Fra le novità che mi porta questo anno c’è anche una direzione artistica. L’ideatore e direttore del Lamezia International Film Festival, Gianlorenzo Franzi, mi ha affidato la nuova sezione di corti internazionali, che avrò il piacere di sovrintendere. La nuova sezione indagherà l’intelligenza artificiale e si intitolerà Chi sarò io? , come spiega bene l’articolo di Ciak magazine.
Mi raccomando seguiteci, magari anche venendo di persona a Lamezia dall’11 al 15 luglio.
Todd Field’s TÁR will have its world premiere at the Venice International Film Festival. Cate Blanchett stars as Lydia Tár in director Todd Field’s TÁR, a Focus Features release. Credit: Florian Hoffmeister / Focus Features- Courtesy Universal
Lydia Tar è la direttrice di una delle più grandi orchestre sinfoniche tedesche e sta preparando l’esecuzione della difficilissima Quinta sinfonia di Mahler.
Comincia così Tar, presentato in Concorso all’ultima Mostra di Venezia e nelle sale dal 9 febbraio, con un’intervista con il (vero) giornalista Adam Gopnik, mentre Lydia è all’apice della sua carriera e sta per presentare la sua autobiografia.
Innovativo a partire dalla sceneggiatura del regista Todd Fields, che ha impiegato anni in questo lavoro al cui centro c’è un’immensa Cate Blanchett nei panni di Lydia Tar, sostenuta da due ottime coprotagoniste: Nina Hoss, sua compagna nel film, e Nomie Merlant, sua assistente personale. Donne diversamente innamorate di Lydia, intorno a cui si crea un triangolo di alta tensione.
La novità del film è che Blanchett non occupa solo un posto di potere, ma un ruolo tradizionalmente riservato agli uomini: il podio di un’orchestra sinfonica (e non una qualsiasi, alludendo il film ai Berliner Philarmoniker). Vediamo solo tre settimane della sua vita, ma capiamo che vuole ottenere molto, con lo stress psicofisico che comporta arrivare in cima alla vetta.
Lo spiega Blanchett stessa, dentro un abito che ha lo stesso colore azzurro ghiaccio dei suoi occhi. «Lydia è sull’Olimpo, da artista è arrivata. Come essere umano, invece, sa che dopo la vetta c’è solo la discesa, e affrontarla richiede molto coraggio. Sicuramente c’è qualcosa che la tormenta, un passato, una persona, è stato affascinante lavorare su questo aspetto».
Tar è un film sulla trasformazione, su quel qualcosa che succede e che ci fa vivere cose che non avremmo mai pensato di vedere o di sentire.
«Un aspetto fondamentale in qualsiasi rapporto creativo è la fiducia», continua la due volte premio Oscar Blanchett, che per il ruolo ha studiato la presenza e i gesti di Claudio Abbado, Carlos Kleiber, Emmanuelle Haim. «Credo che Lydia sia stata oggetto di bullismo, la fiducia per lei è un tema difficile, come il perdono. Dalla prima sillaba della sceneggiatura ho capito che era molto complessa. Il personaggio si evolve e cambia, ma quello che non cambia è che si tratta di una persona che non conosce se stessa. E non è necessario essere la direttrice della più grande orchestra del mondo per sperimentare queste contraddizioni».
Nina Hoss è stata spesso definita “la Cate Blanchett tedesca”. Il regista aveva visto il suo lavoro come violinista in The Audition, di Ina Weisse. «Non vengo dal mondo della musica, ma sono in grado di suonare il pianoforte, e ho studiato violino, questo mi ha aiutata. Abbiamo lavorato con la filarmonica di Dresda, sono stati molto aperti e ci hanno aiutate. È stato un processo di assorbimento molto speciale».
Noemie Merlant è un’attrice e regista molto quotata in Francia, e non solo.
«Non conoscevo questo mondo un po’ folle e molto maschile. È stata un’esperienza forte, essendo tutte donne. Francesca, il mio personaggio, vuole diventare come Lydia, ma per ora fa altro. Quindi rappresento tutti gli aspetti di chi ama la musica senza aver mai toccato uno strumento. Ho cercato di rappresentare lo sguardo di questa donna che è nell’ombra ed è paziente. Non si capisce se sia un’eroina o la cattiva della situazione, perché controlla Lydia. Da attori noi stessi siamo strumenti, io osservavo Cate mentre creava Lydia davanti a me. La guardavo trasformarsi, e allo stesso tempo anche Francesca osservava Lydia, nel film».
Cate Blanchett aveva già interpretato una storia d’amore al femminile, in Carol. Ma oggi il mondo Lgbt è molto più al centro dell’attenzione di allora, soprattutto in Usa. «Prima di Carol non c’erano film di quel tipo. La donna o si uccideva o veniva redenta dall’amore di un uomo. Mentre giravamo era semplicemente qualcosa che era diventato necessario. Passato al pubblico, è diventato esplosivo».
Però secondo Blanchett l’arte non è uno strumento educativo. «Le persone possono essere ispirate, o offese, questo va al di là del controllo di chi crea un’opera. Come specie umana siamo abbastanza maturi da guardare Tar senza fare del sesso e del genere l’aspetto più importante. Solo quando abbiamo iniziato a fare le conferenze stampa ci siamo accorte di essere un cast per la quasi totalità femminile. Todd Haynes ci ha detto “di fatto non esiste un’orchestra tedesca guidata da una donna, è un mondo molto patriarcale. Se questo cambiamento succederà, normalizzerà l’arte stessa”. Al momento non avevo riflettuto su questo aspetto».
Ha esperienza diretta delle dinamiche di potere tra maschile e femminile. «Da quando ho iniziato a lavorare io le cose sono cambiate molto. Allora mi dissero “goditi i prossimi cinque anni, poi le cose cambieranno…”. La vita dell’attrice finiva presto. Oggi è importante relazionarci con i nostri fratelli a Hollywood, che possono svolgere insieme a noi un bel lavoro».
Merlant non crede Tar sia un film femminista. «Piuttosto il suo intento è far nascere domande sulle dinamiche di potere, e su come sia trovarsi in una posizione così alta della propria carriera in cui devi lottare molto di più, in quanto donna. Inoltre vediamo cosa succede nel momento in cui il sogno diventa realtà, dirigere Mahler, e occorre vedersela con il processo della creazione, che può arrivare a divorarti. Lo trovo un modo di condurre alla riflessione molto arguto».
Nina Hoss allarga ancora di più lo sguardo. «Questa visione di una donna al potere non permette di correre così velocemente a trarre conclusioni, come faresti se fosse un uomo, perché crediamo di sapere già tutto. Qui occorre più tempo per giudicare. Una donna arriva al vertice essendo un’artista favolosa: cosa la rende all’improvviso una persona diversa? Cosa le succede, e cosa succede al mondo che la circonda, che la spinge in una certa direzione?».
La coppia lesbica al centro, inoltre, non è un problema per la società che la circonda. «Questo è davvero un modo nuovo di porre la questione, significa che il mondo è cambiato. Mentre nel mondo che Lydia affronta fuori, c’è ancora molto da fare».
Di solito Nina Hoss ha un ruolo da protagonista. Se si chiede perché abbia accettato un ruolo più marginale risponde: «Qui è diverso, ma ho accettato perché la protagonista era Cate. Il mio personaggio, Sharon, non è solo una donna innocente e gelosa: ama Lydia per il genio che è, e gode anche del potere che una coppia simile ha in quel mondo. Quindi sa come manipolare, sa di essere la roccia per lei e conosce le insicurezze della sua compagna. Ho cercato di rendere queste sottigliezze. Per il resto ho suonato davvero, nel film. Il mio è un lavoro in cui ti senti davvero un’impostora. Trascorrendo settimane in una vera orchestra, come minimo dovevo avere rispetto di quei professionisti, conoscere i pezzi, sapere cosa stavo facendo. Questo percorso ha creato una dinamica molto nuova: abbiamo ricreato la musica di Mahler, e ci è voluto molto lavoro. Ma credo che lo spettatore se ne accorgerà».
Articolo pubblicato su Panorama del 25 gennaio 2023
DOPO AVER MESSO LA GIUSTA DISTANZA DAL SUO TERZO DIVORZIO, L’ATTRICE E REGISTA AMERICANA È CONCENTRATA SUL LAVORO. CON UN FILM ACCANTO A TOM HANKS, UNA SERIE TV IN CUI TORNA AL PRIMO AMORE, LA DANZA. E UNA LEZIONE DI VITA CHE HA FATTO PROPRIA: «SII IL CAMBIAMENTO CHE VUOI VEDERE».
di Cristiana Allievi
L’attrice e regista americana Robin Wright in un incontro aperto al pubblico al Matera Film Festival (foto di Gor Monton).
Ho di fronte a me la Jenny amata da Forrest Gump. Ha occhi color blu cupo e un fisico molto tonico evidenziato dai jeans neri indossati con tacchi alti. È di una bellezza che quasi intimorisce. La incontro poco dopo l’ufficializzazione della sua separazione dal terzo marito, Clement Giraudet, 37 anni, manager di Saint Laurent, di solito non un buon momento per un’intervista. Ma Robin Wright sfoggia una calma olimpica e trovarci al Matera Film Festival, nei luoghi di Wonder Woman, aiuta. «Dalla finestra della mia stanza all’hotel Sant’Angelo vedevo il set e mi dicevo “per le prossime due ore non avranno bisogno di me…”, e scappavo da sola in giro per la città. È un posto che lascia senza fiato», ricorda. «Quando la regista Patty Jenkins mi ha chiesto “vuoi essere la regina delle Amazzoni?” ho risposto sì ancora prima di leggere la sceneggiatura». Figlia di una commessa di cosmetici e di un dirigente farmaceutico separati da quando aveva due anni, Robin è diventata modella a 14, poi attrice. La fama è arrivata con The princess bride a 21 anni, e si è ingigantita quando è diventata moglie di Sean Penn poco dopo che lui aveva lasciato Madonna. Oggi Robin Wright è una regista e produttrice rispettata, eccelsa nell’arte di difendere la sua privacy, anche con il sorriso.
Sta per iniziare le riprese del nuovo film di Robert Zemeckis, Here, con Tom Hanks, a 22 anni di distanza dal gioiello che vi ha uniti. Poi tornerà alla regia con una serie tv. «The Turnout è tratto da un bestseller, ho chiesto alla sua autrice Megan Abbott di curare un adattamento per il cinema. Reciterò anche io, e tornerò al mio primo amore. Fra i 12 e 17 anni avevo in mente solo una cosa: andare a New York per danzare a Broadway».
Che stile ballava? «Ero una ballerina di classic jazz, ha presente il musical All that jazz? Quello era il mio genere».
Com’è diventata modella? «Un agente mi vista pubblicizzare un succo famosissimo in America, Capri Sun. Eravamo molte danzatrici, mi ha chiesto se volevo recitare. Le ho risposto che ero molto timida, lei mi ha insegnato tante cose ed è diventata la mia agente».
E lei ha rinunciato al sogno di ballare? «All’epoca ho creduto che l’unico modo per farlo avverare sarebbe stato trasferirmi a New York e mantenermi facendo la cameriera mentre tentavo la strada della danza senza nessuna garanzia. Questa donna mi ha procurato audizioni, Santa Barbara è stato il mio primo lavoro serio, avevo 19 anni».
In quella soap ogni uomo che passava la faceva soffrire. Se penso che anni dopo David Fincher l’ha scelta per The house of cards nel ruolo di Claire Underwood, spietata first lady, mi chiedo quante altre donne ha trovato dentro di sè, fra quei due estremi. «Bella domanda. Oggi le risponderei “non abbastanza”. Ricordo che a 26 o 27 anni mi hanno offerto il ruolo di una cantante molto seduttiva in un night club».
E…? «Mi sono spaventata, credevo che per essere credibile avrei dovuto essere voluttuosa, avere un gran seno, mentre io sono magra e alta».
Un bel problema. «(ride) Voglio dire che ero troppo spaventata per credere di potercela fare, come attrice. Mi ci sono voluti anni e tempo di fronte alla macchina da presa, per infrangere la barriera della paura».
(…continua)
Intervista integrale pubblicata su Donna Moderna del 2 febbraio 2023
CHE SIA IL GIOVANE DIVO PIU’ TALENTUOSO (E GLAM) DI HOLLYWOOD, NON SI DISCUTE. CHE SI METTA ALL A PROVA DI CONTINUO, NEMMENO. OGGI LO FA NELL’ATTESO BONES AND ALL, DI LUCA GUADAGNINO, DOVE È UN VAGABONDO ALLA RICERCA DEL PROPRIO POSTO NEL MONDO. TRA ROMANTICISMO E HORROR
di Cristiana Allievi
Pensando a lui, ci sono almeno due momenti difficili da dimenticare. Il primo è il pianto della scena finale di Chiamami col tuo nome, il film del 2017 di Luca Guadagnino in cui interpretava Elio, adolescente che si innamora di uno studente universitario americano ospite del padre, e quel ruolo insieme delicato e tormentato gli è valso la prima nomination agli Oscar, a soli 22 anni. Il secondo è il debutto alla mostra del cinema di Venezia: era il 2019, lui presentava The king, storia in costume del giovane Enrico V d’Inghilterra, e sul red carpet è arrivato con un completo grigio perla con fascia in vita di Haider Ackermann. Paradossalmente due momenti in cui ha segnato un nuovo modello di mascolinità, al passo con questi tempi fluidi. Oggi Timothée, a 26 anni, ha il curriculum di un divo consumato, forse anche grazie all’aiuto di Leonardo DiCaprio che nell 2018, in una specie di consegna del testimone si era raccomandato: “niente droghe e niente film di supereroi”. Lui ha avuto l’intelligenza di seguirlo, alternando film d’arte come Lady Bird e The French Dispatch, a titoli sbanca botteghino come Don’t look up e Dune, (di cui sta girando la seconda parte a Budapest). Oggi è il più desiderato, a Hollywood e dalle case di moda, senza mai aver fatto una campagna pubblicitaria: basta che indossi un capo scintillante (vedi anche l’ultimo red carpet di Venezia, con la blusa rosso fuoco sempre di Ackermann e la schiena completamente nuda), e sui social si scatena una febbre da rockstar. Padre giornalista francese, madre americana, ha per mentore Luca Guadagnino, che lo ha diretto di nuovo in Bones and all, in Concorso al Lido e nelle sale dal 23 novembre, di cui Chalamet è anche produttore. «Ha portato molte idee sul suo personaggio», ha dichiarato Guadagnino, «dimostrando di essere diventato un uomo».
Ha solo 26 anni ma… ricorda qual era il suo sogno di adolescente? «Lavoravo alla serie tv Homeland: caccia alla spia, e iniziavo a muovere i primi passi in teatro a New York. Il mio obiettivo era molto realistico, riuscire a mantenermi con la recitazione facendo qualche serie tv…».
Invece due anni dopo era sul set di Interstellar, con McCounaughey. «Matthew mi ha colpito per la sicurezza di sé che trasudava sul set. Posso dire lo stesso di Christian Bale, che ho incontrato per anni dopo in Hostiles: ostili. Quando mi ha chiesto di ripetergli il mio nome, per memorizzarlo, non sono riuscito a rispondergli. Ero paralizzato, non mi usciva la voce».
Ora però Luca Guadagnino dice che lei è diventato un uomo. «Girare di nuovo con lui una storia d’amore come Bones and All è stato un regalo. È ambientato nel 1980 in un’America ai margini. Ho cercato di immaginare cosa significasse essere lì senza telefoni, senza Google, ed entrare in quello che possono aver attraversato Lee e Maren (Taylor Russell, ndr). La loro è una storia di solitudine che ti fa andare fuori di testa e che assomiglia molto a quella che abbiamo vissuto nel lockdown, quando senza connessioni sociali si è allentata la nostra comprensione di chi siamo nel mondo».
(continua…)
Intervista integrale pubblicata su Donna Moderna del 17 Novembre 2022
MAMMA COMUNISTA CONVINTA, FRATELLO CONSERVATORE DI DESTRA. LUI AFFASCINATO DA KARL MARX E OSSERVATORE DELLA REALTA’ ATTRAVERSO LA LENTE DI UNA SATIRA GRAFFIANTE. IL REGISTA SCANDINAVO RIVELA ANEDDOTI E RETROSCENA DEL SUO NUOVO TRIANGLE OF SADNESS (AL CINEMA) VINCITORE DELLA PALMA D’ORO A CANNES
di Cristiana Allievi
Il regista Ruben Ostlund, 48 anni, fotografato dalla moglie, la fotografa di moda Sina Ostlund. Ha vinto la seconda Palma d’Oro all’ultimo festival di Cannes.
È uno dei registi scandinavi più celebrati e premiati. In abito grigio, pochi minuti dopo che iniziamo a parlare sgranocchia pistacchi e non smetterà di scavare la coppa che c’è sul tavolo fino alla fine dell’intervista. 48 anni, due figlie avute da un matrimonio precedente e un figlio nato dal legame con la nuova moglie, la fotografa di moda Sina Görcz, Ostlund è noto per film provocatori che raccontano aspetti spiacevoli della natura umana. I due più recenti, The square e The triangle of sadness, hanno vinto la Palma d’Oro, rispettivamente nel 2017 e lo scorso maggio. Da quando gli sono arrivati i riconoscimenti più significativi del cinema, racconta a Panorama, ha ricevuto anche molte offerte, non ultime quelle dalle società di streaming. Finora le ha rifiutate perché non vuole rinunciare alla libertà di autodefinirsi che ha oggi con la sua società di produzione, la Plattform. Dopo essere stato accolto con ovazioni dalla stampa a stelle e strisce, The tringle of sadness è tra i film più visti. Intanto per il regista di Goteborg si parla di Oscar, addirittura in più categorie considerato che è di nuovo autore della sceneggiatura e che questo è il suo primo film in lingua inglese. Il punto di partenza, come sempre, è l’osservazione dei comportamenti comuni. I protagonisti, Carl and Yaya (interpretata dalla modella sudafricana morta all’improvviso lo scorso agosto a 32 anni,per una presunta infezione virale ai polmoni, ndr), modello e influencer, sono invitati per una crociera a bordo di un superyacht di ricconi al cui comando c’è un infervorato capitano marxista (Woody Harrelson). Sarà un’avventura dall’esito catrastrofico, con i sopravvissuti abbandonati su un’isola deserta e comandati a bacchetta da quella che prima del naufragio era la donna delle pulizie.
A cosa fa riferimento il triangolo del titolo? «È la zona fra le sopracciglia che è spesso corrucciata e crea rughe che il chirurgo estetico, usando il Botox, spiana in 15 minuti. La società contemporanea è ossessionata dall’immagine, molto meno dal benessere interiore».
Questo film è più duro del precedente. «Mentre terminavo le riprese ho pensato al personaggio di Christian di The Square e a quello di Thomas in Force Majeure. Sembra una trilogia sull’essere uomini, in cui tutti i personaggi cercano di cavarsela con l’idea di chi si suppone dovrebbero essere e ciò che ci si aspetta da loro. E io li metto in trappola per vedere come si comportano».
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(continua..)
Intervista integrale pubblicata su Panorama n. 47 del 16 Novembre 2022
IN IL PIACERE È TUTTO MIO L’ATTRICE INGLESE CI REGALA, A 63 ANNI, UN’INTERPRETAZIONE EMOZIONANTE E CORAGGIOSA. E UNA GRANDE LEZIONE DI LIBERTA’: «GUARDIAMOCI SENZA GIUDICARCI»
di Cristiana Allievi
L’attrice Emma Thompson, 63 anni e due premi Oscar (Courtesy Donna Moderna) intervistata da Cristiana Allievi per il film Il piacere è tutto mio, di Sophie Hyde.
Non ha mai avuto un orgasmo vero in trent’anni di matrimonio. Adesso che il marito è morto, però, Nancy è determinatissima a recuperare. Assolda Leo, sex worker di professione, e da brava ex insegnante, si presenta ai loro incontri con un elenco di “cose da fare”: in cima, il sesso orale. Leo, uomo piacente e di un pezzo più giovane di lei, ha ampie vedute su molti argomenti, e questo la spiazza. I loro appuntamenti, sempre nella stessa stanza d’albergo, all’inizio fanno emergere la sua frustrazione, poi la spingono ad accettare e includere una visione nuova del piacere.
A 63 anni Emma Thompson, che amiamo da oltre trenta per la bravura e la profondità, ci regala una delle sue interpretazioni migliori. Figlia di due attori, laurea in Lettere a Cambridge, sposata in seconde nozze con l’attore Greg Wise (con cui è diventata cittadina onoraria di Venezia), dal 10 novembre la due volte premio Oscar sarà protagonista di Il piacere è tutto mio di Sophie Hyde. Un “percorso” che parte come un’esplorazione dell’intimità per diventare una riflessione sulla liberazione, grazie all’altro, dei nostri limiti.
Come ha reagito quando le hanno proposto questo film? «Katy Brand, la sceneggiatrice, è un’amica da molti anni. Mi ha mandato il copione dicendomi “l’ho scritto con te in mente, cosa ne pensi?”. La mia risposta alla lettura è stata viscerale, era la storia più bella che avessi mai letto. “Amo i temi, amo queste due persone, facciamo il film”, le ho risposto. Così abbiamo cercato insieme Daryl, l’attore che interpreta personaggio di Leo, il viaggio si è costruito giorno dopo giorno».
Questo ruolo la espone molto a livello fisico. «”Espone”, che verbo interessante! Qualsiasi cosa faccia come attrice, uso il mio corpo, ma non sono mai io: recito qualcuno, che in questo caso è piuttosto diverso da me. È vero che nel film c’è un momento di grande esposizione fisica, il mio nudo integrale, ma arriva alla fine ed è molto ben gestito. Tutto di quel momento è significativo, e io mi sentivo nelle mani sicure di Sophie. Abbiamo parlato molto di quella scena, prima di girarla».
Per esempio come posizionare le luci, considerato che è stata così audace da farsi riprendere in piedi, davanti allo specchio? «Esatto, volevo che tutto fosse autentico e onesto, perché in quel momento corpo ed emozioni sono un tutt’uno. Però è vero, la maggior parte di noi di solito non si espone in quel modo, nemmeno nella vita vera».
Come la fa sentire essere nuda? «Mi sento più esposta nella scena in cui piango perché non riesco a fare sesso orale a Leo. Oppure quando gli racconto di quell’unico momento della vita con mio marito in cui mi sono avvicinata all’idea di un piacere sessuale: quelle emozioni sono molto più delicate da restituire, rispetto a mostrare il mio corpo. La cosa importante è che finalmente alla fine del film Nancy guarda il suo corpo senza giudicarlo più. È forse il primo vero momento di agio e di piacere».
È vero che nella storia originale non c’erano scene di nudo? «È vero, ma lavorando al film è cresciuta quell’esigenza. C’era l’idea che potevamo arrivare fino a lì, e che se mi fossi sentita a disagio non l’avrei girata».
Quando riesce ad essere aperta sui suoi bisogni sessuali nella vita vera? «Io e mio marito ne parliamo molto esplicitamente, ma il sesso non è mai come la nostra mente ci dice che dovrebbe essere. Siamo cresciuti con un sacco di spazzatura in testa su questo argomento».
Ad esempio? «L’idealismo romantico ci fa favoleggiare su tutto. Il sesso in realtà è spesso qualcosa di abbastanza strano e di profondamente non romantico. Ma non siamo onesti su questo punto, e facciamo esperienza di molta vergogna su quali sono gli aspetti che possono darci piacere e quali no. Credo che sarebbe molto meglio essere onesti, nei discorsi pubblici sul sesso e nel parlarne in genere. Perchè è un campo molto sottile e complicato, fatto di tentativi e di esperienze, e questo film cerca di portarci in un territorio sconosciuto».
Ci racconta che la ricerca d’intimità e di connessione è potente, coraggiosa e necessaria. «I due personaggi non si innamorano, è la parte della storia che preferisco. Fra loro c’è intimità, e questa non ha niente a che vedere con l’amore romantico. Qui si parla di amore per se stessi, da mettere al primo posto, prima dell’amore di due persone una per l’altra. Anche se i due sono molto vicini, lo sono in un modo molto particolare. Si “sbloccano” a vicenda, Leo vive la relazione imparando ad amarsi di più, Nancy, trasforma la sua visione del piacere».
Tornare a se stessi sembra un messaggio fondamentale. «Avere una buona relazione con se stessi è il minimo per poter provare empatia verso chiunque altro».
Cosa la aiuta a volersi bene? «La terapia costante, anni di terapia! Scherzo, ma non tanto in realtà… Pensare a me nel modo classico mi aiuta molto, capire come funziono mi da una chiave di comprensione del genere umano, perché io ne sono un esempio. Non c’è niente di speciale in me, sono un semplice essere umano, ma ciò che accade intorno a me mi da così tante comprensioni su quello che provo io, esamino e comprendo le emozioni che provo. E questo processo mi regala pazienza verso me stessa, oltre alla la capacità di mettermi nei panni dell’altro, che poi è anche ciò che faccio di lavoro».
C’è bisogno di un partner, per vivere l’amore verso se stessi? «Si può sperimentare anche senza gli altri, certo. Ma le relazioni migliori sono quelle che ci danno l’opportunità di provare compassione e che ci rimandano la nostra unicità. William Blake dice “abbiamo creato un piccolo spazio sulla terra per imparare a sopportare i raggi dell’amore…”».Io dico, meno bene, che cercare di amarci uno con l’altra è l’origine della vera saggezza».
Storia di copertina pubblicata su Donna Moderna del 27 ottobre
Sette anni dopo l’attacco terroristico al Bataclan, l’attrice ci riporta in quella notte. E racconta come, per superare i traumi della vita, ci sia un’unica via da cui è vietato scappare. Lei ce l’ha fatta
di Cristiana Allievi
L’attrice e regista Noemie Merlant, 33 anni, in una foto di Gareth Cattermole (courtesy Vanity Fair).
Scavando bene a fondo nella nostra personalità rischiamo d’imbatterci in uno sconosciuto. Ed è un po’ quello che è successo a Noemie Merlant. Classe 1988, Parigina cresciuta nella Loira da genitori agenti immobiliari, comincia a lavorare come modella. Un’esperienza che no la convince, «mi sembrava sempre appartenere a qualcun altro», racconta. Il padre le suggerisce la recitazione, lei torna a sentire la linfa vitale. Ma il passaggio al cinema non è facile, per una ex indossatrice: troppi pregiudizi. Ma lei riesce comunque. Il debutto è nel 2011, seguono una serie di ruoli di ragazze più giovani della sua età, poi la svolta: Ritratto della giovane in fiamme, storia d’amore queer diretta da Celine Sciamma. «Quel film, insieme al movimento #metoo, ha cambiato la condizione di noi donne. Abbiamo ancora molti altri passi da fare, ma oggi ci sentiamo più legittimate a parlare e ad agire».
Dopo la corsa per la Palma d’Oro, a Cannes e le candidature ai Cesar, lei è addirittura diventata regista, a 33 anni, con Mi Iubita, Mon Amour, racconto (molto scoperto) del suo amore per il giovane rom Gimi Covaci, 13 anni di meno. Ora è al montaggio di un docu sulla sua famiglia, «mia sorella e mio padre sono disabili, voglio condividere con il pubblico l’armonia che vedo fra loro e mia madre, un figura invisibile che si dedica agli altri». L’anno prossimo, a febbraio, la vedremo in Tar, diretto da Todd Field: sofisticato lavoro di scrittura e regia che esplora la natura mutevole del potere, la sua durevolezza e l’impatto che ha sulle relazioni intime. Ma prima di calarsi nei panni di Francesca Lentini, l’assistente personale di una grande direttrice d’orchestra (Cate Blanchett) di cui sogna di seguire le orme, Noemie sarà Celine in Un anno, una notte, del regista spagnolo Isaki Lacuesta, in sala dal 10 novembre. Sette anni dopo l’attacco terroristico del Bataclan, il film racconta la storia di una coppia che quella sera del 13 novembre 2015 era proprio lì, al più tragico concerto di Parigi.
Lei interpreta una superstite che rifugge l’elaborazione del trauma. «In realtà, scappo solo all’inizio. La cosa incredibile di essere sopravvissuti a un attacco terroristico è che inizi a sentire di essere vivo. Questo ti permette di ricostruire l’amore che si era spezzato all’improvviso, dentro di te, e anche di tornare a dirigerlo verso un partner».
L’ha scoperto preparandosi per il ruolo? «Sì, ho studiato i dettagli della vita di chi era presente. Ramón Gonzalez, lo spagnolo che viveva a Parigi ed era al Bataclan insieme a due amici e alla sua ragazza, ha scritto il libro su cui si basa il film. È stato molto generoso nel raccontare cosa è successo in quella stanza, nel momento più difficile ed emotivo delle riprese è anche venuto sul set. E poi di traumi psicologici me ne intendo».
Li ha vissuti in prima persona? «Ricordo momenti d’ansia sin da bambina. E a 23 anni ho iniziato a soffrire di attacchi di panico».
Come ne è uscita? «Volevo trovare un modo per guarire senza prendere medicine, e ho incominciato a meditare. Ho imparato a guardare in faccia il pericolo».
Che cosa intende? «Di fronte a un pericolo il corpo produce un’adrenalina che ti serve a scappare via, ad andare il più lontano possibile. Ma se fuggi non scoprirai mai quello che ti fa paura. Lo stesso vale per l’angoscia, dove il pericolo è sconosciuto».
Una ragione latente, però, c’è sempre. «Sì, e devi “restare”, per scoprirla. Devi fermarti a guardare negli occhi la belva feroce. Non è la cosa più facile, ma è l’unica che funzioni. Poi scopri che ansia e panico sono sì problemi, ma anche motori che ti spingono fuori dalla comfort zone».
Lei ci si è abituata, a uscirne, visto il modo in cui spesso per lavoro ha dovuto rappresentare la sensualità. «Già. La meditazione è stata utile anche qui perché la sensualità, per me, ha a che fare con il momento presente, con la consistenza del tuo corpo in un preciso momento, tutte sensazioni che si percepiscono meditando».
Quanto spaventa gli uomini mostrare la sensualità e la potenza del desiderio femminile? «Parecchio. Decostruire dinamiche patriarcali fa molta paura, e quando cade l’immagine che abbiamo di un ruolo salta anche un equilibrio. La presa di potere da parte delle donne fa paura e genera diffidenza. Nel mio ambiente ti senti dire frasi come “Adesso vuole addirittura fare la regista?”».
Come reagisce? «All’inizio ero molto frustrata, sognavo di essere un’attrice e una regista ma non potevo parlare troppo ad alta voce per non disturbare. “Non diresti le parole giuste, sei una sconosciuta e rovineresti tutto…”, mi dicevoù».
Poi c’è stato il grande clamore di Ritratto della giovane in fiamme? «Quel film mi ha dato molta fiducia in me stessa, da lì in poi mi sono ascoltata di più, ho cercato di capire cosa volevo davvero. Ho lavorato il doppio di prima e ho iniziato a osare. Ho finalmente sentito di poter dire la mia e ho iniziato a farlo con i miei amici. Per me è già un bel cambiamento».
In Tar è l’assistente personale di una delle più grandi compositrici e direttrici d’orchestra viventi. Lo considera un film femminista? «Scegliere di mettere una donna al top di una carriera normalmente riservata agli uomini, e mostrare quanto sia talentuosa, mi farebbe dire di sì. Ma sarebbe dare una risposta a cosa è il film, e il suo intento è invece far nascere domande su dinamiche di potere profonde e sottili».
Quali dinamiche di potere si instaurano su un set in cui la protagonista è Cate Blanchett? «Per me Cate è un genio come la Lydia che interpreta. Nell’osservarla mentre faceva crescere il personaggio vivevo le stesse emozioni di Francesca, imparavo tanto quando Francesca impara da Lydia. Il carisma di Cate è qualcosa che non puoi spiegare a parole, ma lei è completamente diversa dal personaggio. Quando sei al top non è facile crerare un ambiente di rispetto per tutti, il processo creativo ti divora e non hai tempo per la gentilezza. Ma lei riesce ad essere molto attenta a che tutti vengano rispettati e ascoltati in ciò che hanno da condividere, è un modello importante».
Ne ha altri? «Mia madre, una helper di carattere che trova il senso della vita nel soccorrere gli altri. E io osservo che questa è un’idea figlia del patriarcato».
Sono argomenti di cui parlate? «Spesso. Lei non si è ha mai fatta certe domande, tutto era molto più rigido fino a poco tempo fa. Ma oggi analizza la sua vita e mi dice frasi come “non so più se è stata davvero una mia scelta, forse ho solo ceduto alle lusinghe…”, riferendosi a come è iniziata la storia fra lei e mio padre. A volte si spaventa, cerca rifugio in dinamiche conosciute. Mi dice “ho bisogno di qualcuno che mi protegga, e anche tu…”».
Cosa le consiglia? «Di prendere tempo per se stessa smettere di occuparsi degli altri, in questo caso di mio padre e di mia sorella che sono diversamente abili (il padre a seguito di un incidente, ndr). Le dico di non sentirsi in colpa quando si allontana».
E a se stessa, che consigli dà? «Di continuare a capire chi sono e cosa voglio. Sto iniziando a farlo a livello lavorativo: i prossimi due film da regista mi sono ben chiari. Il privato è un tasto più delicato. Più ci penso, più è dura capire cosa si vuole davvero nella vita. Ma, forse, è proprio il suo bello».
Intervista pubblicata su Vanity Fair del 9 Novembre 2022
LA PAURA CHE IN SUA PRESENZA QUALCUNO SBADIGLI LO ACCOMPAGNA FIN DA RAGAZZINO. PER QUESTO FA L’ATTORE E ADESSO PURE IL REGISTA. “MI SONO SEMPRE SENTITO RESPONSABILE DELL’ATMOSFERA”. ANCHE QUELLA DEI SUOI FILM, «CHE DEVONO FARVI VENIRE VOGLIA DI VIVERE”
di Cristiana Allievi
L’attore e regista francese Louis Garrel, 39 anni (courtesy Depositphotos).
«Da bambino ho incontrato tante persone appena uscite di prigione, e tutti gli intellettuali che frequentavano casa nostra erano interessati alla marginalità. È un mondo che conosco e che ho usato come aneddoto». Mentre mi racconta l’idea da cui è nato il suo quarto film da regista, mi accorgo che Louis Garrel è più tranquillo del solito. A 40 anni ancora non compiuti, sembra diventato grande. Come il suo film, presentato fuori Concorso all’ultimo Festival di Cannes e proiettato in questi giorni alla Festa di Roma. L’innocent ha come idea di partenza un aneddoto che riguarda la madre, Brigitte Sy, regista come il padre Philippe. E discendendo da due reali della Nouvelle Vague del cinema, Louis non poteva che diventare famoso con uno dei film più sexy della storia del cinema, quel The Dreamers offertogli dall’amico di famiglia Bernardo Bertolucci. Dai tempi del conturbante e ribelle Theo, 20 anni fa, ha fatto tutto il possibile per meritare il grande vantaggio di famiglia che aveva. Ce l’ha fatta, oggi ha un’identità sua ed è un cineasta di valore. Dal 3 novembre lo vedremo ancora in L’ombra di Caravaggio (passato prima alla Festa di Roma) diretto da Michele Placido, come l’uomo che ha investigato la vita del pittore e ha avuto potere di vita e di morte su di lui. E dopo essere stato Jean-Luc Godard, il simbolo della Nouvelle Vague mancato qualche settimana fa, dall’1 dicembre interpreterà un altro mostro sacro, Patrice Chéreau, direttore artistico della prestigiosa scuola del Theatre des Amandiers di Parigi. A dirigerlo la sua ex Valeria Bruni Tedeschi. Garrel indossa una t-shirt con giacca nera e pantaloni chiari, e ci tiene a parlare con me in italiano.
Come sempre nei suoi film, anche in L’innocent si ritaglia anche un ruolo di attore: Abel, di professione guida in un acquario. «È un uomo che vive il lutto per la perdita di sua moglie. Un giorno scopre che sua madre (Anouk Grinberg) vuole sposare un uomo che è stato in carcere. Con l’aiuto della migliore amica lo tallonerà da vicino e scoprirà chi è veramente».
Ha dedicato il film a sua madre Brigitte Sy. «Ha lavorato per vent’anni in prigione con il teatro, come animatrice. Il punto di partenza è la sua vera storia, perché dopo che i miei si sono separati si è sposata in prigione con un uomo di nome Michael che mi piaceva molto. Abbiamo legato, mi ha aperto le porte di un mondo che non conoscevo. Non volendo fare una semplice cronaca monotona, ho giocato con tanti registri, dalla commedia romantica al thriller, che è anche un modo per cambiare ritmo».
Il ritmo è importante per lei? «Molto, perché la mia più grande paura è quella di essere noioso».
Quando è iniziata, questa paura? «Verso i 13 o 14 anni, mi sentivo sempre quello che doveva fare qualcosa per evitare a tutti i momenti noiosi».
È ancora così? «Quando sono in mezzo alle persone mi sento responsabile dell’atmosfera. Se tutti sono annoiati sento il dovere di fare qualcosa per intrattenere».
E ne ha fatto una professione. «Jean-Paul Carrère (regista e sceneggiatore mancato dieci anni fa), mi ha insegnato a non essere né monotono né troppo psicologico. “Devi sorprendere” è una lezione che ho imparato da lui, e per farlo uso molto le emozioni».
Le piacciono, le emozioni? «Vado matto per le affezioni sentimentali fra i personaggi, quelle fra un figlio e un padre adottivo, o fra una madre e sua figlia. Uso tanto questo ingrediente per nascondere altro, come fanno i maghi. A volte mi sento proprio così, un mago, incanto con le romanticherie e poi cambio strada, perché il film dev’essere un gioco».
“È così difficile prendere decisioni…” una frase di Abel che sembra sua. «Lo è, per me è un incubo prendere decisioni! Qualcuno mi ha detto “ogni decisione è una rinuncia”, e mi sembra un fatto pazzesco».
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Intervista a Louis Garrel pubblicata su F del 18/10/2022
PER AVERE SUCCESSO LA PASSIONE NON BASTA. LUI LO DIMOSTRA DAI TEMPI IN CUI, CON TARANTINO, HA CONQUISTATO HOLLYWOOD E DUE OSCAR COME ATTORE NON PROTAGONISTA. ORA PERO’ HAIL RUOLO PRINCIPALE NEL NUOVO DEAD FOR A DOLLAR, E CI PARLA DI CONFINI E DELL’IMPORTANZA DI CERTE SINFONIE
L’attore e regista austriaco Christoph Waltz, due volte premio Oscar (courtesy Ausbury Movies)
di Cristiana Allievi
Con Hans Landa, il colonnello delle SS terrificante e colto di Bastardi senza gloria, e con il cacciatore di taglie King Schultz in Django Unchained, è passato quasi all’improvviso dall’oscurità all’eroismo, vincendo due Oscar. «I cattivi mi vengono bene per il mio aspetto e la mia fisionomia, a cui può aggiungere anche l’età e l’aura che emano», dice Christoph Waltz dopo aver chiesto l’autorizzazione a togliersi la giacca per restare in camicia azzurra, più consona al clima della laguna. La figura è sottile, quasi delicata. Tutta la sua forza emerge dagli occhi grigio chiaro, da cui non si sfugge tanto facilmente.
Nato a Vienna 65 anni fa da due scenografi tedeschi, ha avuto come nonno materno il noto psicologo Rudolf von Urban, che sembra avergli lasciato in eredità una visione chiara dell’ego e delle sue dinamiche: in un’epoca che spinge tutti a parlare di sé, lui non lo ha fatto nemmeno ai discorsi di ringraziamento per gli Oscar, preferendo citare solo le persone più importanti a cui deve il successo.
Ora Christoph Waltz ha una sfilza di film in uscita degna di un trentenne all’apice della carriera, e all’ultima Mostra di Venezia, dove l’abbiamo incontrato, è stato il magnifico protagonista di Dead for a Dollar, il nuovo western di Walter Hill prossimamente nelle sale.
È una storia di confini geografici e morali ambientata nel 1897 in cui interpreta Max Borlund, un cacciatore di taglie pagato da un ricco uomo d’affari per ritrovargli la moglie (RachelBrosnahan), secondo lui rapita e portata in Messico da un disertore (BrandonScott). Ma le cose non stanno così, e quando Max lo capisce, comincia a seguire la sua etica.
In tutti i film sul vecchio West, quando qualcuno non piace, finisce male, con una pallottola in corpo. «C’era la legge, ma non veniva seguita in modo diligente perché mancavano le forze dell’ordine. La domanda che mi faccio ogni volta però è un’altra».
Quale? «Come mai se passi un confine, che è una demarcazione arbitraria, le cose sono così diverse? Prendiamo il caso della sparatoria di massa accaduta lo scorso maggio a Buffalo. Il confine canadese è molto vicino, puoi quasi arrivarci a piedi. Perché, una volta che lo hai attraversato, non hai più questi fenomeni di violenza di massa, problemi con le armi e con il controllo delle armi? Intendo dire, hai solo i problemi normali, perché i pazzi sono ovunque».
Che risposta si è dato? «Credo che la differenza stia nelle forze dell’ordine. L’America è un interessante fallimento di liberazione, si sono rivoltati contro il re, ma poi in un certo senso non hanno avuto un piano su cosa fare della situazione».
In Canada, in compenso, hanno sempre avuto la regina Elisabetta II, mancata pochi giorni fa. «C’erano anche le montagne e la “polizia” locale ha anticipato l’espansione verso Ovest, elementi che hanno fatto una grande differenza. Tornando alla domanda, è un mito dei film farci credere che se non ti piaceva qualcuno potevi tranquillamente sparargli. Eri comunque un criminale, un assassino, e se eri fortunato venivi processato, altrimenti ti linciavano».
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Intervista integrale pubblicata su Vanity Fair del 28 settembre 2022
Il protagonista di Secret Love colleziona ceramiche, adora il giardinaggio, si spoglia senza problemi. E qui fa un invito a se stesso e agli altri uomini: “Dobbiamo capire perché abbiamo avuto così a lungo tanti privilegi. Ed essere più gentili».
di Cristiana Allievi
L’attore inglese Josh O’Connor, 31 anni (courtesy TMDB)
Fa molto caldo nella stanza in cui ci troviamo. Josh O’Connor indossa una camicia bianca di seta con disegni neri ed è seduto su una poltrona. Con un accento molto british mi racconta la sua visione del maschio contemporaneo, mentre scivola in avanti con le gambe, per poi ritirarsi su. Da giovane voleva fare l’attore, ma pensando di non avere la stoffa si è dato al rugby. Gli torna in mente mentre parliamo di Secret Love di Eva Husson, finalmente al cinema dal 20 luglio. Quella che è forse la sua miglior interpretazione di sempre: ambientata nel 1924, lo vede nei panni di Paul, il figlio di una famiglia di nobili che porta sulle spalle vari pesi: i fratelli morti in guerra, un matrimonio imminente che non vorrebbe e soprattutto l’amore segreto per Jane (Odessa Young), domestica dei vicini di casa (Colin Firth e Olivia Colman). Lui è nudo per i tre quarti del film, in quello che è un incontro sublime fra sesso, cinema e scrittura (la storia è tratta dal romanzo Mothering Sunday di Graham Swift). 31 anni, figlio di un insegnante e di un’ostetrica, come principe Carlo d’Inghilterra in The crown ha vinto Emmy e Golden Globe, e molti altri riconoscimenti sono arrivati per La Terra di Dio. A New York, dove vive, fa teatro e film indipendenti e ha un’altra passione insospettabile a cui dedicarsi.
Vado dritta al punto: prima Carlo d’Inghilterra, ora Paul, un altro uomo costretto dall’etichetta. Perché sceglie questi maschi che non conoscono la libertà? «Non è mai stata una decisione cosciente, piuttosto una sorta di gioco. Ho incontrato molti uomini che si misurano con la loro mascolinità e le lotte di potere che questa comporta. Qualcuno mi ha detto di vedere una connessione fra il principe Carlo e il Johnny Saxby che ho interpretato in La terra di Dio. La mia prima reazione è stata “stai scherzando?”, ma riflettendoci l’idea è convincente: il principe Carlo era incapace di esprimere le proprie emozioni a causa del suo status sociale, esattamente come Johnny, che appartiene a una classe sociale molto inferiore. Chi come me viene dalla classe di mezzo, riesce molto bene a parlare di chi sta più in alto e di chi sta più in basso».
Il comune denominatore è l’essere “trattenuti”. «È un aspetto che mi affascina molto, ma mi interessa più quel senso di colpa che ha chi sopravvive. Paul è un uomo che eredita uno status in una certa società, e si deve portare sulle spalle il peso e la pressione dei suoi due fratelli morti in guerra, incluso il matrimonio con una donna che non ama ma che tutti intorno a lui amano, è la ricetta per un disastro perfetto!».
Cos’ha a che fare con lei, questo disastro? «Sto esplorando qualcosa che mi sembra interessante, ma non so perché continui a tornare. Sembra che non le stia rispondendo, la verità è che non conosco la risposta».
Come vede questa fase di confronto fra i sessi? «Credo che non sia un caso se vediamo spesso ruoli come quello che interpreto in Secret love. Gli uomini devono comprendere il loro posto nel mondo, e capire perché hanno avuto così tanti privilegi per così tanto tempo. In altre parole, dobbiamo capire come essere più gentili».
Il fatto che la regista sia una donna è un caso? «Neanche un po’. Finalmente abbiamo registe e sceneggiatrici che scrivono personaggi maschili per un pubblico di uomini e di donne. Diciamo che stiamo rivalutando le cose, ci stiamo lavorando su».
(continua…)
Intervista integrale pubblicata su Donna Moderna del 21 luglio 2022