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Drive to Oscar, Ryusuke Hamaguchi

22 martedì Mar 2022

Posted by cristianaallievi in arte, Attulità, Cannes, cinema, Cultura, Teatro

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cinema giapponese, Cristiana Allievi, Drive my car, Hamaguchi, interviste illuminanti, Oscar, Oscar 2022, Vanity Fair

CON IL SUO ROAD MOVIE, IL REGISTA GIAPPONESE È CANDIDATO A QUATTRO STATUETTE. IN GARA ANCHE CONTRO PAOLO SORRENTINO

di Cristiana Allievi

Reika Kirishima e Hidetoshi in una scena di DRIVE MY CAR, candidato a 4 Oscar.

A un certo punto dell’intervista mi dice «dell’Italia conosco tre città, Milano, Bologna e Roma». Pronuncia i nomi con un accento impeccabile, e poco dopo scopro anche quanto sia legato al nostro cinema. Il nome di Ryusuke Hamaguchi per ora non è altrettanto noto agli italiani, ma le cose cambieranno quando (con buone probabilità) lo sceneggiatore e regista giapponese sfilerà l’Oscar per il Miglior film straniero al nostro Paolo Sorrentino. Il suo road movie dell’anima, Drive my car, è già stato premiato per la miglior sceneggiatura all’ultimo Festival di Cannes.  In comune con È stata la mano di Dio ha il tema, un trauma importante da superare, e una fotografia magnifica (ma dura ben 40 minuti in più). Sguardo intelligente e una statura intorno al metro e ottanta, finalmente lo incontro dopo averlo inseguito per giorni. in jeans e maglione blu, si scusa per essere in ritardo di tre minuti (netti) al nostro incontro. Mi ringrazia per l’interesse nei suoi confronti accennando a un inchino. Ma mentre i suoi arigato sono accompagnati da sguardi occhi negli occhi, quando la parola passa a me i suoi occhi si posano altrove. Il perché si capirà verso la fine dell’intervista. Tratto da un racconto di Murakami Haruki, Drive my car (cheha già vinto i Golden Globes come Miglior film straniero) vede un attore e regista di teatro che fatica a superare la perdita della moglie. Una giovane donna arriva a fargli da autista, e insieme macineranno chilometri e confidenze sulle loro vite, che si riveleranno diverse da come sembravano.

Come ci si sente con quattro nomination agli Oscar? «Sono un evento completamente inaspettato che mi ha sinceramente sorpreso. Non so come affrontare la situazione».

Come ci si sente con quattro nomination agli Oscar? «Sono un evento completamente inaspettato che mi ha sinceramente sorpreso. Non so come affrontare la situazione».

(continua…)

Intervista pubblicata su Vanity Fair 23 Marzo 2022

©Riproduzione riservata

Kristin Scott Thomas: «Resisto a tutto, tranne che alle sfide».

09 venerdì Feb 2018

Posted by cristianaallievi in cinema, Festival di Berlino, Personaggi, Teatro

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Cristiana Allievi, Donna Moderna, Gosford Park, Il paziente inglese, Kristin Scott Thomas, L'ora più buia, Sally Potter, The party, Wiston Churchill

DOPO QUATTRO ANNI DI LONTANANZA DAL SET, RECITA IN DUE FILM DI CARATTERE. IL CULT THE PARTY, GIRATO IN SOLI 15 GIORNI. E IL CANDIDATO ALL’OSCAR L’ORA PIU’ BUIA, IN CUI VESTE I PANNI DELLA MOGLIE DI WISTON CHURCHILL. UN RUOLO CHE ALL’INIZIO NON VOLEVA, TANTO CHE PER CONVINCERLA IL REGISTA HA RISCRITTO TUTTI I SUOI DIALOGHI

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L’attrice Kristin Scott Thomas, 57 anni (courtesy of The Sidney Morning Herald):

«Odio guardarmi sullo schermo. Vedo qualcuno che finge di essere qualcun altro, e non ci credo». Fa un certo effetto sentir pronunciare una frase così dissacrante da un’icona del cinema come lei. L’unica spiegazione a tanta audacia da parte dell’interprete di Gosford Park e Il paziente inglese viene forse dal suo Dna. Kristin Scott Thomas, 57 anni, nata in Cornovaglia ma trapiantata a Parigi dall’età di 19 anni, è la pronipote del capitano Scott, l’esploratore che ha perso la vita durante la competizione per raggiungere il Polo Sud. E suo padre, mancato quando aveva solo cinque anni, era un pilota della componente aerea della Marina Militare del Regno Unito. Non stupisce, quindi, che qualche tempo fa abbia dichiarato che non avrebbe mai più accettato ruoli da spalla: per convincerla a calarsi nei panni della moglie di Churchill, Joe Wright ha dovuto riscrivere tutti i suoi dialoghi. Non stupisce nemmeno la proverbiale riservatezza, se si pensa che dal divorzio dal marito François Olivennes nel 2008, un famoso medico francese con cui ha a vuto tre figli, non ha mai parlato di nuove relazioni sentimentali. E ad ascoltare cosa racconta di The party, film accettato dopo quattro anni di assenza dai set, risulta chiaro che le sfide sono l’unica cosa a cui non sa resistere. Questa è una pirotecnica girandola di incontri con un cast stellare, scritta e diretta da Sally Potter e nelle sale dall’8 febbraio.

In The party è una politica in carriera che organizza una cena fra amici. In pochi minuti la festa si trasformerà in un disastro, a causa delle dinamiche profonde che si scatenano fra i partecipanti. «Ero terrorizzata sapendo che avevamo solo una settimana di prove e due per girare, temevo che non mi sarei ricordata i dialoghi. È stata un’esperienza intensissima, in cui noi attori siamo costantemente esposti. Avevo deciso di smettere di recitare per il cinema e fare solo teatro, ma è stata l’esperienza più piacevole avuta su un set».

Merito della regista di Lezioni di tango? «È una delle poche donne a dirigire su questo pianeta, sa scrivere sceneggiature che sembrano scolpite e ti costringe a diventare il personaggio che crea per te».

Nel suo caso, una politica spudoratamente diretta. «Nella vita vera sono molto più idealista di Janet: sono nata e cresciuta a Redruth, lì anche se si pensano certe cose, non si dicono! È stato liberatorio calarmi in una donna piena di brutale verità, viviamo un momento storico di disintegrazione, è arrivata l’ora di fare qualcosa, di diventare più politici».

Cosa intende dire? «Mia madre Deborah (Hurlbatt, ndr) era una politica, conosco bene quella vita, è brutale, non perdona. Per me è triste vedere che abbiamo perso fede e rispetto per le persone che cercano di combattere per il bene comune, e credo sia successo da quando abbiamo perso Hilary Clinton».

Sua madre ha cambiato la sua attitudine verso la politica? «Lei agiva a livello locale, ma mentre era a New Orleans ha attraversato la tragedia Katrina. Io sono arrivata lì quattro giorni dopo, ho visto quanto bene può fare una persona in una città distrutta. Sono onorata di avere una madre che ha combattuto per cambiare, non a livello nazionale ma nei piccoli centri, quelli in cui si può ottenere o distruggere di più. E comunque spero ancora di vedere una donna alla Casa Bianca».

(…continua)

Intervista integrale pubblicata su Donna Moderna del 5 febbraio

© RIPRODUZIONE RISERVATA

La Macchina di Amleto di Bob Wilson festeggia i 60 anni di Spoleto

24 giovedì Ago 2017

Posted by cristianaallievi in Cultura, Miti, Personaggi, Teatro

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Accademia Silvio d'Amico, calcio brasiliano, Cultura, Festival dei Due Mondi, Garrincha, Hamletmachine, l'Italia migliore, La macchina di Amleto, Robert Wilson, Shakespeare, Teatro

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Il registra e drammaturgo Robert Wilson, anche scultore, pittore, video artista e designer di suono e luci  (courtesy of Slamp)

«Nel 1973 ho fatto la mia prima performance a Spoleto. All’epoca ero un artista completamente sconosciuto e Gian Carlo Menotti ha avuto il coraggio di presentare Una lettera per la regina Vittoria, un lavoro in cui ho avvicinato un testo “nonsense” di Christopher Knowles  a un nuovo tipo di musica, un quartetto d’archi con musiche di Loyd. Per questo motivo tenevo a celebrare in molto speciale l’anniversario dei 60 anni del festival da lui creato». A parlare è uno dei più importanti artisti contemporanei viventi, il regista texano Robert Wilson, che il 14 luglio al Festival dei Due Mondi porterà l’Hamletmachine di Heiner Müller, un testo con cui aveva debuttato 31 anni fa a New York, e che da allora non aveva più affrontato. «I tempi sono cambiati, io stesso lo sono, e le persone che andranno in scena. Ricordo che già tra la prima rappresentazione con gli studenti della New York University e quella successiva, con gli allievi di Amburgo, c’era stato uno scarto notevole. I tedeschi conoscevano Müller ed erano più vicini ai fatti della rivoluzione di Budapest, su cui è blandamente basata l’opera. Gli americani, invece, erano lontani da quello che Heiner pensava di quel periodo». 75 anni, cresciuto in una piccola cittadina del Texas dove non c’erano teatri, gallerie d’arte o musei, Wilson è noto per una concezione di teatro che include il movimento e la danza, la pittura e il design, ma anche scultura, musica e parole. Un eclettismo che lo ha visto creare sodalizi con artisti di ogni provenienza, da Philip Glass a Tom Waits, da Lou Reed a Susan Sontag. E da anni il suo cuore batte in modo speciale per Shakespeare. «Quando studiavo in Texas lo trovavo difficile da leggere, e quando mi sono trasferito a New York, a vent’anni, lo percepivo come noioso. Ma quando ho sentito John Gielgud a un reading, per la prima volta, all’improvviso, qualcosa è risuonato dentro di me». Tanto che a un certo punto della carriera, negli anni Novanta, ha voluto cimentarsi lui stesso con il drammaturgo inglese. «La più grande sfida è stata proprio Amleto, ho passato quattro anni e mezzo per memorizzare le parti di tutti i personaggi, da Gertrude a Ofelia, e per sette anni l’ho portato in giro come un monologo». Il suo Hamletmachine è diversissimo, qui Amleto è una specie di macchinae il regista lo spiega per connessioni. «Andy Warhol ha detto “dipingo in questo modo perché voglio essere una macchina”, e Heinrich von Kleist ha scritto Il teatro delle marionette, un testo straordinario in cui ha dichiarato “un bravo attore è come un orso, non si muove mai per primo, aspetta che sia tu a farlo…”». Fatto particolarmente degno di nota è che allo spettacolo del 14 luglio Wilson dirigerà il debutto di 15 attori ancora non diplomati dell’Accademia d’Arte drammatica Silvio d’Amico. «Di questi ragazzi mi ha molto colpito il fatto che guardassero al testo di Hamletmachine dal punto di vista filosofico e non storico. E come me all’epoca, si ritroveranno davanti a un’audience e a critici provenienti da tutto il mondo, sarà un’occasione unica per la loro carriera». Prima ancora del maestro, però, gli allievi della Silvio d’Amico devono ringraziare Salvatore Nastasi, vice segretario generale della Presidenza del Consiglio. 44 anni, laureato in Legge, ex direttore generale dello Spettacolo dal vivo e da quest’anno Presidente della Silvio D’Amico, l’idea di creare una compagnia di attori remunerati che poi porterà lo spettacolo per i teatri nazionali è stata sua. «Volevo che gli studenti avessero l’opportunità di mettere in pratica da subito e ad altissimo livello ciò che apprendono. Al Festival dei Due Mondi debutteranno anche due giovanissimi registi, Lorenzo Collalti, autore di Un ricordo d’inverno, e Mario Scandale, che dirigerà Arturo Cirillo in Notturno di donna con ospiti, di Annibale Ruccello». Il legame di Nastasi col teatro affonda le radici indietro nel tempo. «Direi che viene dai miei nonni, che si sono conosciuti al San Carlo di Napoli e di quel teatro mi hanno sempre parlato con gioia. Il destino ha voluto che conoscessi lì anche mia moglie Giulia (figlia di Giovanni Minoli, ndr), una coincidenza che trovo molto particolare».

Intanto a Spoleto si parlerà di nuovo di Wilson, che negli ultimi dieci anni è stato un appuntamento fisso. È già al lavoro con uno spettacolo (molto costoso) sul grande giocatore di calcio brasiliano Garrincha. «Con un folto gruppo di attori e una nutrita band di musicisti abbiamo letteralmente scritto le parole insieme. Improvvisiamo su tutto il fronte, dalla musica al lavoro di scena, un modo di procedere che sarebbe impensabile con i tedeschi con cui sto lavorando adesso». Perché ha scelto questo mito del dribbling? «Ero in Brasile ho scoperto lì questo eroe così noto di cui non sapevo nulla. Ho iniziato a conoscere la sua vita, tutto è inziato da lì».

Articolo pubblicato su D La repubblica del 15 luglio 2017

© Riproduzione riservata

Filippo Timi, un inferno di rose

21 venerdì Nov 2014

Posted by cristianaallievi in cinema, Teatro

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cinema, Cristiana Allievi, Don Giovanni, Fabio Zambernardi, Filippo Timi, Flair, L'uomo tigre, Panorama, Pinocchio, Teatro

“Un vibratore del lusso infiammato di paillette, come una superstar pronta a morire sul Sunset Boulevard”: secondo Filippo Timi che porta in scena un fantasmagorico “Don Giovanni” l’anima sta nel costume. Filippo Timi è uno dei protagonisti del nuovo numero di Flair in edicola con Panorama questa settimana

Filippo Timi interpreta il Don Giovanni

Filippo Timi interpreta il “suo” Don Giovanni

«Cercavo qualcosa di assoluto, non di storicamente corretto. Stavo guardando 2001: Odissea nello spazio, in particolare l’ultima sequenza, quella casa-stanza dal pavimento abbagliante mi è sembrata perfetta per esprimere un non-luogo, astratto ma in apparenza reale, concreto. Quindi ho utilizzato il colore bianco e il plexiglass, accanto a quinte dorate, per restituire la mia idea – filosofia e personaggi compresi – tra Barocco e Rococò».

Con questa scena “anti-sobria” si presenta Il Don Giovanni secondo Filippo Timi, il personaggio libertino di Molière e Mozart, che l’attore e regista perugino senza facili reverenze ha venato di humor nero, trasformandolo in un virus che contamina il pianeta. In una girandola di pelli color carne e nero, di tessuti carichi al limite dell’indossabilità, di cimeli e luci caravaggesche, i costumi firmati dal design director di Prada Fabio Zambernardi con lo stilista Lawrence Steele diventano gabbie esistenziali, mentre i dialoghi si spingono oltre la morale. Non solo: video da YouTube, con ginnaste olimpioniche e improbabili ballerine cinesi, servono a cambi di scena, quanto alla colonna sonora che passa da L’Uomo Tigre, indimenticato eroe nipponico dei cartoon, alla liberatoria Bohemian Rhapsody dei Queen.

Dopo il successo al teatro Franco Parenti di Milano che ha coprodotto lo spettacolo con lo Stabile dell’Umbria, presto Timi giocherà in casa. Dal 10 al 14 aprile sarà infatti a Perugia, al Teatro Morlacchi. Un incontro delicato. «È un passaggio cruciale, perché apro lo spettacolo con un video che ho girato a mia madre. Indossa una parrucca, è truccata, percorre il “Viale del Tramonto” proprio a casa mia… Non vedo l’ora di vedere la sua faccia quando si riconoscerà al Morlacchi, in formato 9 x10 metri! E poi c’è il fatto che nessuno è profeta in patria, anche se nel mio caso sia Amleto sia la versione di Giulietta e Romeo che ho proposto in umbro sono piaciute. Diciamo che le premesse sono buone».

Don Giovanni è una scelta estetica. Ma poi, centrifugando pop, Stanley Kubrick, You Tube, anni ’80 e la Sirenetta, la visione che ne risulta è eccentrica.

Guardi, è Don Giovanni che ha scelto me. Stavo preparando un lavoro sul male, su Satana e il Grand Guignol, e sono capitato su questa figura vampirizzante, fagocitante. È un mito attuale talmente forte da aver scalzato tutti gli altri, anche dentro in me.

“Un vibratore del lusso infiammato da un inferno di paillette, come una Superstar pronta a morire sul Sunset Boulevard”. Parole di Fabio Zambernardi che ha creato i fantasmagorici costumi. È una definizione impegnativa.

Un critico ha scritto che l’anima di Don Giovanni è il suo costume. Quando ho letto queste parole ho tralasciato le scenografie e mi sono focalizzato sugli abiti. Con Fabio non ci siamo dati limiti, anche perché l’anima della questione è andare oltre tutto, anche la morale, in un Settecento in cui c’è il trionfo dell’apparenza. Quindi l’estetica eccessiva proposta in scena si è fatta da sé: ha una precisa funzione, ogni elemento è importante perché esprime qualcosa che va oltre.

Dunque l’anima del personaggio vive nei suoi costumi. Un principio che vale anche nella vita reale?

La persona è qualcos’altro, di meglio e di peggio del personaggio, che resta comunque uno specchio dell’individuo, in un gioco di rimandi continuo. Nel mio caso ho scoperto che più sono specifico e concreto nell’interpretazione, più riesco a parlare a tutti.

Di solito con il Settecento viene in mente Maria Antonietta, l’oro, i minuetti. Il suo Don Giovanni preferisce invece L’Uomo Tigre.

Contaminare per me è un dovere. E poi avevo bisogno di stacchi netti nello spettacolo. Così ho ricavato dei video da quella miniera straordinaria che è You Tube: i video rompono con il tutto, quindi lo affermano. La scelta dell’Uomo Tigre come sigla? Nella mia immaginazione era scontato che Don Giovanni lo ascoltasse. Sarà preoccupante, ma è la verità.

Quali altre tessere vanno a formare il puzzle della sua estetica?

Jean Cocteau ma anche il film Che cosa sono le nuvole di Pasolini, un colpo al cuore. Come per me lo sono stati Otto e mezzo e La dolce vita di Fellini. Stanislavskij insegna che l’immagine è basilare, basta pensare allo Sean Penn di This Must Be the Place. È un concetto ampio, ma per essere veri a volte ci vuole una maschera, una sovrapposizione che ti rende più spudorato: solo travestendoti puoi spogliarti.

In scena lei indossa tacchi dorati e improbabili pellicce ricavate con le parrucche delle femmine sedotte.

Nel Settecento il machismo era diverso da quello di oggi, il Casanovadi Fellini è un attore pieno di pizzi rosa, trovo un salto interessante usare qualcosa per affermare il suo contrario. Per questo indosso quel meraviglioso cappotto fatto con 1500 rose, di una pesantezza che non si può immaginare. L’impossibilità dei materiali e la scomodità dei costumi corrispondono alla ricerca di un linguaggio del corpo più affascinante.

A parte portare in scena un Satana in uniforme delle SS rosa shocking, cos’è l’inferno per lei?

Direi che è la vita (pausa, ndr). Ma io non do agli inferi un’accezione negativa. Per me è fatto di attriti, anche vitali. Mentre il paradiso è fatto di momenti in cui tutto sembra andare a posto. E avere un senso.

“Vivere è un abuso, mai un diritto”, si afferma nello spettacolo.

È la citazione dal filosofo nichilista francese Albert Caraco. Io non concordo: sono un gioioso della vita.

Sul piano estetico, qual è la conseguenza di essere se stessi?

L’originalità, nel bene e nel male. Questo significa non essere uguali a nessun altro. Io non ho uno stile, fuori dalla scena, diciamo che sto comodo, vario. La fortuna è che non mi viene richiesto di mettermi una divisa sociale. E quando vado sul set la prima cosa che fanno è cambiarmi, quindi non conta ciò che indosso: nella vita mi vesto, per spogliarmi sul lavoro.

Succederà anche nel suo prossimo film, Come il vento di Marco Simon Puccioni?

Lì sarò un uomo che insegna teatro in carcere e devo dire che portare sul set i jeans anni ’80 è stata una vera svolta: indossandoli mi sono sentito subito mio padre.

L’apparenza, che torna a toccare corde profonde. Insegnamenti avuti dalla figura paterna?

L’uso dei cerotti. Faceva il cementista, tornava spesso a casa con le dita delle mani massacrate e per farci più attenzione ci metteva sopra lo scotch da elettricista. Io uso lo stesso procedimento.

Sempre a proposito di “mise” originali: è vero che porterà in teatro anche Pinocchio?

Sì, e tutto sarà di legno, e la fatina, al posto della bacchetta magica, avrà la sega elettrica. È un atto necessario, per trasformare un burattino in bambino bisogna farlo a pezzi.

Scenografia e costumi spettacolari per il Don Giovanni di Filippo Timi

Scenografia e costumi spettacolari per il Don Giovanni di Filippo Timi

Qui il mio articolo su Flair

© Riproduzione Riservata

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