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Cristiana Allievi

~ Interviste illuminanti

Cristiana Allievi

Archivi Mensili: marzo 2016

Sarah Gadon, «Un trono tutto per me»

20 domenica Mar 2016

Posted by cristianaallievi in cinema

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22/11/63, Brandon Cronenberg, Cristiana Allievi, D Repubblica, David Cronenberg, Elisabetta II, Erdem, Fox, Indignation, Isabel Marant, James Franco, Sarah Gadon, Sonia Rykiel, Stephen King, Una notte con la regina

«Mi sono sentita molto vicina alla regina Elisabetta. Anche lei è stata una giovane ragazza che cercava se stessa e il suo posto nel mondo». Anche Sarah Gadon ha trovato il suo posto, sul set: la vedremo al cinema nella parte di Elisabetta ancora principessa di York in Una notte con la regina (in sala dal 7 aprile). E poi in tv con James Franco nella mini serie basata sull’omonimo romanzo di Stephen King 22/11/63 (andata in onda su Hulu, debutterà su Fox ad aprile). Infine in Indigantion, dal romanzo di Philip Roth, acclamato al Sundance e appena passato dalla Berlinale. 

Pantaloni a sigaretta e ballerine, pelle di porcellana e capelli biondo miele, l’attrice canadese 28enne non ha problemi ad entrare nel ruolo perché emana una luce quasi regale. Figlia di un’insegnante e di uno psichiatra, a 10 anni era già nella serie tv Nikita. E mentre macinava un bel po’ di serie e film per la tv, si allenava come performer alla National Ballet School of Canada e studiava alla Claude Watson School for Performing Arts. Laureata all’Università di Toronto, non ha abbandonato la sua città nemmeno oggi che è una star di fama internazionale.

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Sarah Gadon, 28 anni, canadese, è stata lanciata da David Cronenberg.

Il salto per lei è arrivato con David Cronenberg, che l’ha voluta nei suoi ultimi tre film: A dangerous method, Cosmopolis e Map to the Stars. Ma è stato suo figlio Brandon, in realtà, a trasformarla nell’idealizzazione della bellezza che il resto della società vorrebbe incarnare, come accade nel suo Antiviral. E adesso con le sue interpretazioni attraverserà tre decadi. Una notte con la regina di Julian Jarrold narra invece un evento poco conosciuto della vita di Elisabetta e ambientato nel 1945:  lei ha 19 anni e non è ancora sul trono (ci sarebbe salita nel ’52), esce per la prima volta da Buckingam Palace con la sorella Margareth, per festeggiare tra la gente comune la fine della guerra, a Trafalgar Square.

È vero che i suoi nonni si sono incontrati nella stessa notte e nello stesso luogo in cui si svolge Una notte con la regina? «La storia di una delle donne più famose del suo tempo ha intimidito molti. Io ho accettato per due motivi: primo perché mi ricorda il film con cui sono cresciuta, Vacanze romane, e secondo perché i miei nonni da parte di padre quella notte erano a Trafalgar Square a celebrare. Mi è parso un tributo alla loro vita. Ho sentito una connessione profonda col film anche per questo motivo».

Che effetto le ha fatto vestire i panni di una futura regina? «Mi sono sentita molto vicina a Elisabetta, sin da bambina ho sempre avuto un forte senso di me stessa, proprio come lei. Merito dei miei genitori, che mi hanno incoraggiata ad avere una certa educazione, a danzare e ad essere immersa nelle arti sia da piccola. Ma mi hanno passato anche l’importanza dell’altra faccia della medaglia, che è lo studio. Così sono andata all’Università e ho preso una laurea in Cinema. Quello dell’attrice è un lavoro molto precario, credo che i miei genitori volessero che sviluppassi un forte senso di chi sono, anche se avessi scelto un altro mestiere».

Sembra molto determinata: non ci sono cose che la scoraggiano, spaventano? «L’aspetto più difficile del mio lavoro è l’esposizione, andare alle audizioni, in cui puoi essere rifiutata. Poi ci sono i red carpet, le interviste con la stampa, tutte esperienze che non sono naturali, o almeno non lo sono per me. Vestire con un abito pazzesco, camminare davanti a mille fotografi non sono cose normali, ma le posso fare».

Detto da lei che è brand ambassador di Armani cosmetics e della casa di orologi di lusso Jaeger-LeCoultre, sembra impossibile. La vanità è diventata una parte impegnativa del suo lavoro? «Scegliere cosa indossare, ogni volta, occupa molto tempo. Mi piacerebbe poter mettere una giacca e via, come fanno i maschi. Studiare e prepararsi ai ruoli richiede così tanto impegno, che trovare energie anche per i vestiti mi sembra eccessivo».

 Se deve presentarsi in pubblico a chi si affida? «Quando entro nella rappresentazione dell’attrice devo sottolineare uno stile. Allora indosso abiti di Roland Mouret, mi piace molto come taglia gli abiti per la donna, ne evidenzia la femminilità. Così come mi piacciono Erdem, Sonia Rykiel e Isabel Marant».

Ha detto che secondo lei James Franco è uno dei più importanti artisti americani viventi. Tra poco sarete insieme nella serie della Fox diretta da J.J. Abrams, lui viaggerà nel tempo per impedire l’assassinio del presidente Kennedy, lei sarà una bibliotecaria e sua amante, prima di diventarne la fidanzata. «James ha anche diretto uno degli otto episodi, sapevo che lavorare insieme sarebbe stato fantastico, e così è stato. Nella serie si vedrà che c’è chimica tra noi, ed è importante: si tratta di una storia d’amore, era il minimo che potessimo fare per onorare i fans del libro, che credo ameranno quello che abbiamo fatto».

Articolo pubblicato su D La Repubblica del 19 marzo 2016

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Le vittime segrete dei droni, raccontate da Sonia Kennebeck

09 mercoledì Mar 2016

Posted by cristianaallievi in cinema, Cultura, Festival di Berlino

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Cristiana Allievi, droni, Edward Snowden, Isis, Jesselyn Radack, National Bird, Obama, Renzi, Sigonella, Sonia Kennebeck, Wim Wenders

GLI AEREI AMERICANI TELECOMANDATI, E IMPIEGATI CONTRO L’ISIS, PARTIRANNO ANCHE DALLE BASI ITALIANE. MA QUESTA GUERRA A DISTANZA, OLTRE A COLPIRE ANCHE I CIVILI, HA CONSEGUENZE SULLA SALUTE DI CHI PILOTA. NE PARLA LA GIORNALISTA INVESTIGATIVA USA CHE LO HA MOSTRATO NEL DOCU-FILM NATIONAL BIRD

È stato il Wall Street Journal a informarci dei fatti: l’Italia ha dato il via libera a Obama sull’utilizzo della base siciliana di Sigonella per le missioni contro l’Isis dei droni Usa, gli aerei senza pilota. Lo stesso giornale fa sapere anche che il presidente americano sta tentando di strappare all’Italia l’autorizzazione a portare avanti operazioni offensive, oltre a quelle a scopo difensivo.

I droni, che vengono comandati da una base distante centinaia di chilometri dalla zona di intervento, sono un nuovo modo di fare la guerra di cui però l’opinione pubblica sa poco, perché le informazioni che la riguardano sono top secret. Ma la giornalista investigativa Usa Sonia Kennebeck ha lavorato tre anni con l’obiettivo di mostrate, per la prima volta, gli effetti su chi ne è coinvolto. Lo ha fatto con National Bird, il docufilm che ha appena presentato al festival del cinema di Berlino, prodotto da Wim Wenders.

Sonia_Kennebeck.jpg«Volevo che a parlare fossero direttamente giovani donne e uomini arruolati nelle zone più remote dell’America come militari per i programmi di droni. Heather, 20 anni, è un’analista di immagini il cui compito era confermare se i potenziali obiettivi erano reali. Lisa si è scoperta abilissima con i computer ed è diventata responsabile di una base, e Darrell è un’intelligenza operativa che ha rivelato aspetti sconcertanti del programma», spiega la regista. Sotto consiglio di Wender, i primi soldi racimolati per produrlo sono andati all’avocato scelto per tutelare le fonti, Jesselyn Radack, ex consulente etico del dipartimento di Giustizia americano, che oggi lavora difendendo gli informatori (Edward Snowden è un suo cliente).

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«I piloti di droni entrano in territori di guerra, uccidono vite umane, tutto restando al sicuro, poi tornano a casa e cenano con i loro figli, come niente fosse. Per molti i disagi iniziano come crisi di pianto incontrollabili, poi per qualcuno le cose peggiorano. A Heather è stato diagnosticato un disordine da stress post traumatico, termine originariamente associato ai sopravvissuti del Vietnam. Ma tre colleghi nella sua stessa base si sono suicidati, altri sono caduti in depressione o sono diventati alcolizzati. Gli studi parlano di ferite psicologiche della guerra, ferite morali: la mente umana non regge certi tipi di dubbi, e queste persone non sanno se colpiscono obiettivi militari o semplici civili». Nel 2010 sono stati uccisi 23 civili in preghiera, in Afganistan, è non si tratta di un errore isolato. Sono trapelati dati militari da cui si è scoperto che in alcune operazioni il 90% delle vittime non erano gli obiettivi prestabiliti. Eppure ancora mancano i trattamenti psichiatrici per chi guida i droni, perché non c’è ancora la competenza necessaria. «Finchè questa guerra resta segreta, le persone non possono essere aiutate come dovrebbero», commenta la regista.

 Pubblicato su Grazia del 9 marzo 2016

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Quella volta che Chad McQueen mi ha detto: “Il mio è stato un padre difficile da digerire”

08 martedì Mar 2016

Posted by cristianaallievi in Festival di Cannes, Miti, Quella volta che

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Bullit, Chad McQueen, Cristiana Allievi, Ford Mustang GT, Le Mans, Steve McQueen, Steve McQueen: Una vita spericolata

Chi era davvero Steve McQueen

A 35 anni dalla sua morte, esce il docu-film “Steve McQueen: Una vita spericolata”. Abbiamo chiesto al figlio Chad i raccontarci le passioni del padre: donne e corse (ma non solo)

I motori erano la sua ossessione. Dal vivo e sul set. Steve McQueen non si accontentava di correre, voleva girare il più grande film di sempre sulle corse. E per farlo mise a repentaglio la carriera, il matrimonio, forse la sua stessa vita. Lo rivela un docu-film, Steve McQueen: Una vita spericolata, presentato in anteprima al festival di Cannes e nei cinema il 9-10-11 novembre, in cui Gabriel Clarke e John McKenna hanno messo insieme i retroscena delle riprese di Le Mans (1971), il film realizzato da Lee H. Katzin su una delle più massacranti corse automobilistiche del mondo. E soprattutto lo racconta aGQ il figlio di McQueen, Chad, 55 anni, ex attore, produttore e pilota professionista a sua volta, che oggi cura tutto ciò che ruota intorno all’immagine del padre, “The King of Cool”. Un tremendo incidente durante le prove della 24 Ore di Daytona, nel 2006, gli ha lasciato addosso un mucchio di cicatrici, ma non ha spento il suo amore per lo sport: sembra elettrizzato quando torna sul circuito di Le Mans per descrivere l’estate del 1970, quella in cui il padre si consumò per realizzare un sogno.

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Seicento scatole con materiale di scarto delle riprese di Le Mans hanno dato vita, quarant’anni dopo, a Steve McQueen: una vita spericolata. Il docu-film mostra luci e ombre di un padre che è anche una leggenda: difficile da sopportare?
«Ci sono stati vari aspetti scomodi per me. Prima di tutto aver dovuto risentire la sua voce mentre era malato di cancro, in Messico: il materiale inedito, però, era straordinario e mi sono fatto coraggio. Poi riscoprire il momento in cui ha iniziato ad andare con altre donne, motivo per cui ha divorziato da mia madre dopo 16 anni di matrimonio. Me lo ha fatto vedere sotto un’altra luce: lì ho sentito che forse non era un brav’uomo, ed è stata dura, perché per me lo era sempre stato».

Suo padre teneva a Le Mans più di ogni altra cosa al mondo. Perché non ha continuato a correre, invece di fare l’attore?
«E chi lo sa? Quando uscì il film, fu molto criticato. Nel primo weekend incassò la stessa cifra di Ispettore Callaghan, il caso Scorpio è tuo, con Clint Eastwood, poi crollò. Era noto che mio padre aveva voluto il pieno controllo del film, e lui si prese tutta la colpa, ma col passare degli anni quel titolo è diventato la pellicola più iconica di sempre sul mondo delle corse. Ho visto i dati di vendita: a fronte di un investimento di 6 milioni di dollari, la Paramount ha fatturato tre volte tanto».

Che uomo era Steve, ai suoi occhi?
«Uno davvero incasinato dentro. Non ha mai conosciuto suo padre, la madre era una figura assente e beveva molto. Mi ha raccontato che la scuola di correzione in cui era finito, la Junior Boys’ Republic, a Chino Hills,  in California, gli aveva cambiato la vita, “perché aveva struttura, lì ho imparato a occuparmi di me stesso”. Aveva un forte senso della famiglia, nonostante si sia separato da mia madre quando io avevo 13 anni. Era un padre amorevole, prima di girare qualsiasi film si assicurava che io e mia sorella Terry (morta a 38 anni per un’emocromatosi, ndr) potessimo raggiungerlo sul set: aveva bisogno che fossimo uniti».

Come spiega la fascinazione di suo padre per le corse e la velocità?
«Sembrerà paradossale, ma guidare a 350 chilometri all’ora fa sentire molto rilassati. Credo che mio padre andasse a correre per svuotarsi la testa».

Ovviamente ha lasciato l’impronta dei motori anche su di lei.
«La sua prima macchina è stata una Porche 1958 Speedster, che io posseggo ancora, poi sono venute la Jaguar XKSS e la Lotus Race. È arrivato ad averne in tutto 36. Quando ho compiuto 15 anni, e quindi non avrei potuto ancora guidare, mi ha costruito una Indian Chief del 1947 con un sidecar».

Era più dotato come pilota di moto che di auto?
«Dopo Le Mans, che è stata la sua ultima corsa in auto, si è dato alle moto d’epoca. Sono arrivate le Harley, le Indian, le Miracle, pezzi dal 1911 al 1952: toccava a me pulirle tutte. Quando è mancato, a 50 anni, aveva collezionato qualcosa come 130 esemplari».

Dov’è finita la Ford Mustang GT con cui scorrazzava per le strade di San Francisco in Bullit?
«Non lo sa nessuno. Mi ha telefonato un tipo dal Kentucky dicendo di averla, ma non voleva mostrarmela. Gli ho detto che l’avrei comprata e donata al Museo Petersen di Los Angeles. Mi ha risposto “No, no…”. Credo fossero balle. Secondo me, l’hanno rottamata, era troppo conciata».

Come spiega un mito inossidabile al tempo?
«Con il fatto che mio padre era un diverso. Se guarda i close up, nei suoi occhi passa così tanta merda. La pessima infanzia da cui viene gli ha regalato uno sguardo per cui sembra sempre stia covando qualcosa, impossibile da replicare. I Brad Pitt e i Ryan Gosling di oggi non hanno quella faccia».

I suoi occhi restano impressi, guardando Una vita spericolata.
«Poteva anche non dire niente, ma restavi inchiodato a fissarlo. Chi è capace di fare quell’effetto, oggi? Clooney? Non credo».

Se Steve McQueen fosse ancora in circolazione cosa farebbe, secondo lei?
«Non farebbe più film, perché ne aveva già abbastanza, ma sarebbe a bordo di qualche vecchio macchinario. Nel 1978 comprò un ranch di sessanta chilometri quadrati a Santa Paula. Aveva sette autocarri, costruiti tra il ’47 e il ’53, aveva iniziato a collezionare anche quelli. Mi ci sono voluti anni per occuparmi di tutti i magazzini che teneva sparsi praticamente in tutta l’America».

Una vita spericolata inizia e finisce con una delle ultime conversazioni che suo padre ha avuto prima di morire di cancro, il 7 novembre 1980, con il dottor W. Brugh Joy.
«Quella conversazione è avvenuta mentre si stava sottoponendo a trattamenti sperimentali in Messico: la malattia lo spinse a rivalutare la sua vita e la sua carriera. Sei settimane prima di andarsene, disse di essersi ammalato per lo stress a cui si era sottoposto con le riprese di Le Mans. La più grande passione di mio padre è stata anche il motivo della sua morte».

(testo di Cristiana Allievi)

 

articolo pubblicato su GQ Italia

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Festival di Cannes 2016 (ricordando i momenti migliori del 2015)

08 martedì Mar 2016

Posted by cristianaallievi in cinema, Festival di Cannes, Senza categoria

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Cannes 2015, Cristiana Allievi, Festival di Cannes, I momenti più belli

Mentre ci prepariamo a restare stupiti dai red carpet, le feste, i film e le star che sfileranno sulla Croisette dall’11 al 22 maggio 2016 per il festival più prestigioso del mondo, ecco i migliori ricordi dell’anno scorso.

 

CANNES 2015: I MOMENTI PIÙ BELLI


Dal 13 al 24 maggio la kermesse del mondo del cinema. La raccontiamo giorno per giorno con gli scatti degli attimi da non dimenticare

di Cristiana Allievi

Si è alzato il sipario sulla 68esima edizione del Festival del Cinema di Cannes. Dal 13 al 24 maggio 19 film si contendono l’ambito premio e la città risplende di star, vip, feste, serate, lusso, abiti, curiosità, eccentricità. Qui raccogliamo per voi il meglio di quest’anno.

LE LACRIME DI CATHERINE DENEUVE – L’attrice francese Catherine Deneuve si asciuga le lacrime, commossa per la grande accoglienza ricevuta a Cannes per “La tete haute” (A testa alta) film di cui è protagonista e che ha inaugurato il Festival 2015 – 13 maggio 2015.

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L’attrice francese Catherine Deneuve

IL NARCOTRAFFICO DI VILLENEUVE- Buon film “Sicario” di Denis Villeneuve, molto applaudito alla proiezione stampa e che ha regalato applausi e riconoscimenti a Josh Brolin, Emily Blunt e Benicio Del Toro. Unica donna nella lotta ai cartelli della droga tra il Messico e gli Usa è, appunto, Emily Blunt, che in un incontro con la stampa ha criticato l’affronto alle spettatrici di “Carol” che alla prima del film sono state respinte perché “non indossavano scarpe adeguate” (avevano ai piedi le ballerine). Per la Blunt costringere ai tacchi significa relegare la donna al ruolo di “oggetto da guardare”. Josh Brolin non ha resistito: “stasera sul red carpet anche io e Benicio ci metteremo i tacchi alti…”, ha dichiarato. Per par condicio.

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Josh Brolin, Emily Blunt, the director Villeneuve and Benicio Del Toro, Sicarios’s cast (courtesy Reuters.com)

SENZA LIMITI – Le donne più belle, gli abiti più straordinari e i gioielli più costosi si sono visti all’atteso Gold Party di Chopard, accanto al Baoli Club. In un tendone allestito come una miniera d’oro, in riferimento all’iniziativa etica della casa di usare materiali estratti in maniera sostenibile, si sono radunati 700 invitati – tra cui è spuntato anche Leonardo Di Caprio col solito cappello calcato in testa per non farsi notare. Un mare di top, da Adriana Lima a Irina Shayk, con special guest Robbie Williams che ha cantato un’ora per la gioia di tutti.

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La top model Adriana Lima all’esclusiva festa di Chopard, a Cannes. 

MICHAEL CAINE, CHE GIOVINEZZA- È una bellezza al diapason quella a cui tende Sorrentino con “Youth”, film in concorso applaudito e fischiato alla proiezione per la stampa. Questo è il punto di forza e allo stesso tempo il limite del film che, va detto, vanta la recitazione notevole di Michael Caine (nella foto) e Harvey Keitel, con Jane Fonda in due sole scene, ma memorabili. La frase migliore l’ha detta Caine in conferenza stampa, dove ha dominato la scena: “Quel momento in cui io e Harvey siamo in piscina, e arriva Madalina Ghenea nuda, è la descrizione perfetta della gioventù che non avremo più… E l’idea mi fa piangere”.  Applausi scroscianti.

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Gli attori Michael Caine e Harvey Keitel nel film di Sorrentino (courtesy of whatworthseeing.com).  

UNICO CASSEL – Vincent Cassel è superlativo in “Mon Roi” di Maiwenn, il secondo film con cui gareggia per la Palma d’Oro. Ma la sua bravura non si limita allo schermo, con battute memorabili tipo quella in cui chiede un improbabile “Viazac” in farmacia, un misto tra Viagra e Prozac. Passando sulla Croisette ha incantato i giornalisti per la sua capacità di non nascondersi dietro frasi fatte. Il film parla di un amore travolgente, di figli, di incomprensioni, di separazione e di ritorni di fiamma. Lui ce la mette tutta a difendere l’uomo che interpreta, Giorgio. E che un po’, va detto, gli somiglia.

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Vincent Cassel, Emmanuelle Bercot (Miglior attrice a pari merito) e la regista di Mon Roi, Maiwenn (courtesy cinema.yahoo.com)

LA DENUNCIA DI LINDON- È sulle spalle dell’altro Vincent di Francia, che di cognome fa Lindon,  il film di denuncia sociale, “La loi du Marché” di Stephane Brizé. Un gigantesco Lindon – che Le Monde da come candidato alla Palma d’Oro – interpreta Thierry, un cinquantenne che ha perso il lavoro da mesi ed è costretto ad accettarne uno che lo mette moralmente in crisi.  “È il personaggio più simile a me stesso e allo stesso tempo più lontano. Io ho il sangue caldo, reagisco all’istante, Thierry soffre in silenzio, non vuole essere compatito… Diciamo che nella vita reale sono John McEnroe, nel film ho dovuto fare Bjorn Borg…”.

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Vincent Lindon, miglior attore protagonista per La legge del mercato, Cannes 2015.

NUTELLA PER NANNI – Commosso per la reazione della stampa al suo film in concorso a Cannes, Nanni Moretti (nella foto) è apparso particolarmente affabile alla festa in suo onore, tenutasi sulla spiaggia di fronte al Carlton Hotel. Tantissimi ospiti stranieri, soprattutto americani, intrattenuti con pezzi di pizza e dolci a cubetti infilzati negli stuzzicadenti che alludevano vagamente alla torta Sacher. Ultimo tocco “morettiano”, il gelato “ricopribile” di Nutella.

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Moretti commosso in sala dopo la proiezione di Mia madre (courtesy Liguriaoggi.it)

LA MORTE, SECONDO ROTH – La morte è un fil rouge di questa edizione del festival. Per citare solo alcuni titoli, “Mia madre”, lo stesso “Youth”, “Son of Saul” (opera prima applauditissima e con chance di vittoria), “The valley of Love” e l’ultimo, “Chronic”: tutti la raccontano o vi alludono. Tim Roth, il protagonista dell’ultimo citato, è un bravissimo infermiere che lava i suoi malati, guarda con loro la tv, ne diventa l’ultimo amico. Il film di Michel Franco è troppo freddo (e il finale è ingiustificato) ma ha un merito: mostra quanto i parenti dei malati deleghino a terzi il confronto con la vecchiaia, la malattia e la morte.

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Tim  Roth sul red carpet per Chronic di Michel Franco (courtesy movies.ndtv.com)

LA SFIDA DI MATTEO GARRONE – Al grido di “il mio film cerca il pubblico in sala”, Matteo Garrone, che ha già vinto il Grand Prix della giuria con Gomorra (2003) e Reality (2008), punta a sbancare il botteghino. Se stamattina in sala gli applausi per “Il racconto dei racconti” sono stati timidi, la stampa straniera è entusiasta del film e dunque Garrone ha validi motivi per credere nella sua missione. Nella foto: Bebe Cave, John C. Reilly, Salma Hayek, Matteo Garrone, Vincent Cassel e Toby Jones cast de “Il Racconto Dei Racconti” (Tale Of Tales) – 14 maggio 2015

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Una scema di Il racconto dei racconti, in concorso al festival (courtesy it.ibtimes.com)

PERCHÈ FUORI CONCORSO? – Applausi scroscianti e urla in sala per “Mad Max, Fury Road” di George Miller  fuori concorso. In molti si sono chiesti perché un film così palpitante non sia in gara. Fatto è che per una volta, il red carpet serale della sua star, Charlize Theron, non ha offuscato di certo l’esperienza visiva della mattina, all’altezza del miglior cinema di questo decennio.

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Charlize Theron in Mad Max: Fury road  (courtesy screencrush.com) 

PORNO LOVE- Merita un applauso per il solo fatto di aver messo in fila tremila persone ansiose di vedere il suo “porno” in 3D fuori concorso, “Love”. Gaspar Noé, regista argentino (nella foto il secondo da sinistra con Klara Kirstin Karl Glusman e Aomi Muyock) in conferenza stampa ha spiegato così la sua scelta di concentrarsi sui dettagli: “Tutti pensiamo sempre a fare l’amore, è il desiderio che abbiamo in comune. Allora perché non mostrarlo in un film?”. La sua non è trasgressione, prosegue, come non lo era in Pasolini, Bunuel e Fassbinder. E la nuova tecnologia è dalla sua parte.

DEMOCRAZIA SESSUALE – Lei dice “quando un uomo ti porta dei fiori, e di solito non lo fa, ti ha appena tradita”. Lui dice “un uomo che tradisce si perdona, una donna no…”.  In “The shadow of woman” di Louis Garrel, una doppia infedeltà in bianco e nero che sembra uscita direttamente dalla Nouvelle Vague,  mette Clotilde Courau (nella foto) di fronte a Stanislas Merhar. E lo fa con l’intento di mostrare una volta per tutte come la libido femminile sia potente tanto quanto quella maschile. Il cinema – disegnato dagli uomini e ancora determinato dal loro punto di vista – è avvisato.

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Clotilde Coreau sul red carpet per Louis Garrel (courtesy Cocolife.tv)

WOODY- PENSIERO: Nell’incontro con la stampa il regista statunitense Woody Allen ha divertito e intrattenuto con il sarcasmo che è un suo marchio di fabbrica. Parlando della prima serie tv che dirigerà per Amazon ha detto:  “È una tragedia, non so pensare a sei episodi da mezz’ora, spero che quelli di Amazon non la prendano a male, ma non so cosa sto facendo… Sono in un imbarazzo cosmico!”. E ancora: “La vita è una catastrofe, tutti finiremo nella stessa posizione, un giorno, una brutta posizione! L’unica possibilità è distrarre le persone dalla realtà. C’è chi guarda il baseball, io scrivo film. Ed è molto meglio che stare su una spiaggia a pensare che moriremo tutti!”.

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Emma Stone e Woody Allen (Courtesy movieplayer.it)

Applauditissimo il quarto film italiano a Cannes, “Louisiana” di Roberto Minervini (nelle sale dal 28 maggio). Un film estremo che indaga i margini della società americana, fatta di spogliarelliste, future mamme allo sbando, veterani di guerra, drogati e disperati di varie specie. Da anni residente negli Usa Minervini, che nella vita avrebbe voluto fare il reporter di guerra, incontra e racconta questi personaggi con la lucidità di documentarista e mostrando i paradossi feroci dell’America. Alcuni non pregiudicati presenti nel documentario lo hanno seguito fin sulla Croisette per assistere all’anteprima del film

IL RISCATTO DELLA TIGRE- Stavolta Jacques Audiard mischia la violenza dell’anima- tratto distintivo dei suoi personaggi- alla voglia di famiglia. E in concorso con Dheepan fa di nuovo centro. La storia è quella di una ex Tigre per la liberazione della patria Tamil che scappa con una donna e una bambina in Francia, cercando una nuova vita. I tre non sono una vera famiglia, ma lo diventano grazie alla forza del protagonista e dell’ultima scena del film: minuti di confronto sanguinoso, e di riscatto per l’ex guerriero, che rendono il film possente.

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Jacques Audiard, palma d’oro al suo Dheepan.  

LA SETE DI STEVE – Più della Porche grigia 911 e delle auto da corsa che, all’epoca, prendevano fuoco facilmente, resterà impresso il suo sguardo. Profondo, alla ricerca di qualcosa. “Steve McQueen, Le men & Le mans” di Gabriel Clarke e John McKenna (nella foto con al centro Chad McQeen) è il docufilm su una delle più grandi star del cinema di tutti i tempi alle prese con il sogno di girare un film sulla storica gara di durata francese. Un’ossessione che lo ha provato duramente (nei sei mesi di lavoro il suo regista lo ha abbandonato e il suo matrimonio è naufragato), ma non fermato: McQueen voleva che lo spettatore “provasse” ciò che sente il pilota nell’abitacolo di un’auto da corsa, per questo merita il titolo di regista visionario.

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Steve McQueen (courtesy tagheuer.com)

ROSA-SHOCKING: In abito rosa shocking con scollatura molto profonda l’ex angelo di Victoria’s Street, Miranda Kerr (nella foto) si è presentata al primo party sulla Croisette, a Plage L’Ondine, quello di una nota casa di gelati. Cosa ci faceva la top ed ex moglie di Orlando Bloom, tra i gelati conditi ai macarons e alla liquerizia? Come molte colleghe dalle gambe chilometriche, per esempio Bar Refaeli a Liya Kebed, è sbarcata in costa azzurra arruolata in veste di testimonial. Un trend che, a quanto pare, paga.

DEPARDIEU “IMMENSO”- Il regista avrebbe voluto Ryan O’Neill nei panni di un padre che, con la ex moglie (Isabelle Huppert), finisce nella Death Valley per volontà di un figlio che si è tolto la vita. La parte è andata invece a Gerard Depardieu, che sullo schermo di Valley of love è immenso (letteralmente). “Ho scelto di fare l’attore perché non volevo lavorare”, ha raccontato in conferenza stampa. “Quando giriamo un film si prendono cura di noi, ci nutrono, ci lavano i vestiti, ci danno una casa… Ci ho messo molto a capirlo, ma sono diventato attore perché mi ha semplificato la vita”. E conclude con i suoi gusti. “Rimpiango Fellini, Ferreri e Carlo Saula, e non conosco i nuovi registi. Mi piacciono e le serie tv e i film con Bruce Willis pieni di effetti speciali…”.

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Gerard Depardieu (courtesy Lefigaro.fr)

LE PANCE – Due pance in una giornata diventano tendenza. Quella di Colin Farrell (nella foto) in “The lobster” (ottimo film in concorso), e quella di Joaquin Phoenix in “The irrational men”. Entrambi hanno scene di nudo che tolgono ogni dubbio sul fatto che la loro è tutta ciccia vera. In particolare Farrell è panciuto per interpretare un personaggio surreale, Phoenix, bevitore accanito di whiskey. Considerato che hanno due donne a testa che fanno follie per loro, cogliamo la provocazione: le  “tartarughe” non vanno più, oggi una donna si conquista con il carisma. A proposito, loro dal vivo sono in gran forma…

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Colin Farrell in The lobster (courtesy news.com.au)

 

MICHAEL FASSBENDER- È il sex symbol irlandese a chiudere con l’ultimo film in competizione il festival di Cannes, calandosi nei panni del valoroso generale shakesperiano “Macbeth”, che si trasforma in assassino. Diretto da Justin Kurzel, ricoperto di terra e sangue per tutto il film, Michael Fassbender regala un’interpretazione intensa dell’uomo divorato dalla brama di potere. “Ero spaventato da questo personaggio”, ha dichiarato in conferenza stampa, “per interpretare quest’uomo “strappato intimamente”, dagli omicidi e dalla perdita del figlio, mi sono ispirato allo stress post traumatico dei soldati che tornano dalla guerra”. Perdita di senno a parte, resta indimenticabile la scena in cui riemerge dalle acque gelate della Scozia mostrando un fisico indimenticabile.

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La cyberguerra di Zero Days, raccontata da Alex Gibney

02 mercoledì Mar 2016

Posted by cristianaallievi in cinema, Cultura

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Alex Gibney, Berlinale 2016, Bush, Cristiana Allievi, cyberguerra, Iran, Israele, nucleare, Obama, Stuxnet, Symantec, virus, Zero Days

Il docufilm presentato a Berlino dal documentarista americano svela retroscena inquietanti sul virus in grado di bloccare il programma atomico iraniano. Lo ha raccontato Gibney con un film in concorso che ha stupito

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Il regista Usa Alex Gibney, premio Oscar per Taxi to the dark side (courtesy of Hollywoodreporter.com)

«È stato chiaro da subito che non si trattava solo di un virus pericoloso rilasciato nel mondo, ma all’inizio nessuno voleva parlare. Dopo essermi sentito dire una serie di “no comment”, da amici che avevano lavorato alla Cia, mi sono immaginato di raccontare gli eventi come se fossero parte di una detective story, per questo ho cercato un detective vero. Poi, lungo il percorso, altri si sono rivelati ansiosi di parlare…». A cedere ad Alex Gibney, uno dei più prolifici e attendibili documentaristi d’America, sono stati nientemeno che Richard Clarke, consigliere dell’antiterrorismo di tre presidenti Usa (dal 1992 al 2003), il generale Michael Hayden direttore della NSA (dal 1999 al 2005) e della CIA (dal 2006 al 2009), e una sfilza di personaggi tra cui detective, analisti e attori resi irriconoscibili grazie a sofisticate elaborazioni grafiche, a cui sono state fatte pronunciare le parole più impronunciabili.

«Sono partito con l’idea di raccontare la storia di Stuxnet, il virus programmato per sabotare le centrifughe di uranio nella centrale nucleare di Natanz, in Iran, facendole esplodere. Nessuno, in teoria, si sarebbe dovuto accorgere che l’operazione era frutto di hackeraggio. Ma a causa di un errore di programmazione, il virus si è diffuso più estesamente, andando a colpire le aziende da cui provenivano le attrezzature per il programma atomico iraniano, in altre nazioni». Avrebbe voluto raccontare questo Gibney nel suo docu film Zero Days, proiettato in concorso all’ultimo Festival di Berlino. Ma strada facendo lui e il suo team di esperti si sono accorti delle conseguenze impreviste di portata planetaria di questa “risposta” all’espansione nucleare dell’Iran. «La dimensione internazionale, l’aspetto del thriller e il fatto che non si trattava solo di problemi “tecnici”, ci hanno spinto ad andare a Mosca, poi in Israele». Anche lo spettatore meno esperto di virus, hackeraggi e nucleare resterà inchiodato alla sedia per 116 minuti capendo che quelle che scorrono sullo schermo sono le immagini di una cyber guerra di cui fino a oggi eravamo all’oscuro. Un conflitto senza regole perchè tenuto top secret dalle amministrazioni Bush e Obama, che hanno minacciato di perseguitare chiunque aprisse bocca con i media in merito alla verità sulle scelte offensive della loro politica. «Avevo amici dell’amministrazione Obama che non mi hanno lasciato dichiarazioni, nemmeno riservate: erano terrorizzati», racconta il regista premio Oscar per Taxi to the Dark Side.

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Un’immagine di Zero Days, ultimo lavoro di Gibney, in concorso alla Berlinale 2016

Stuxnet è stato scoperto a metà del 2010 da Sergey Ulasen, un esperto di antivirus in Bielorussia, chiamato dagli iraniani preoccupati per i misteriosi eventi accaduti alle loro centrali. «Gli analisti di Symantec (azienda Usa nata per salvaguardare la sicurezza dei computer dagli attacchi informatici, ndr) hanno  lavorato a decodificare il malware e studiato come funziona il “verme”. Stuxnet può trasformare selettivamente macchine Siemens PLC, utilizzate per regolare motori, pompe e altri dispositivi di infrastrutture, facendole agire contro se stesse». Non solo Gibney e il suo team hanno verificato che dietro l’operazione c’erano Israele e gli Stati Uniti, con CIA e NSA, ma lavorando hanno capito che esisteva un programma più vasto: l’operazione Nitro Zeus, che è una vera cyber guerra in corso qui e ora. «L’estremo pericolo è rappresentato dal fatto che si tratta di virus che non sono attribuibili, perché non si sa da dove arrivino: gli iraniani per anni non sapevano che Stuxnet stava bloccando le loro centrali nucleari», continua Gibney. «Sappiamo dagli esperti che negli ultimi due anni il numero di attacchi programmati e di virus è cresciuto incredibilmente, e sappiamo anche che Stuxnet è disponibile per tutti, quindi è un pericolo: tutti possono potenzialmente studiarlo e riapplicare il bersaglio ovunque c’è un’infrastruttura». Mentre ci siamo distratti, l’America ha cambiato le regole del gioco e ci troviamo a dover fare i conti con questa nuova cyberwar. Zero Days suggerisce che il mondo ha poco tempo per chiarire la sua posizione, prima che la parte sbagliata si spinga oltre. Uno spiraglio di speranza Gibney lo lascia. «I tecnici di Symantec sono riusciti a penetrare un sistema teoricamente impenetrabile, ed è un fatto importante. Oggi c’è un’altra grande battaglia, quella tra la Apple e l’America, che vorrebbe controllare i computer di tutti con la giustificazione di individuare i criminali che li usano. La casa di computer si è opposta, ed è un altro fatto che mostra che non esiste un super potere a cui non si può dire di no: si può rispondere con lo stesso tono e ottenere risultati. Ho fiducia nel fatto che se le persone si focalizzano sui pericoli sanno trovare soluzioni. E il più grande pericolo è quando le cose restano segrete, e nessuno ne parla».

Articolo pubblicato su Panorama il 29 febbraio 2016

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