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Wim Wenders: «Confesso, ho peccato»

23 giovedì Ago 2018

Posted by Cristiana Allievi in Cannes, cinema, Cultura, Festival di Cannes, Miti, Personaggi

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3D, cinema, Cristiana Allievi, donne, fede, interviste, Papa Francesco, Wim Wenders

 

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Il regista, sceneggiatore e produttore Wim Wenders, 73 anni (foto di Caitlin Cronenberg, courtesy GQ Italia).

IL DOCU FILM DI WIM WENDERS SUL PAPA ARRIVA NELLE SALE E IL REGISTA ANCORA SI INTERROGA SU QUANTO LO ABBIA CAMBIATO L’INCONTRO CON FRANCESCO. AL PUNTO CHE, PER LA PRIMA VOLTA, HA DECISO DI PRENDERSI UNA PAUSA PER RIFLETTERE. ANCHE SUL TEMA DEL FEMMINILE

«Nemmeno nei miei sogni più selvaggi avrei pensato di girare un film sul Papa. Lo avevo osservato attentamente, nel suo primo anno di pontificato, e mi era piaciuto. Ancora prima, quando lo hanno annunciato in tv, ero entusiasta: mi sono detto che chiunque sarebbe arrivato aveva un sacco di coraggio, per scegliere quel nome». A più di quarant’anni dagli esordi, il regista di Paris Texas e Il cielo sopra Berlino ha una carica straordinaria. È lo stesso motore che lo ha reso un artista instancabile nel continuare a ridefinire il suo gesto creativo. Cresciuto a Dusseldorf, ha masticato molto rock and roll e western hollywoodiani, assorbendo quell’iconografia made in the Usa che ci ha restituito in tanti dei suoi motel e centri commerciali, nella rappresentazione del West americano, nei jukeboxes e nelle musiche dei suoi film. Fra esperimenti e azzardi vari, fra cui un irriverente uso del 3D, Wenders non ha mai temuto il rischio, né i tonfi più clamorosi. Quindi stupisce, ma fino a un certo punto, Papa Francesco- Un uomo di parola, l’ennesimo, riuscitissimo, azzardo. Nelle sale dal 4 ottobre, presentato come evento speciale all’ultimo festival di Cannes, questo documentario è un lungo racconto-intervista in cui il cineasta tedesco lascia che Bergoglio risponda alle sue domande parlando direttamente agli spettatori. Un lavoro che trasuda ammirazione e che stupisce, se si pensa al passato politicamente impegnato di Wenders. Ma a vincere è lo stupore per la forza comunicativa del papa, degna di una rockstar. E che ha convinto lo stesso Wenders a cambiare, come racconta lo stesso regista in questa intervista.

Com’è stato incontrare il pontefice nel privato di un set? «Il primo giorno di riprese eravamo pronti da ore con la mia troupe. Eravamo tesi, ho detto a tutti “non gli chiederò di fare la stessa cosa due volte, non è un attore, non avrà trucco: quello che succede, succede”. Bergoglio è entrato nella stanza da solo, ha iniziato a stringere la mano a tutti, uno per uno, guardato tutti negli occhi. Ha mostrato cosa intende con parità, abbiamo sentito un contatto reale, è un uomo che non finge».

I messaggi che lancia dallo schermo ruotano intorno a famiglia, figli e relazioni, e sono molto semplici, eppure lasciano il segno. Perché? «Ho visto una madre sconvolta, quando Bergoglio le ha chiesto “passa tempo con suo figlio?”, in quel momento si è accorta di non farlo, di lasciarli soli con l’ipad. Anch’io sapevo di poter vivere con meno di quello che ho, ma mentre il papa mi parlava ho realizzato che mentivo a me stesso».

I suoi “sperperi”? «Compro 30 cd di musica ogni settimana e la maggior parte li ascolto una sola volta. Ho sempre accumulato, anche un mare di abiti, e se penso al numero di paia di scarpe che vedo nelle case dei miei amici, è impressionante. Evidentemente serve il papa a ricordarci che tutto questo è assurdo: lui indossa le stesse scarpe da 10 anni e si è presentato su una Fiat Panda».

Dopo questo incontro ha rivalutato la religione? «Sono una persona spirituale, ma non sono cattolico. La rigidità delle istituzioni mi spaventa, si prendono tutte più seriamente di quello che rappresentano».

Da re dei road movie  si è messo a girare in 3D, sfidando i colleghi d’Oltreoceano: anche lei è un uomo coraggioso.  «Hollywood non ha usato il 3 D, lo ha abusato, e senza prenderlo seriamente. Ci facevano solo film d’azione, invece di studiarlo come un cambiamento epocale, un nuovo linguaggio per il cinema».

Che lei ha usato per intimi drammi familiari e addirittura dialoghi fra amanti, quasi una sfida impossibile. «Con quella tecnologia lavorano parti diverse del cervello, che rintracciano anche la profondità, e gli occhi sono naturalmente diretti verso la persona che sta parlando. In pratica si è immersi in quello che guarda, mi è sembrato uno strumento perfetto per riportare i dialoghi al centro».

(…continua)

Intervista pubblicata su GQ, n.  settembre 2018 

© RIPRODUZIONE RISERVATA

 

Guerra e droni: “Il diritto di Uccidere” è un film di urgente attualità

25 giovedì Ago 2016

Posted by Cristiana Allievi in cinema, Cultura

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Barak Obama, Colin Firth, Cristiana Allievi, Eye in the sky, Gavin Hood, Good Kill, Guy Hibbert, Il diritto di uccidere, NAtional Birds, New York Times, Sonia Kennebeck, Wim Wenders

Diretto dal premio Oscar Gavin Hood e prodotto da Colin Firth, il film che racconta dettagliatamente cosa sia la “kill chain” che è al cuore di ogni attacco con droni, diventa quasi di utilità sociale. Perché questo tipo di guerra ci coinvolge tutti.

Il colonnello inglese Katherine Powell, dopo aver inseguito per anni una connazionale divenuta terrorista, la rintraccia in Kenya grazie all’uso dei droni.
Il suo “occhio” sul campo è pilotato in Nevada da un giovane ufficiale che, al momento di sferrare l’inevitabile attacco alla cellula terroristica di Nairobi, intercetta una bambina che si piazza a vendere il pane proprio a pochi metri dall’obiettivo. A questo punto tutto ruota intorno alla percentuale di probabilità che ci sono di far morire anche quell’innocente, per colpire il gruppo di terroristi. Inizia un gioco di rimbalzi in cui nessun politico nella “war room” londinese vuole prendersi la responsabilità di decidere, mentre da parte Usa arriva più volte l’ok a procedere.

Nelle sale dal 25 agosto Il diritto di uccidere (Eye in the Sky), diretto dal premio Oscar Gavin Hood e prodotto da Colin Firth, solleva una domanda fondamentale nello spettatore: il danno collaterale è moralmente accettabile nel contesto della lotta al terrorismo?«Non sapevo niente dalla moderna guerra con i droni, su cui tra l’altro non c’è mai stato un vero dibattito pubblico. Per molti mesi ho studiato la sceneggiatura di Guy Hibbert, ho letto libri, guardato documentari e preso contatti con l’esercito. Poi ho parlato con piloti di droni e avvocati che si occupano di diritti umani», racconta Hood. «Ma la cosa che mi ha coinvolto nel progetto, affascinandomi, è stato il fatto che al cuore della storia c’è un genuino dilemma etico e morale. Da ex avvocato mi ha ricordato il vecchio “dilemma del vagone”, spesso presentato alle lezioni di etica, in cui si chiede agli studenti se sacrificherebbero una vita per salvarne molte in circostanze che coinvolgono un treno in corsa che non si può fermare. Il diritto di uccidere pone lo stesso dilemma: uccideresti una bambina innocente per prevenire la possibile – ma non inevitabile – morte di molte persone per mano di un kamikaze?».

Il diritto di uccidere

 

 

Il diritto di uccidere

Come regista, Hood presenta questo dilemma allo spettatore in modo viscerale, cinematico ed eccitante, tenendolo inchiodato alla sedia e allo stesso tempo sfidando la sua idea di giusto e sbagliato. Interpretato dal premio Oscar Helen Mirren, da Aaron Paul e da Alan Rickman alla sua ultima e straordinaria prova di attore, il film è particolarmente abile nel far percepire cosa attraversano le persone a livello umano, dai vertici militari a quelli politici, fino al pilota che deve premere l’ultimo bottone della catena. E mette in rilievo come questa nuova guerra non coinvolga solo una tecnologia avanzatissima, ma incastri leggi, etica e politica: il colonnello, per ottenere l’ok a procedere, dovrà prendere una decisione personale, che lascia lo spettatore con qualcosa di cui parlare e lo coinvolge al punto da farlo diventare una specie di giuria.Il diritto di uccidere

Che quello dei droni sarebbe stato il tema dell’anno lo si era capito con l’uscita di Good Kill, diretto da Andrew Niccol e interpretato da Ethan Hawke, seguito dalla proiezione di National Bird all’ultima Berlinale, il documentario di 90 minuti di Sonia Kennebeck prodotto da Wim Wenders.

Se il film interpretato da Ethan Hawke intrattiene con il tormento dell’uomo che passa dalla guerra fisica, combattuta in Afganistan, a quella in cui si uccide a distanza, freddamente e senza nessun tipo di percezione, la giornalista freelance Kennebeck, che ha lavorato per la CNN e le tv tedesche, ha fatto un altro tipo di operazione: ha cercato fonti interne e le ha fatte parlare direttamente, raccontando per la prima volta cosa succede a chi si arruola in “un programma di droni”, con tanto di numeri sui tentati suicidi per il disagio causato alla psiche.

Poche settimane fa Barak Obama ha finalmente rilasciato dichiarazioni sul numero di “vittime collaterali” dei droni dal 2009 al 2015: da 64 a 116 in sei anni è la cifra rivelata dalla Casa Bianca, un numero molto inferiore a quello dichiarato da media e Ong. Negli ultimi sette anni sono stati 473 gli attacchi degli aerei senza pilota contro obiettivi del terrorismo internazionale, che hanno ucciso circa 2500 terroristi. Il tema è quanto mai scottante, e secondo il New York Times la dichiarazione di Obama a sei mesi dalla fine della sua presidenza ha un valore simbolico: sarebbe un modo per rendere i bombardamenti al di fuori di zone di guerra una routine accettata della politica di difesa.Il diritto di uccidere

Per questo motivo il racconto dettagliato di cosa è la “kill chain”, che è al cuore di Il diritto di Uccidere, diventa un fatto quasi di utilità sociale, dal momento che questo tipo di guerra ci coinvolge tutti. «È fondamentalmente la catena militare e politica del comando attraverso cui passa la decisione di colpire un individuo, prima che venga dato il via libera a ucciderlo», spiega Hood. «Nel film vediamo la catena in azione in tempo reale. Nel caso di un “individuo di alto valore” o di un target politicamente sensibile, questa catena della morte porta dritti al Primo ministro britannico e addirittura al presidente Usa. Il fatto che a rendere legale un assassinio sia una catena di permessi è materia di grande dibattito. Se la gente parla di quello che ha visto, e di come la fa sentire, e di cosa farebbe e non farebbe se si trovasse a prendere decisioni sulla vita e la morte di qualcuno, ne sarei entusiasta. È l’effetto che ha fatto a me leggere la sceneggiatura di Guy: mi ha fatto davvero pensare».

Articolo pubblicato su GQ Italia 

© Riproduzione riservata

Le vittime segrete dei droni, raccontate da Sonia Kennebeck

09 mercoledì Mar 2016

Posted by Cristiana Allievi in cinema, Cultura, Festival di Berlino

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Cristiana Allievi, droni, Edward Snowden, Isis, Jesselyn Radack, National Bird, Obama, Renzi, Sigonella, Sonia Kennebeck, Wim Wenders

GLI AEREI AMERICANI TELECOMANDATI, E IMPIEGATI CONTRO L’ISIS, PARTIRANNO ANCHE DALLE BASI ITALIANE. MA QUESTA GUERRA A DISTANZA, OLTRE A COLPIRE ANCHE I CIVILI, HA CONSEGUENZE SULLA SALUTE DI CHI PILOTA. NE PARLA LA GIORNALISTA INVESTIGATIVA USA CHE LO HA MOSTRATO NEL DOCU-FILM NATIONAL BIRD

È stato il Wall Street Journal a informarci dei fatti: l’Italia ha dato il via libera a Obama sull’utilizzo della base siciliana di Sigonella per le missioni contro l’Isis dei droni Usa, gli aerei senza pilota. Lo stesso giornale fa sapere anche che il presidente americano sta tentando di strappare all’Italia l’autorizzazione a portare avanti operazioni offensive, oltre a quelle a scopo difensivo.

I droni, che vengono comandati da una base distante centinaia di chilometri dalla zona di intervento, sono un nuovo modo di fare la guerra di cui però l’opinione pubblica sa poco, perché le informazioni che la riguardano sono top secret. Ma la giornalista investigativa Usa Sonia Kennebeck ha lavorato tre anni con l’obiettivo di mostrate, per la prima volta, gli effetti su chi ne è coinvolto. Lo ha fatto con National Bird, il docufilm che ha appena presentato al festival del cinema di Berlino, prodotto da Wim Wenders.

Sonia_Kennebeck.jpg«Volevo che a parlare fossero direttamente giovani donne e uomini arruolati nelle zone più remote dell’America come militari per i programmi di droni. Heather, 20 anni, è un’analista di immagini il cui compito era confermare se i potenziali obiettivi erano reali. Lisa si è scoperta abilissima con i computer ed è diventata responsabile di una base, e Darrell è un’intelligenza operativa che ha rivelato aspetti sconcertanti del programma», spiega la regista. Sotto consiglio di Wender, i primi soldi racimolati per produrlo sono andati all’avocato scelto per tutelare le fonti, Jesselyn Radack, ex consulente etico del dipartimento di Giustizia americano, che oggi lavora difendendo gli informatori (Edward Snowden è un suo cliente).

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«I piloti di droni entrano in territori di guerra, uccidono vite umane, tutto restando al sicuro, poi tornano a casa e cenano con i loro figli, come niente fosse. Per molti i disagi iniziano come crisi di pianto incontrollabili, poi per qualcuno le cose peggiorano. A Heather è stato diagnosticato un disordine da stress post traumatico, termine originariamente associato ai sopravvissuti del Vietnam. Ma tre colleghi nella sua stessa base si sono suicidati, altri sono caduti in depressione o sono diventati alcolizzati. Gli studi parlano di ferite psicologiche della guerra, ferite morali: la mente umana non regge certi tipi di dubbi, e queste persone non sanno se colpiscono obiettivi militari o semplici civili». Nel 2010 sono stati uccisi 23 civili in preghiera, in Afganistan, è non si tratta di un errore isolato. Sono trapelati dati militari da cui si è scoperto che in alcune operazioni il 90% delle vittime non erano gli obiettivi prestabiliti. Eppure ancora mancano i trattamenti psichiatrici per chi guida i droni, perché non c’è ancora la competenza necessaria. «Finchè questa guerra resta segreta, le persone non possono essere aiutate come dovrebbero», commenta la regista.

 Pubblicato su Grazia del 9 marzo 2016

© RIPRODUZIONE RISERVATA

 

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