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Cristiana Allievi

~ Interviste illuminanti

Cristiana Allievi

Archivi tag: Luca Guadagnino

Timothée Chalamet, Fame d’amore

23 mercoledì Nov 2022

Posted by cristianaallievi in arte, Attulità, cinema, Mostra d'arte cinematografica di Venezia, Personaggi

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Bones and All, Call me by your name, Cristiana Allievi, Don't look up, interviste illuminanti, Luca Guadagnino, thimothèe Chalamet

CHE SIA IL GIOVANE DIVO PIU’ TALENTUOSO (E GLAM) DI HOLLYWOOD, NON SI DISCUTE. CHE SI METTA ALL A PROVA DI CONTINUO, NEMMENO. OGGI LO FA NELL’ATTESO BONES AND ALL, DI LUCA GUADAGNINO, DOVE È UN VAGABONDO ALLA RICERCA DEL PROPRIO POSTO NEL MONDO. TRA ROMANTICISMO E HORROR

di Cristiana Allievi

L'attore e produttore Thimothée Chalamet, protagonista di Bones and All di Luca Guadagnino.

Pensando a lui, ci sono almeno due momenti difficili da dimenticare.  Il primo è il pianto della scena finale di Chiamami col tuo nome, il film del 2017 di Luca Guadagnino in cui interpretava Elio, adolescente che si innamora di uno studente universitario americano ospite del padre, e quel ruolo insieme delicato e tormentato gli è valso la prima nomination agli Oscar, a soli 22 anni. Il secondo è  il debutto alla mostra del cinema di Venezia: era il 2019, lui presentava The king, storia in costume del giovane Enrico V d’Inghilterra, e sul red carpet è arrivato con un completo grigio perla con fascia in vita di Haider Ackermann. Paradossalmente due momenti in cui ha segnato un nuovo modello di mascolinità, al passo con questi tempi fluidi.  Oggi Timothée, a 26 anni, ha il curriculum di un divo consumato, forse anche grazie all’aiuto di Leonardo DiCaprio che nell 2018, in una specie di consegna del testimone si era raccomandato:  “niente droghe e niente film di supereroi”. Lui ha avuto l’intelligenza di seguirlo, alternando film d’arte come Lady Bird e The French Dispatch, a titoli sbanca botteghino come Don’t look up e Dune, (di cui sta girando la seconda parte a Budapest). Oggi è il più desiderato, a Hollywood e dalle case di moda, senza mai aver fatto una campagna pubblicitaria: basta che indossi un capo scintillante (vedi anche l’ultimo red carpet di Venezia, con la blusa rosso fuoco sempre di Ackermann e la schiena completamente nuda), e sui social si scatena una febbre da rockstar.  Padre giornalista francese, madre americana, ha per mentore Luca Guadagnino, che lo ha diretto di nuovo in Bones and all, in Concorso al Lido e nelle sale dal 23 novembre,  di cui Chalamet è anche produttore. «Ha portato molte idee sul suo personaggio», ha dichiarato Guadagnino, «dimostrando di essere diventato un uomo».

Ha solo 26 anni ma… ricorda qual era il suo sogno di adolescente? «Lavoravo alla serie tv Homeland: caccia alla spia, e iniziavo a muovere i primi passi in teatro a New York. Il mio obiettivo era molto realistico, riuscire a mantenermi con la recitazione facendo qualche serie tv…».

Invece due anni dopo era  sul set di Interstellar, con McCounaughey. «Matthew mi ha colpito per la sicurezza di sé che trasudava sul set. Posso dire lo stesso di Christian Bale, che ho incontrato per anni dopo in Hostiles: ostili. Quando mi ha chiesto di ripetergli il mio nome, per memorizzarlo, non sono riuscito a rispondergli. Ero paralizzato, non mi usciva la voce».

Ora però Luca Guadagnino dice che lei è diventato un uomo.  «Girare di nuovo con lui una storia d’amore come Bones and All è stato un regalo. È ambientato nel 1980 in un’America ai margini. Ho cercato di immaginare cosa significasse essere lì senza telefoni, senza Google, ed entrare in quello che possono aver attraversato  Lee  e Maren (Taylor Russell, ndr). La loro è una storia di solitudine che ti fa andare fuori di testa e che assomiglia molto a quella che abbiamo vissuto nel lockdown, quando senza connessioni  sociali si è allentata la nostra comprensione di chi siamo nel mondo».

(continua…)

Intervista integrale pubblicata su Donna Moderna del 17 Novembre 2022

@Riproduzione riservata

Chloe Sevigny

14 mercoledì Ott 2020

Posted by cristianaallievi in cinema, Cultura, Sky

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adolescenza, Chloe Sevigny, interviste illuminanti, Luca Guadagnino, omosessualità, Sky, We are who we are

DA ATTRICE FENOMENO INDIE DEGLI ANNI NOVANTA AD ATTRICE, REGISTA E MAMMA OUTSIDER 2020: NELLA VITA E IN WE ARE WHO WE ARE, LA NUOVA SERIE TV DI LUCA GUADAGNINO

di Cristiana Allievi

L’attrice e regista Chloe Sevigny, 46 anni, candidata ai Golden Globe e agli Oscar. Attualmente nella serie tv We are who we are, su Sky (courtesy Who What Wear).

Capelli corti. Bomber. Black boots. Non bastasse il look,  a ricordarle che è una donna determinata è la sua fidanzata, che la incoraggia con un “sei nata per comandare”. Suo figlio, un millennial ossigenato con lo smalto bicolore i cui desideri sessuali sono tanto effervescenti quanto confusi, le dice invece di odiarla. Del resto, lo ha sradicato dall’amata New York offrendogli in cambio una base militare americana in Veneto. È questo l’incipit intrigante di We are who we are, la serie tv Sky HBO in otto puntate di Luca Guadagnino di cui Chloë Sevigny, 46 anni, è protagonista. Ma la conversazione prende una direzione che non potrebbe essere più diversa da Sarah. «Ho appena avuto un figlio, si chiama Vanja e ha tre mesi. Il nostro lockdown è stato speciale, eravamo concentrati sul bambino e non ci dovevamo preoccupare di altre cose che di solito occupano la vita quotidiana. Abbiamo creato una routine tutta nostra prima che arrivasse, e quando è nato è entrato in una specie di bolla. Lo abbiamo nutrito e lui ha nutrito noi». E quando parla di “noi” Chloe Sevigny si riferisce al padre di suo figlio, il serbo Sinisa Mackovic,direttore della Karma Art Gallery di New York. «È il mio compagno, non ci siamo ancora sposati.  Un’amica artista voleva presentarci da tempo, ci siamo trovati per caso a una festa e ci siamo guardati a distanza». Un bel contrasto quello fra la Chloe che parla della sua vita vera e quella della serie di Guadagnino, in cui porta la famiglia a vivere a Chioggia in una base militare americana, completamente ricostruita dalla produzione per la serie tv. Con una compagna, Maggie (Alice Braga), in servizio nell’esercito Usa come lei, e il timido quattordicenne Fraser (Jack Dylan Grazer), un figlioalla ricerca della propria identità sessuale. «Sono cresciuta in un’epoca in cui il solo argomento era un taboo, ora è mainstream», racconta l’attrice e regista la cui carriera è iniziata proprio con quel Kids che aveva al centro sesso e droga, ed è proseguita con Boys don’t cry, in cui amava un transgender. L’apice della trasgressione però lo ha raggiunto con The Brown Bunny, in cui la fellatio (vera) al regista, Vincent Gallo, aveva fatto il giro del mondo partendo dal festival di Cannes.

(continua…)

Intervista di copertina pubblicata su D La Repubblica del 10 ottobre 2020

© Riproduzione riservata

Luca Guadagnino, seduzione e bellezza

03 sabato Mar 2018

Posted by cristianaallievi in cinema, Cultura, Moda & cinema, Oscar 2018

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Call me by your name, Chiamami col tuo nome, cinema, Cristiana Allievi, Giorgio Armani, Icon, interior design, Luca Guadagnino, Suspiria, talenti italiani, talento

FA CINEMA PER SODDISFARE IL SUO ANIMO DA VOYEUR. PERCHE’ OSSERVARE IL MONDO E’ DA SEMPRE LA SUA PASSIONE. CHE SI TRATTI DI SCRUTARE IL SUO PUBBLICO O GLI INVITATI AL SUO DESCO. TRA PIACERE E CRUDELTA’

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Il regista e produttore Luca Guadagnino fotografato da Alessandro Furchino Capria per Icon.

«Ho sempre pensato che se ti organizzi bene fai tutto. In tredici anni Fassbinder ha girato quaranta film e serie tv lunghe anche venti episodi». Siamo seduti sul divano del soggiorno della splendida dimora del diciassettesimo secolo che possiede a Crema, una proprietà che è stata disabitata per quarant’anni prima che lavorasse personalmente alla ristrutturazione durata sei mesi. Di questo luogo ha curato ogni dettaglio, dai tessuti che ricoprono divani e sedie, alle tende, alle tinte delle pareti. Nel soggiorno, a cui si accede attraversando la lunga loggia tutta vetrate con una collezione di piante tropicali, i soffitti sono affrescati, le sedie e i divani di Piero Castellini virano fra il porpora e il ciliegia, mentre le pareti sono pervinca scuro e aiutano i pavimenti di cotto rosso a spiccare. La bellezza è nell’aria, e perdercisi è un rischio reale. Del resto le dimore per Luca Guadagnino sono un tratto distintivo, e nei suoi film hanno la stessa sensualità degli attori. L’ultima è stata la Seicentesca Villa Albergoni che ospita le vicende di Chiamami col tuo nome, e che irretisce lo spettatore tanto quanto i favolosi Armie Hammer e Timothée Chalamet. Tornando a Fassbinder, me lo cita quando gli faccio notare che l’ultimo è stato un anno vissuto davvero pericolosamente. Tra il Sundance, Berlino, Toronto e altri festival nel mondo si è parlato solo del suo film, con lui e il cast sempre presenti. In quegli stessi mesi ha terminato le riprese di Suspiria -attualmente in fase di montaggio- e si prepara a girare il film in costume con Jennifer Lawrence, Burial rites, tratto da una storia vera, e il thriller Rio con Jake Gyllenhaal e Benedict Cumberbatch. Non bastasse, mentre segue i progetti della sua casa di produzione, la Frenesy, ha iniziato una nuova vita professionale. «Ho avuto la brillante idea di aprire uno studio di interior design, ho un team di architetti che lavorano con me e al momento stiamo seguendo un cliente in Italia e uno in Germania. Sto chiedendo parecchio al mio corpo, ma c’è molta adrenalina in circolo che mi permette di farlo».

A guardare quello che ti sta succedendo, e gli attori coinvolti nei prossimi progetti, non c’è da meravigliarsi: è sotto i riflettori come mai prima d’ora. «Ho sempre lavorato con quel tipo di attori, non è cambiato nulla. In A bigger splash c’erano Ralph Fiennes, una delle leggende viventi del cinema anglosassone, Matthias Schoenaerts e Dakota Johnson, una delle giovani più in ascesa a Hollywood. In Suspiria ci sono Chloe Grace Moretz, Mia Goth e ancora Dakota e Tilda. E sono almeno cinque anni che io e Jake Ghyllenhal cerchiamo di fare un film insieme».

Quindi non si sente cambiato, nonostante il suo nome ormai sia noto a tutti? «Arrogarsi il diritto di percepirsi cambiati come persone, in base a fenomeni esteriori, è una totale stupidaggine. Io sono l’amore è stato candidato ai Golden Globes e ai Bafta, e avrei potuto prendere la nomination agli Oscar per il film ma ce l’hanno data per i costumi. Quello che conta, per me, è che ho ricevuto lettere straordinarie da colleghi importanti, ho stretto amicizie con registi straordinari».

Come si sentirebbe con un Oscar in mano? «È una domanda che non posso nemmeno ascoltare. Un premio può far parte della tua storia professionale, quando fai il mio mestiere e partecipi a un processo professionale che hai deciso di affrontare a un certo livello, se hai un gruppo di collaboratori straordinario e la fortuna di scegliere la storia giusta al momento giusto. Un premio va affrontato per quello che è, come un riconoscimento del lavoro di un gruppo di persone ma anche qualcosa di transeunte, il risultato di una casualità e di una costanza».

Insomma, per lei la statuetta non farebbe la differenza? «Assolutamente no, ci sono cineasti immensi che non hanno mai vinto un Oscar e altri di una mediocrità sconfortante che hanno ricevuto parecchi premi. Mi sono laureato in Storia del cinema con il professor Spagnoletti, a Roma, e prima ho insegnato per lui come ricercatore, poi ho fatto il critico per molti anni. Voglio dire che non posso non essere consapevole del fatto che si sta parlando di variabili».

Il momento più doloroso, fino a qui? «Melissa P., un lavoro che non rispecchia la mia visione. Ma ho imparato la lezione, e non posso lamentarmi. Dal 1995, quando ho iniziato a fare il regista in modo professionale, ho sempre fatto quello che ho voluto. In 25 anni incontri, scoperte ed errori fatti mi stanno bene. Dal allora mi muovo a piccoli passi che mi portano dove voglio essere, che non è necessariamente il luogo del successo».

Che luogo è? «È il luogo in cui ho la possibilità di fare ciò in cui credo. Mi piace lavorare con strumenti che mi fanno sentire tranquillo rispetto alla resa di ciò che voglio fare».

Come definisce il successo? «È qualcosa determinato da variabili che non hanno niente a che vedere con la realtà identitaria del soggetto che ne viene coinvolto».

(…continua)

L’intervista integrale è pubblicata su ICON Panorama di Marzo, anno 2018

© RIPRODUZIONE RISERVATA

 

Call me by your name, eros e magnifica confusione by Luca Guadagnino

18 sabato Feb 2017

Posted by cristianaallievi in Berlinale, cinema, Cultura, Mostra d'arte cinematografica di Venezia, Senza categoria

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Armie Hammer, Berlinale, Call me by your name, Cristiana Allievi, Esther Garrel, Luca Guadagnino, Michael Stuhlbarg, Timothée Chalamet

Il nuovo film del regista siciliano celebra il desiderio dei vent’anni, quando, come disse una volta Truman Capote, “l’amore, non avendo una mappa, non conosce confini”

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Da sinistra Michael Stuhlbarg, Timothée Chalamet e Armie Hammer in una scena di Call me by your name (courtesy Sony Pictures Classics).

Con Luca Guadagnino l’Italia ha trionfato alla Berlinale. E con lui, ha vinto l’universalità dell’amore. È successo nonostante Call me by your name, settimo film del produttore e regista palermitano, fosse proiettato nella sezione Panorama, e non in Concorso, perché l’anteprima mondiale è avvenuta un mese prima al Sundance, festival Usa che ha parecchio gradito l’opera. Scritta dallo stesso Guadagnino insieme a James Ivory e Walter Fasano a partire dall’omonimo romanzo dell’americano André Aciman, la pellicola che sarà distribuita in Italia da Sony Picture Classics è un inno alla passione e all’eros che non mostra nemmeno una scena di sesso esplicita e riesce a includere una storia di famiglia. Un successo, va detto, da attribuirsi anche alla scelta di un magnifico cast. Elio Perlman, interpretato dall’astro nascente Timothée Chalamet, è il figlio diciassettenne di una coppia ebrea molto abbiente in cui il padre (Michael Stuhlbarg) è un professore d’inglese specialista dell’epoca greco romana. Siamo in estate, nei dintorni di Crema, e il ragazzo è una specie di genio della musica. Parla tre lingue, trascorre la giornata ascoltando e trascrivendo note di Bach e Berlioz e flirtando con l’amica Marzia (Esther Garrel). Finchè nella meravigliosa villa seicentesca di famiglia – a pochi chilometri dalla vera casa di Guadagnino – arriva Oliver, un giovane ricercatore americano, interpretato da un Armie Hammer al massimo del suo splendore: ha 24 anni ed è una miscela esplosiva di cultura e fascino. A poco a poco tra lui ed Elio si fa strada un sentimento dalla forza inesorabile, che include anche la confusione di Elio tra la ragazza che lo ama e l’attrazione per Oliver, confusione resa dal regista in modo terribilmente empatico.

E pensare che Guadagnino ha fatto di tutto per non dirigere questo film, avrebbe voluto restarne solo il produttore e proporlo ad altri colleghi. Ma da Taylor Wood a Ozpetek, passando per Gabriele Muccino, tutti gli dicevano “perché non lo fai tu?”. Così,  si è convinto. «Mi piace pensare che Call me by your name chiuda una trilogia di film sul desiderio, con Io sono l’amore e A bigger Splash», racconta. «Ma nei film precedenti il desiderio spingeva al possesso, al rimpianto e al bisogno di liberazione. Mentre qui volevamo esplorare l’idillio della giovinezza. Elio, Oliver e Marzia sono irretiti in una confusione che una volta Truman Capote ha descritto dicendo “l’amore, non avendo una mappa, non conosce confini”».
Come i suoi protagonisti, anche lo spettatore si trova catapultato in un universo idilliaco e passionale, guardando questi 130 minuti di immagini sulle note dei pezzi per pianoforte di John Adams ma anche di Lady, Lady, Lady di Joe Esposito (chi si ricorda di Flashdance?), oltre alla musica creata apposta per il film da Sufjan Stevens. «Io e Armie abbiamo trascorso molto tempo insieme prima delle riprese», racconta Timothée, «per tre settimane ci siamo fatti il caffè, abbiamo guardato film e ascoltato musica. Eravamo sempre insieme». E Hammer, che alla Berlinale era presente anche con il film di Stanley Tucci Final Portrait, rincara la dose. «Abbiamo fatto tutto quello che si vede nel film», provoca, per poi aggiungere un «beh, non proprio tutto. Di sicuro mi sento in sintonia con il modo in cui Luca è stato capace di far emergere il desiderio umano, questa brama che si sente fra i due personaggi. Sono emozioni primarie di desiderio che le persone sentono, e spero che questo aspetto aiuterà il film ad andare oltre ogni barriera».

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Il regista Luca Guadagnino, 46 anni (pic by Alessio Bolzoni).

Mentre si viene trasportati per mano nell’atmosfera ovattata in cui sboccia l’amore, tra bagni al fiume, sguardi e silenzi che dicono più di mille parole, fuori da questa bolla c’è un mondo che sfiorisce. Siamo negli anni Ottanta, nell’Italia di Licio Gelli e Bettino Craxi, delle piazze con i cartelloni elettorali di PCI e PSI. E mentre in questa famiglia molto internazionale, con madre francese e padre inglese, si parla di resti archeologici e di bellezza ellenica, dalla tv sbuca un giovanissimo Beppe Grillo, ancora solo comico. «È l’epoca in cui abbiamo assistito alla fine degli straordinari anni Settanta e all’inizio del conformismo degli Ottanta, con il pensiero di massa che ne è seguito», ricorda Guadagnino. «Mi piaceva mostrare un gruppo di persone che resta intoccato da tutto questo». In questa decadenza si avverte che un’estate molto fuori dal comune sta per finire, anche se nessuno lo vorrebbe. In un tessuto emotivo che non molla lo spettatore nemmeno per un istante, con la fine dell’estate per Elio arrivano i dialoghi illuminanti con il padre, dalla cui bocca escono parole che molti figli sognerebbero di sentirsi dire. E non è un caso, a sentire il regista. «Call me by your name è un omaggio ai padri della mia vita, il mio vero padre e i padri cinematografici, Renoir, Rivette, Rohmer e Bertolucci».

 Articolo pubblicato su GQ Italia
© Riproduzione riservata 

Matthias Schoenaherts: «Essere bello è solo la metà del lavoro»

14 domenica Giu 2015

Posted by cristianaallievi in Festival di Cannes

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A bigger Splash, Bullhead, Cannes 2015, Cristiana Allievi, Diane Kruger, Jackson Pollock, Jaques Audiard, Kate Winslet, Le regole del caos, Luca Guadagnino, Maryland, Matthias Schoenaerts, The danish girl, Un sapore di ruggine e ossa, Via dalla pazza folla

Matthias Schoenaerts, attore belga, 37 anni, è l'uomo della prossima stagione cinematografica (courtesy thefasionisto.com).

Matthias Schoenaerts, attore belga, 37 anni, è l’uomo della prossima stagione cinematografica (courtesy thefasionisto.com).

Per i suoi ruoli più riusciti ha gonfiato i muscoli, tirato di boxe e non ha dormito per settimane. Ora Matthias Schoenaerts arriva al cinema con un film in costume che parla di sentimenti. “Così posso dimostrare anch’io che ho un lato femminile”, racconta a Grazia. 

«Se ami qualcosa o qualcuno, non puoi avere paura dei tuoi sentimenti». Conoscevo l’attore belga Matthias Schoenaerts, 37 anni, per i suoi ruoli da duro, oltre che per i suoi occhi ammalianti. Stavolta questo nuovo sex symbol del cinema internazionale mi sorprende mostrando il suo lato riflessivo. Rispetto all’ultima volta in cui l’ho incontrato, mi sembra molto più alto. Qualche anno fa, nel film Bullhead, era una specie di Minotauro che si iniettava cocktail di ormoni. In Un sapore di ruggine e ossa, il film di Jacques Audiard che gli ha regalato la notorietà internazionale, era un pugile. Adesso, invece, arriva al cinema accanto a Kate Winslet nel Le regole del caos (nelle sale), delicato film in costume ambientato ai tempi del Re Sole e diretto da Alan Rickman: «È una storia di passione, che va dritta al cuore», mi dice, anticipandomi che, prossimamente, lo vedremo cambiare parecchio sul grande schermo. Matthias ha appena terminato le riprese di A Bigger Splash di Luca Guadagnino e di The Danish Girl di Tom Hooper, in autunno lo vedremo nel dramma vittoriano Via dalla pazza folla e in Maryland, il thriller con Diane Kruger presentato all’ultimo festival di Cannes.

Lei è un cocktail inusuale: da una parte c’è la sua fisicità, dall’altra questa sua inaspettata vena sensibile. Come ci si trova, dentro?
«Il fisico dipende solo dalla boxe che ho fatto da ragazzo, ma ho un lato femminile sviluppato perché sono stato cresciuto da mia madre e mia nonna».

Che cosa ha imparato da loro?
«Tutto. E francamente non capisco perché gli uomini tendano sempre a ridimensionare il valore delle donne. È strano, perché ogni figlio ha una madre e diventare uomo significa avere la consapevolezza della sua importanza nella tua vita».

Lei ha lavorato con tante donne: Marion Cotillard, Kate Winslet, Tilda Swinton e Carey Mulligan. Che cosa hanno in comune le grandi dive di oggi?
«La generosità. Sono donne che cercano sempre la verità. E per me questo è un aspetto che conta più del fatto che, come attrici, piacciano o meno».

Le donne belle la mettono in soggezione?
«Non sono un tipo facile da intimidire. Credo potrebbe riuscirci solo l’ex pugile Mike Tyson, il mio idolo».

Lei è reduce dal successo a Cannes del film Maryland. Se lo aspettava?
«Prima di girare ero terrorizzato: avevo poche settimane per entrare nella parte di un soldato affetto da stress post-traumatico e ho pensato di rinunciare».

Invece?
«Non riuscivo a dormire dalla paura. Poi ho pensato che l’insonnia, invece di essere un problema, poteva diventare la soluzione. Per nove settimane ho riposato solo tre ore a notte: si diventa un po’ matti, aggressivi, ma i sensi lavorano al 400 per cento. Vedevo e sentivo cose che normalmente non percepisco. Esattamente come il mio personaggio».

Diane Kruger e Matthias Schoenaerts al festival di Cannes per

Diane Kruger e Matthias Schoenaerts al festival di Cannes per “Maryland” (Disorder) , in competizione nella sezione Un Certain Regard (courtesy reuters.com).

(continua…)

Intervista pubblicata su Grazia del 9/6/2015

© Riproduzione riservata

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