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~ Interviste illuminanti

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Christoph Waltz, «Ci vuole resistenza»

22 giovedì Set 2022

Posted by cristianaallievi in arte, Attulità, cinema, Cultura, Miti, Mostra d'arte cinematografica di Venezia

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Bastardi senza gloria, Christoph Waltz, DEad for a dollar, Django Unchained, Inglorious Basterds, interviste illuminanti, Quentin Tarantino, successo, uomini, Vanity Fair

PER AVERE SUCCESSO LA PASSIONE NON BASTA. LUI LO DIMOSTRA DAI TEMPI IN CUI, CON TARANTINO, HA CONQUISTATO HOLLYWOOD E DUE OSCAR COME ATTORE NON PROTAGONISTA. ORA PERO’ HAIL RUOLO PRINCIPALE NEL NUOVO DEAD FOR A DOLLAR, E CI PARLA DI CONFINI E DELL’IMPORTANZA DI CERTE SINFONIE

L’attore e regista austriaco Christoph Waltz, due volte premio Oscar (courtesy Ausbury Movies)

di Cristiana Allievi

Con Hans Landa, il colonnello delle SS terrificante e colto di Bastardi senza gloria, e con il cacciatore di taglie King Schultz in Django Unchained, è passato quasi all’improvviso dall’oscurità all’eroismo, vincendo due Oscar. «I cattivi mi vengono bene per il mio aspetto e la mia fisionomia, a cui può aggiungere anche l’età e l’aura che emano», dice Christoph Waltz dopo aver chiesto l’autorizzazione a togliersi la giacca per restare in camicia azzurra, più consona al clima della laguna. La figura è sottile, quasi delicata. Tutta la sua forza emerge dagli occhi grigio chiaro, da cui non si sfugge tanto facilmente.

Nato a Vienna 65 anni fa da due scenografi tedeschi, ha avuto come nonno materno il noto psicologo Rudolf von Urban, che sembra avergli lasciato in eredità una visione chiara dell’ego e delle sue dinamiche: in un’epoca che spinge tutti a parlare di sé, lui non lo ha fatto nemmeno ai discorsi di ringraziamento per gli Oscar, preferendo citare solo le persone più importanti a cui deve il successo.

Ora Christoph Waltz ha una sfilza di film in uscita degna di un trentenne all’apice della carriera, e all’ultima Mostra di Venezia, dove l’abbiamo incontrato, è stato il magnifico protagonista di Dead for a Dollar, il nuovo western di Walter Hill prossimamente nelle sale.

È una storia di confini geografici e morali ambientata nel 1897 in cui interpreta Max Borlund, un cacciatore di taglie pagato da un ricco uomo d’affari per ritrovargli la moglie (Rachel Brosnahan), secondo lui rapita e portata in Messico da un disertore (Brandon Scott). Ma le cose non stanno così, e quando Max lo capisce, comincia a seguire la sua etica.

In tutti i film sul vecchio West, quando qualcuno non piace, finisce male, con una pallottola in corpo.
«C’era la legge, ma non veniva seguita in modo diligente perché mancavano le forze dell’ordine. La domanda che mi faccio ogni volta però è un’altra».

Quale?
«Come mai se passi un confine, che è una demarcazione arbitraria, le cose sono così diverse? Prendiamo il caso della sparatoria di massa accaduta lo scorso maggio a Buffalo. Il confine canadese è molto vicino, puoi quasi arrivarci a piedi. Perché, una volta che lo hai attraversato, non hai più questi fenomeni di violenza di massa, problemi con le armi e con il controllo delle armi? Intendo dire, hai solo i problemi normali, perché i pazzi sono ovunque».

Che risposta si è dato?
«Credo che la differenza stia nelle forze dell’ordine. L’America è un interessante fallimento di liberazione, si sono rivoltati contro il re, ma poi in un certo senso non hanno avuto un piano su cosa fare della situazione».

In Canada, in compenso, hanno sempre avuto la regina Elisabetta II, mancata pochi giorni fa.
«C’erano anche le montagne e la “polizia” locale ha anticipato l’espansione verso Ovest, elementi che hanno fatto una grande differenza. Tornando alla domanda, è un mito dei film farci credere che se non ti piaceva qualcuno potevi tranquillamente sparargli. Eri comunque un criminale, un assassino, e se eri fortunato venivi processato, altrimenti ti linciavano».

(continua…)

Intervista integrale pubblicata su Vanity Fair del 28 settembre 2022

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Samantha Morton, «Ho vinto io»

13 martedì Set 2022

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Caterina de Medici, Cristiana Allievi, Harvey Weinstein, interviste illuminanti, Minority Report, samantha Morton, She said, The New York Times, The serpent Queen, The Whale, Vanity Fair

UN’INFANZIA DRAMMATICA DI TRAUMI E ABBANDONO. LA CARRIERA CONQUISTATA LOTTANDO PER OGNI SPAZIO. HOLLYWOOD CHE LA CHIUDEVA FUORI. SAMANTHA MORTON HA LAVORATO DURO, E CE L’HA FATTA. OGGI SI È MESSA NEI PANNI DI UNA REGINA CHE LE SOMIGLIA MOLTO

di Cristiana Allievi

Quanti dolori può contenere una persona dentro di sé? E dove trova la misteriosa forza che la fa continuare a vivere, addirittura a diventare genitore? «Io ho molta fede, e la fede guarisce anche le ferite più profonde». In un rovente pomeriggio di agosto la risposta mi arriva forte e chiara da Samantha Morton,  mentre il giardiniere alle sue spalle inizia a tagliare l’erba. Per un verso una delle attrici e registe più significative del panorama indie contemporaneo, per un altro una sopravvissuta. Il perché è evidente. I suoi genitori si dividono fra abusi d’alcol e violenze varie quando lei ha solo tre anni.  Poco dopo, a causa dell’incuranza di entrambe, inizia il suo peregrinare tra affidi e orfanotrofi. E proprio nelle case in cui avrebbe dovuto trovare protezione, a 13 anni subisce abusi sessuali da parte di due responsabili. La disperazione, però, è una forza potente, e Samantha la usa per passare il test di ammissione alla Central Junior Television Workshop, organizzazione che forma i giovani per entrare nel mondo del teatro, della radio e del cinema.  Da lì cammina tanto da arrivare a lavorare con i migliori registi su piazza, come Steven Spielberg e Jim Sheridan, Woody Allen e David Cronenberg. Madre di tre figli avuti da due compagni diversi, è la donna perfetta per raccontare storie forti, come quelle in cui la vedremo nei prossimi giorni in anteprima mondiale alla Mostra del cinema di Venezia. The whale, il nuovo lavoro di Darren Aronofski, e She Said, di Maria Schrader, in cui veste i panni di Zelda Perkins, l’ex assistente di Harvey Weinstein. Prodotto da Brad Pitt, il film ha lo stesso titolo del libro delle due giornaliste del New York Times che hanno ricostruito e pubblicato la storia degli abusi sessuali del produttore cinematografico. Poi, dall’11 settembre, sarà nientemeno che la regina di Francia Caterina de Medici nella serie drammatica The serpent Queen (su STARZPLAY). «È riuscita ad avere un’enorme influenza politica per ben cinquant’anni», racconta a proposito della consorte di Enrico II, «e stiamo parlando del Seicento, un’epoca in cui le donne venivano bruciate come streghe, quando erano solo delle ostetriche».

Fino all’Ottocento l’italianissima Caterina è stata descritta come fredda, gelosa, vendicativa e avida di potere: lei che idea se n’è fatta? «Per me è una donna spirituale, una salvatrice che previene grandi disastri del tempo. Caterina vedeva molto lontano, è riuscita a quietare i conflitti fra cattolici e protestanti perchè aveva un modernissimo modo di permettere alle persone di seguire la propria fede. Chissà come sarebbe andata la storia se al potere non ci fosse stata lei».

Nella prima stagione scopriamo eventi della giovinezza e il percorso per arrivare a corte, poi cosa vedremo? «Da lì in avanti la storia si muoverà nella sua dimensione machiavellica. Si scoprirà come ha imparato a stare al gioco e a sopravvivere in famiglia, nel convento e infine a corte».

“Sopravvivenza” è una parola che le risuona? «Le racconto una storia. Molti anni fa ho chiesto al mio agente se potevo fare audizioni per i drammi in costume, ricordo che una regista donna in particolare mi rispose “non hai il sangue giusto, non sei l’animale giusto…”. Sono una persona comune,  vengo dalla classe operaria dal nord dell’Inghilterra e non da una buona famiglia».

(continua…)

Intervista integrale pubblicata su Vanity Fair del 14 settembre 2022

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Austin Butler, Love me tender

06 lunedì Giu 2022

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Austin Butler, Baz Luhrmann, Cannes 75, Disney, Elvis, Festival di Cannes, interviste illuminanti, Jim Jarmush, Leggenda del rock, Quentin Tarantino, Vanity Fair, Warner Bros

Interpretando Elvis Presley, AUSTIN BUTLER ha scoperto di avere molto in comune con lui: un dolore importante e l’ansia di piacere che divorava l’icona del rock

Intervista esclusiva di Cristiana Allievi

L’attore americano Austin Butler in una scena del film Elvis di Baz Luhrmann in cui interpreta varie sfaccettature dello showman più famoso del ventesimo secolo:  il ribelle delle origini, l’attore, l’uomo pop e quello family-friendly, fino  alla versione epica  degli anni Settanta (Courtesy © 2021 Warner Bros. Entertainment Inc.)

La voce è profonda e lievemente roca. Potrebbe sedurre, con quella voce,  invece la usa per consegnarmi un’importante chiave di lettura della sua vita. «Anch’io ho perso mia madre quando avevo solo 23 anni», mi racconta, e non a caso. Californiano, classe 1991, magnifici occhi azzurri, Austin Butler il suo viso non si è ancora fissato nella mente di tutti. Però dal 22 giugno in poi sarà impossibile dimenticarsi di lui, perché Baz Luhrmann lo ha scelto per interpretare il più grande showman del ventesimo secolo, Elvis Presley. Un salto vertiginoso per Austin, diventato famoso grazie alla serie tv della Disney Hannah Montana, a cui è seguito l’esordio al cinema con The faithful nei panni di un cane che si trasforma in uomo. Certo, lo hanno già voluto anche Tarantino e Jarmush (in C’era una volta… a Hollywood e I morti non muoiono), ma per ruoli minori. In Elvis, presentato Fuori Concorso alla 75esima edizione del Festival di Cannes,  lo vedremo protagonista assoluto, mentre ancheggia, canta e si dispera per due ore e 39 minuti, ripercorrendo la complicata relazione che il re del rock aveva con il manager, il “Colonello” Tom Parker interpretato da Tom Hanks. Nel biopic si celebra anche l’Italia, visto che nella colonna sonora ci sono anche  i Maneskin con la hit If I Can Dream.

Qual è stata la sua reazione quando le hanno proposto di diventare l’uomo di spettacolo più famoso del ventunesimo secolo? «Per due anni mi sono svegliato alle tre di notte con il cuore che andava a cento all’ora: mi sono chiesto come interpretare questa reazione, finché ho capito che si trattava di terrore puro».

Terrore di cosa? «Di non saper rendere giustizia a Elvis, davanti a tutti quelli che lo amano, partendo dalla  sua famiglia che volevo fosse orgogliosa di lui. Mi è capitato di avere grosse crisi di autostima,  ho dovuto attraversarle e superarle».

Come si supera, il “terrore puro”? «Pensando che se mi hanno dato un lavoro,  dovevo prendermene la responsabilità e confrontarmi con il mio disagio.  Indagando questo terrore ho scoperto che conteneva  anche energia! Così ho  iniziato a lavorare, quando mi svegliavo in piena notte, guardavo video e sentivo che il terrore svaniva. Sono riuscito a indirizzare la mia paura, scoprendo che anche Elvis ne aveva, e molta».

Che paura aveva Elvis?  «Quella di salire sul palco e di non piacere, è diventato chiaro girando la parte del grande Come back special del  1968,  dopo sette anni di assenza dal palco, un momento in cui tutto era un rischio: sapeva di voler dare meglio di sè».

Un po’ come lei in questo momento? «Se fallisci con il primo film da protagonista  è difficile rialzarti. Ho sentito un’enorme pressione, ma dovevo continuamente tornare sulle emozioni di Elvis, capire cosa faceva strillare il suo pubblico, cosa lo faceva impazzire».

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(continua…)

Intervista pubblicata su Vanity Fair dell’8 giugno 2022

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Tom Cruise – L’avventura, le sale e il seguito di Top Gun

19 giovedì Mag 2022

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Cannes 75, Cristiana Allievi, Eyes wide Shut, interviste illuminanti, l'ultimo samurai, Maverick, Tom Cruise, Top Gun, Vanity Fair

«Da bambino ho sempre fatto cose pericolose, scrivevo storie, mi arrampicavo sugli alberi». Incontro con la star al Festival di Cannes, dove ha presentato il sequel del film cult

di CRISTIANA ALLIEVI

19 MAGGIO 2022

(L’attore e produttore statunitense Tom Cruise, courtesy Reuters)

«A quattro anni e mezzo ho preso le lenzuola del mio letto, sono salito in cima al tetto e mi sono buttato usandole come paracadute. Ho preso una botta pazzesca in faccia e le lenzuola erano tutte sporche, immaginarsi la gioia di mia madre, con quattro figli… Ho sempre voluto fare le cose, era impossibile fermarmi». Un destino delineato, quello che emerge dalle parole della più grande star del cinema del mondo: Tom Cruise.

(continua…)

Articolo pubblicato su Vanity Fair Italia

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Drive to Oscar, Ryusuke Hamaguchi

22 martedì Mar 2022

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cinema giapponese, Cristiana Allievi, Drive my car, Hamaguchi, interviste illuminanti, Oscar, Oscar 2022, Vanity Fair

CON IL SUO ROAD MOVIE, IL REGISTA GIAPPONESE È CANDIDATO A QUATTRO STATUETTE. IN GARA ANCHE CONTRO PAOLO SORRENTINO

di Cristiana Allievi

Reika Kirishima e Hidetoshi in una scena di DRIVE MY CAR, candidato a 4 Oscar.

A un certo punto dell’intervista mi dice «dell’Italia conosco tre città, Milano, Bologna e Roma». Pronuncia i nomi con un accento impeccabile, e poco dopo scopro anche quanto sia legato al nostro cinema. Il nome di Ryusuke Hamaguchi per ora non è altrettanto noto agli italiani, ma le cose cambieranno quando (con buone probabilità) lo sceneggiatore e regista giapponese sfilerà l’Oscar per il Miglior film straniero al nostro Paolo Sorrentino. Il suo road movie dell’anima, Drive my car, è già stato premiato per la miglior sceneggiatura all’ultimo Festival di Cannes.  In comune con È stata la mano di Dio ha il tema, un trauma importante da superare, e una fotografia magnifica (ma dura ben 40 minuti in più). Sguardo intelligente e una statura intorno al metro e ottanta, finalmente lo incontro dopo averlo inseguito per giorni. in jeans e maglione blu, si scusa per essere in ritardo di tre minuti (netti) al nostro incontro. Mi ringrazia per l’interesse nei suoi confronti accennando a un inchino. Ma mentre i suoi arigato sono accompagnati da sguardi occhi negli occhi, quando la parola passa a me i suoi occhi si posano altrove. Il perché si capirà verso la fine dell’intervista. Tratto da un racconto di Murakami Haruki, Drive my car (cheha già vinto i Golden Globes come Miglior film straniero) vede un attore e regista di teatro che fatica a superare la perdita della moglie. Una giovane donna arriva a fargli da autista, e insieme macineranno chilometri e confidenze sulle loro vite, che si riveleranno diverse da come sembravano.

Come ci si sente con quattro nomination agli Oscar? «Sono un evento completamente inaspettato che mi ha sinceramente sorpreso. Non so come affrontare la situazione».

Come ci si sente con quattro nomination agli Oscar? «Sono un evento completamente inaspettato che mi ha sinceramente sorpreso. Non so come affrontare la situazione».

(continua…)

Intervista pubblicata su Vanity Fair 23 Marzo 2022

©Riproduzione riservata

Maggie Gyllenhaal, Pianeta Madre

18 venerdì Mar 2022

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Bim distribuzone, Cristiana Allievi, Elena FErrante, figli, interviste illuminanti, La figlia oscura, madri, Maggie Gyllenhaal, maternità, Vanity Fair

di Cristiana Allievi

L’attrice e regista Maggie Gyllenhaal su Vanity Fair.

Fa parte di una famiglia reale hollywoodiana, Maggie Gyllenhaal. Un vero e proprio clan di spiriti liberi che ha come capostipiti il padre Stephen, discendente di una famiglia aristocratica svedese, e la madre Naomi Foner, proveniente da una ricca famiglia ebrea newyorkese. Negli anni Settanta si sono trasferiti a Hollywood e sono diventati un riferimento, il pr9mo come come regista la seconda come sceneggiatrice. I loro due gemelli, Jake e Maggie, sono fra i più stimati attori in circolazione. Il marito di Maggie è l’attore statunitense Peter Sarsgaard, ed Emma Thompson e Jamie Lee Curtis sono amiche di famiglia. Rispetto al passato, Maggie è più rilassata davanti a una giornalista. Naviga fra i meandri sottili della psiche con una certa dimestichezza, mentre la conversazione prende una piega non casuale. Mi racconta come i bambini sviluppino una visione ambivalente della propria madre. Da una parte c’è quella buona, che nutre, consola e si prende cura, dall’altra c’è la versione “cattiva”, che non risponde quando la si chiama, è frustrata e vive in un suo mondo. In poche frasi, ecco spiegata l’attrazione per la Leda del suo primo film da regista, La figlia Oscura, adattamento del romanzo di Elena Ferrante al cinema dal 7 aprile. Ha già vinto una sfilza di premi, a partire da quello per la miglior sceneggiatura alla Mostra di Venezia, e con grande probabilità si aggiudicherà l’Oscar per lo stesso motivo. «Leda non è nè una madre mostruosa né una santa, è una figura ambivalente», racconta descrivendo la protagonista, una professoressa di  letteratura italiana a Cambridge che si trova in vacanza in Grecia da sola. Osservando una giovane mamma (Dakota Johnson) con la figlia in spiaggia, inizia il suo viaggio fra i ricordi che la farà confrontare con le angosce e la confusione degli inizi della sua stessa maternità.

Cosa l’ha colpita del libro di Elena Ferrante? «A essere sincera non è stato solo La figlia oscura a colpirmi, ma tutto quello che Ferrante ha scritto. Dalle sue parole emerge un’esperienza, una domanda su cosa significhi essere una donna nel mondo, una madre che è allo stesso tempo un essere sessuale, emotivo e intellettuale. Si esprime con parole senza precedenti, disturbanti e allo stesso tempo confortanti, perché leggendole capisci che qualcun altro ha vissuto l’ansia e il terrore che hai vissuto tu».

In un certo senso, Ferrante ci dice che tutto quello che le donne desiderano a livello sessuale, professionale ed esistenziale è molto più di quanto non sia stato permesso loro anche solo di sperare. «È esattamente quello che penso, e il mio modo di mostrarlo è stato incollare la macchina da presa ai corpi di Olivia Colman e Dakota Johnson».

(continua…)

Intervista integrale pubblicata su Vanity Fair n. 12, 23 marzo 2022

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Sophie Marceau, Il tempo delle scelte

14 venerdì Gen 2022

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È andato tutto bene, eutanasia, Francois Ozon, Il tempo delle mele, interviste illuminanti, Sophie Marceau, Vanity Fair

NEGLI ANNI OTTANTA CI HA CONQUISTATI CON IL PRIMO BACIO. ORA AL CINEMA SOPHIE MARCEAU CI FA RIFLETTERE SULL’EUTANASIA. MA IL TEMPO NON L’HA CAMBIATA (O FORSE L’HA MIGLIORATA)

di Cristiana Allievi

L’attrice e produttrice Sophie Marceau come l’avevamo conosciuta nel film cult degli anni Ottanta, Il tempo delle mele. Si racconta nell’intervista uscita su Vanity Fair il 5 gennaio 2022.

Si avvicina con passo deciso. Quando me la ritrovo davanti fatico a credere che abbia 55 anni: ne dimostra dieci di meno. Avvolta in un tailleur color panna,  l’attrice che negli anni Ottanta era l’idolo delle ragazzine grazie a Il tempo delle mele, accavalla le gambe in un modo che riesce solo alle dive francesi. Tra i suoi fan più appassionati c’è persino il regista Francois Ozon, che è riuscito ad averla in un suo film al terzo  tentativo.  La vedremo dal 13 gennaio in È andato tutto bene, adattamento del bellissimo libro di Emmanuèle Bernheim (Einaudi) in cui l’autrice condivide una parte di storia personale vissuta con suo padre. In Concorso all’ultimo festival di Cannes, il film vede Marceau interpretare la figlia di un uomo pieno di carisma e di successo, che però è stato un pessimo genitore. E dopo aver scoperto di essere malato,  le gioca un ultimo colpo basso chiedendole di aiutarlo a morire.

Francois Ozon l’ha inseguita per anni. «In realtà prima di questo progetto ci eravamo incontrati di persona solo altre due volte. Non ho mai accettato di recitare per lui perché non mi sentivo a mio agio nei ruoli che mi proponeva. Ma amo i suoi film dal primo che ha diretto (Sitcom, la famiglia è simpatica, del 1998, ndr). Quando mi ha mandato la sceneggiatura di È andato tutto bene mi ha colpita la nettezza, quel non perdersi nelle emozioni.  Abbiamo girato per due mesi, e anche se da attrice non sai mai quale sarà l’esito del tuo lavoro la collaborazione con Francois è stata perfetta».

Avete discusso di eutanasia, prima di girare questo film? «Certo, è importante sapere come la pensa un regista perché si possono vedere le cose molto diversamente.  Ho provato ad approcciare il tema dal lato psicologico, visto il tema. Ma lui mi rispondeva “si ok, che cosa stavamo facendo?”. Ozon è un uomo che vede e capisce tutto, ma è di poche parole». 

Però la ama: ha addirittura inserito nel suo lavoro precedente la scena de Il tempo delle mele in cui Pierre Cosso le mette le cuffiette del walkman… «Non lo ha fatto per me, semplicemente perché era innamorato dell’epoca incarnata dal film. È stata la nostalgia di quando eravamo giovani a ispirarlo, sappiamo tutti di cosa si tratta».

Oggi come vede Il tempo delle mele? «È stato un film super, grazie al quale abbiamo poi viaggiato in giro per il mondo. Non è stato solo turismo, in realtà ricordo molte stanze d’albergo. Però ho incontrato tante persone diverse, dal Giappone all’Italia, con cui discutere di un argomento universale: il primo bacio».

Anche in questo caso il tema è universale, se vogliamo… «Quello era il primo bacio, questa è la prima morte. Diciamo che è stato meno leggero da girare (ride, ndr)».

Che tipo di emozioni ha portato a galla, la morte? «Uno tsunami di emozioni, dalla risata alla disperazione. La perdita di una persona cara cambia gli equilibri delle vite di chi resta».

(continua…)

Intervista integrale pubblicata su Vanity Fair del 17/12/2021

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Cecile De France, «L’illusione del corsetto»

30 giovedì Dic 2021

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Cecile de France, Cristiana Allievi, donne, emancipazione, Honore Balzac, Illusioni perdute, Vanity Fair, Xavier Giannoli

Stringersi nei panni di una donna dell’Ottocento, soffrire per i lacci sociali, tirare un sospiro di sollievo per i tempi che cambiano: CÉCILE DE FRANCE e la bellezza dell’emancipazione

di CRISTIANA ALLIEVI

Cecile de France, 46 anni, è l’attrice belga più richiesta del cinema.

Mettiamola così: non è un caso che abbia appena finito le riprese di un film in cui vive in Bretagna e fa la pescatrice. I suoi occhi corrono veloci lungo il perimetro delle pareti della stanza in cui ci incontriamo. Dopo un’attenta analisi mi dice che l’orto che coltiva con i suoi figli è grande più o meno uguale: cinquanta metri quadri. E Lino e Joy, avuti con il marito Guillaume Siron, cantante e compositore del gruppo Starbilux, non vogliono più mangiare nemmeno un pomodoro uscito da un supermercato. Poi Cecile de France, 46 anni, passa ai racconti che ti aspetteresti dall’attrice belga più desiderata dal cinema internazionale, anche italiano (vedere alla voce Paolo Sorrentino, che l’ha volute nella serie The young pope). «Arrivavo da un piccolo villaggio, mi sono ritrovata in una scuola statale di Parigi, da sola, e la cosa non mi è piaciuta per niente», ricorda. Poi due frasi riassumono gli anni della sua educazione, «portavo i capelli rosso fuoco» e «facevo la ragazza alla pari per mantenermi». È dotata di una grinta che l’ha sempre spinta ad andare avanti, anche dopo che Clint Eastwood l’ha scelta per il suo Hereafter regalandole una fama di proporzione internazionale. All’ultima Mostra di Venezia è stata la nobile protagonista di Illusioni perdute, di Xavier Giannoli, adattamento di un romanzo di Honoré de Balzac, al cinema dal 30 dicembre in tutta la penisola. «Louise è una nobile che ama e protegge un giovane e promettente scrittore, e all’inizio mi ha molto confusa»,  racconta. «Perché sulle pagine di La Commedia umana, un vero e proprio classico dell’Ottocento era cinica, non aveva né cuore nè anima ed era quindi molto difficile da amare. Ma il regista l’ha trasformata, per il film l’ha resa sentimentale, drammatica, piena di passione e di sensualità. Molto più interessante da interpretare».

Però Louise è molto diversa dalle figure di donne indipendenti e libere a cui ci aveva abituati fino a qui. «È il contrario. Louise dipende da tutti, prima dal marito, poi dal giudice e soprattutto dalle regole sociali che non tollerano che una nobile ami un giovane di origini umili. Ma possiamo comprenderla, rinuncia all’amore solo per motivi di sopravvivere».

Come fa ad azzerare tutto e a pensare con la testa di una donna di duecento anni fa? «Mi lascio portare dall’abito. Il corsetto non fa respirare, infatti le donne dell’epoca non respiravano.  E questo le fa ragionare di conseguenza».

Indossare il corsetto tutti i giorni le ha anche ricordato il percorso di emancipazione fatto fino a oggi? «Penso spesso a chi si è battuta per noi, a quanto dobbiamo ai sacrifici di vere e proprie eroine. Ma non è ancora finita, tutt’ora esistono ancora paesi in cui i padri scelgono i mariti per le loro figlie».

(continua…)

Intervista integrale pubblicata su Vanity Fair del 22 Dicembre 2021

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Vicky Krieps, «Il mio posto».

10 venerdì Dic 2021

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cinema, Il filo nascosto, interviste illuminanti, Mia Hansen-Love, Sull'isola di Bergman, Vanity Fair, Vicky Krieps

PER LE DONNE IL TEMPO DEGLI SFORZI E DELLE GIUSTIFICAZIONI È FINITO: DEVONI PRENDERSI IL LORO SPAZIO PROPRIO COME FANNO GLI UOMINI, DICE VICKY KRIEPS. LEI LO HA FATTO, E ODPO UN PERIODO DI CRISI TORNA AL CINEMA, PASSANDO DALL?ISOLA DI UN GRANDE MAESTRO SVEDESE

di Crisitiana Allievi

L’attrice lussemburghese Vicky Krieps, 38 anni, protagonista di Sull’Isola di Bergman (foto courtesy Mubi).

Tiene le braccia incrociate, mani all’insù e gomiti appoggiati sul ventre, per un lungo lasso di tempo. È una presenza  calma e rassicurante, apaprentemente  in contrasto con quel lato punk che, quando aveva 20 anni, l’ha portata in Africa a fare volontariato per evadere da un puntino sulla carta geografica chiamato Lussemburgo. «È il paese più piccolo che ci si possa immaginare, una specie di fiaba, lì nessuna persona è più importante di un’altra…», dice senza inflessioni nella voce, dando lo stesso peso a ogni parola. Madre tedesca e padre a capo di una casa di distribuzione cinematografica, racconta di essere cresciuta in mezzo ai boschi, parlando con gli alberi. E così ti spieghi perché dopo il clamore suscitato da Il filo nascosto di Paul Thomas Anderson invece di cedere alle lusinghe hollywoodiane sia ritornata in Europa, rinunciando a offerte di lavoro importanti. Le ci sono voluti due anni a riprendersi da quella che definisce un’esperienza traumatizzante: una costante esposizione allo sguardo pubblico e una campagna mediatica per gli Oscar in cui le veniva ripetuto che con la stampa si lasciava andare a troppe opinioni personali.  È fuggita, cercando di ritrovare un po’ di pace. Il 2021 è stato l’anno del grande ritorno, soprattutto per il film della regista francese Mia Hanson-Love, Sull’isola di Bergman, uno dei due titoli che l’hanno vista protagonista all’ultimo Festival di Cannes. Nei cinema italiani dal 7 dicembre,  con Tim Roth come altro protagonista, racconta la storia di una coppia di registi che cerca ispirazione fra le pieghe della propria relazione, in un gioco di realtà e finzione, ma anche di creatività e competizione, sull’isola di Faro, nel Baltico, dove il cineasta svedese a cui si riferisce il titolo ha girato alcuni dei suoi capolavori e ha vissuto l’ultima parte della vita. «Sono legata a Mia da un ricordo importante», dice a proposito della regista. L’ho vista da spettatrice, prima che lei vedesse me. Recitava in Fin aout, debut septembre. Ricordo che alla fine della proiezione dissi ai miei amici cinefili “è la prima volta che rintraccio una direzione, che vedo la messinscena dietro il film”. Fu un’esperienza molto forte, ero ancora una ragazzina».

Poi è cresciuta, e le è arrivata la proposta per questo film. «È stata molto dura per me accettare quella proposta. Uscivo da un successo frastornante e da un momento affatto facile da attraversare».

Ci spiega perchè? «Ero diventata un’attrice che alcune persone conoscevano, e prima non era così. Mi sembrava di non poter tornare a casa, da dove venivo, perché qualcosa era cambiato dentro di me. Il punto è che non mi vedevo a fare le valigie e andare a vivere in California. Ero davvero persa. Quando mi ha cercata Mia avevo appena programmato una vacanza con i miei due figli, e mi sono trovata nel conflitto, fra vita privata e lavoro».

Guarda il caso, la regista le offre la storia di una donna che si emancipa e si prende la libertà di trarre ispirazione creativa da ciò che le piace e la circonda.  In Sull’isola di Bergman il mondo è ancora dominato dagli uomini, e il femminile cerca uno spazio proprio… «Ci augureremmo di non doverne nemmeno parlare in questi termini, ma non possiamo ignorare il tema a cui allude, perché non è superato. Fino a poco tempo fa non c’erano nemmeno registe donne, e anche se la situazione sta cambiando dobbiamo continuare a ricordarcelo».

(continua…)

Intervista integrale pubblicata su Vanity Fair del 15 dicembre 2021

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Non chiudete gli occhi sull’aborto

05 venerdì Nov 2021

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aborto, Ana Vartolomei, Audrey Diwan, Cristiana Allievi, interviste illuminanti, L'Evenement, La scelta di Anne, Texas, Usa, Vanity Fair

Storia di una giovane francese che negli anni ’60 ricorre all’aborto clandestino, L’Événement non è «soltanto» un film, ma un’esperienza che mette alla prova lo spettatore anche fisicamente. Lo raccontano la regista e l’attrice protagonista

di Cristiana Allievi

La regista e giornalista Audrey Diwan con il Leone d’Oro alla Mostra di Venezia nel 2021, vinto con La scelta di Anne- L’Evenement.

«Stavo attraversando un momento difficile quando un’amica mi ha consigliato di leggere L’evento. Raccontava il viaggio infernale di una brillante studentessa francese della classe proletaria che nel 1964, alla vigilia di esami scolastici che determineranno il suo futuro, rimane incinta. Decide di abortire. Una scelta drammatica, un’esperienza clandestina che quasi la uccide». È stata la storia della scrittrice Annie Ernaux, oggi 81enne, a segnare la vita di Audrey Diwan, che ha trasformato quel racconto nel suo secondo lungometraggio, La scelta di Anne- L’evenement, Leone d’Oro all’ultima Mostra di Venezia. Un film ambientato in Francia undici anni prima che la legge Veil legalizzasse l’interruzione di gravidanza entro le prime dieci settimane dal concepimento.

Guai a dire alla Diwan che ha adattato quel libro perché la storia la riguardava da vicino. La regista sceglie con attenzione le parole con cui raccontarsi. «Ho abortito anch’io, ma la mia esperienza è stata molto diversa da quella della Ernaux. Non ho dovuto torturarmi con un ago, non ho mai rischiato di morire per proteggere i miei desideri, ho avuto la legge dalla mia e il comfort dell’assistenza medica.

(... continua)

Intervista integrale a regista e attrice pubblicata su Vanity Fair n. 45

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