regista agli Oscar per tre volte, ma in due occasioni è stata Ruth Prawer Jhabvala a vincere con la miglior sceneggiatura di Casa Howard e Camera con vista. Sono stato contento perché si trattava di una cara amica, ma mi è sempre sembrato strano: se vince una sceneggiatura, uno dei motivi è che il regista ha fatto un lavoro straordinario e ha attori meravigliosi. Lo stesso discorso vale per Chiamami col tuo nome. Quello che Luca ha fatto è stato straordinario, e così gli attori, cosa che mi ha fatto riflettere».

Cosa vuole dire?
«Che non è stato nominato perché non appartiene alla corporazione dei registi americani, e lo meriterebbe».

Chiamami col tuo nome riporta alla dinamica del primo innamoramento, ricorda il suo?
«Lo ricordo eccome. Ma a 17 anni senti una forte attrazione mista alla paura di non piacere, tutti fenomeni che ricordo, ma non sono sicuro che si possano definire “primo amore”».

L’Italia del suo Camera con vista era quella del 1895, quanto l’ha trovata diversa dal set di Chiamami col tuo nome?
«Molto, innanzitutto i protagonisti di quel film vivevano in una pensione, non in una villa. Poi secondo la mia sceneggiatura la storia avrebbe dovuto svolgersi in Sicilia, di fronte all’Oceano. Il romanzo di Aciman si svolge in Liguria, ma non c’era modo di girare lì, perché era estate, e Luca temeva che sarebbe stato pieno di turisti. Abbiamo pensato alla Puglia, volevamo i templi greci che non ci sono al Nord. Al tempo delle riprese la Sicilia e la Puglia erano impossibili, per i costi troppo alti, e tutti i piani sono cambiati. Quello che avevo scritto all’inizio si è trasformato».

Ismail Merchant avrebbe amato Chiamami con tuo nome?
«Ne sarebbe stato entusiasta, e avrebbe contribuito alla fotografia».

Ultima domanda: girerà Riccardo II?
«Se trovo i soldi inizio subito le riprese. Credo di essere il regista più anziano che vuole girare un film shakesperiano, ma ho ancora fiducia…».

Intervista pubblicata su GQ.it

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Luca Guadagnino, seduzione e bellezza

03 sabato Mar 2018

Posted by cristianaallievi in cinema, Cultura, Moda & cinema, Oscar 2018

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Call me by your name, Chiamami col tuo nome, cinema, Cristiana Allievi, Giorgio Armani, Icon, interior design, Luca Guadagnino, Suspiria, talenti italiani, talento

FA CINEMA PER SODDISFARE IL SUO ANIMO DA VOYEUR. PERCHE’ OSSERVARE IL MONDO E’ DA SEMPRE LA SUA PASSIONE. CHE SI TRATTI DI SCRUTARE IL SUO PUBBLICO O GLI INVITATI AL SUO DESCO. TRA PIACERE E CRUDELTA’

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Il regista e produttore Luca Guadagnino fotografato da Alessandro Furchino Capria per Icon.

«Ho sempre pensato che se ti organizzi bene fai tutto. In tredici anni Fassbinder ha girato quaranta film e serie tv lunghe anche venti episodi». Siamo seduti sul divano del soggiorno della splendida dimora del diciassettesimo secolo che possiede a Crema, una proprietà che è stata disabitata per quarant’anni prima che lavorasse personalmente alla ristrutturazione durata sei mesi. Di questo luogo ha curato ogni dettaglio, dai tessuti che ricoprono divani e sedie, alle tende, alle tinte delle pareti. Nel soggiorno, a cui si accede attraversando la lunga loggia tutta vetrate con una collezione di piante tropicali, i soffitti sono affrescati, le sedie e i divani di Piero Castellini virano fra il porpora e il ciliegia, mentre le pareti sono pervinca scuro e aiutano i pavimenti di cotto rosso a spiccare. La bellezza è nell’aria, e perdercisi è un rischio reale. Del resto le dimore per Luca Guadagnino sono un tratto distintivo, e nei suoi film hanno la stessa sensualità degli attori. L’ultima è stata la Seicentesca Villa Albergoni che ospita le vicende di Chiamami col tuo nome, e che irretisce lo spettatore tanto quanto i favolosi Armie Hammer e Timothée Chalamet. Tornando a Fassbinder, me lo cita quando gli faccio notare che l’ultimo è stato un anno vissuto davvero pericolosamente. Tra il Sundance, Berlino, Toronto e altri festival nel mondo si è parlato solo del suo film, con lui e il cast sempre presenti. In quegli stessi mesi ha terminato le riprese di Suspiria -attualmente in fase di montaggio- e si prepara a girare il film in costume con Jennifer Lawrence, Burial rites, tratto da una storia vera, e il thriller Rio con Jake Gyllenhaal e Benedict Cumberbatch. Non bastasse, mentre segue i progetti della sua casa di produzione, la Frenesy, ha iniziato una nuova vita professionale. «Ho avuto la brillante idea di aprire uno studio di interior design, ho un team di architetti che lavorano con me e al momento stiamo seguendo un cliente in Italia e uno in Germania. Sto chiedendo parecchio al mio corpo, ma c’è molta adrenalina in circolo che mi permette di farlo».

A guardare quello che ti sta succedendo, e gli attori coinvolti nei prossimi progetti, non c’è da meravigliarsi: è sotto i riflettori come mai prima d’ora. «Ho sempre lavorato con quel tipo di attori, non è cambiato nulla. In A bigger splash c’erano Ralph Fiennes, una delle leggende viventi del cinema anglosassone, Matthias Schoenaerts e Dakota Johnson, una delle giovani più in ascesa a Hollywood. In Suspiria ci sono Chloe Grace Moretz, Mia Goth e ancora Dakota e Tilda. E sono almeno cinque anni che io e Jake Ghyllenhal cerchiamo di fare un film insieme».

Quindi non si sente cambiato, nonostante il suo nome ormai sia noto a tutti? «Arrogarsi il diritto di percepirsi cambiati come persone, in base a fenomeni esteriori, è una totale stupidaggine. Io sono l’amore è stato candidato ai Golden Globes e ai Bafta, e avrei potuto prendere la nomination agli Oscar per il film ma ce l’hanno data per i costumi. Quello che conta, per me, è che ho ricevuto lettere straordinarie da colleghi importanti, ho stretto amicizie con registi straordinari».

Come si sentirebbe con un Oscar in mano? «È una domanda che non posso nemmeno ascoltare. Un premio può far parte della tua storia professionale, quando fai il mio mestiere e partecipi a un processo professionale che hai deciso di affrontare a un certo livello, se hai un gruppo di collaboratori straordinario e la fortuna di scegliere la storia giusta al momento giusto. Un premio va affrontato per quello che è, come un riconoscimento del lavoro di un gruppo di persone ma anche qualcosa di transeunte, il risultato di una casualità e di una costanza».

Insomma, per lei la statuetta non farebbe la differenza? «Assolutamente no, ci sono cineasti immensi che non hanno mai vinto un Oscar e altri di una mediocrità sconfortante che hanno ricevuto parecchi premi. Mi sono laureato in Storia del cinema con il professor Spagnoletti, a Roma, e prima ho insegnato per lui come ricercatore, poi ho fatto il critico per molti anni. Voglio dire che non posso non essere consapevole del fatto che si sta parlando di variabili».

Il momento più doloroso, fino a qui? «Melissa P., un lavoro che non rispecchia la mia visione. Ma ho imparato la lezione, e non posso lamentarmi. Dal 1995, quando ho iniziato a fare il regista in modo professionale, ho sempre fatto quello che ho voluto. In 25 anni incontri, scoperte ed errori fatti mi stanno bene. Dal allora mi muovo a piccoli passi che mi portano dove voglio essere, che non è necessariamente il luogo del successo».

Che luogo è? «È il luogo in cui ho la possibilità di fare ciò in cui credo. Mi piace lavorare con strumenti che mi fanno sentire tranquillo rispetto alla resa di ciò che voglio fare».

Come definisce il successo? «È qualcosa determinato da variabili che non hanno niente a che vedere con la realtà identitaria del soggetto che ne viene coinvolto».

(…continua)

L’intervista integrale è pubblicata su ICON Panorama di Marzo, anno 2018

© RIPRODUZIONE RISERVATA

 

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