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Cristiana Allievi

~ Interviste illuminanti

Cristiana Allievi

Archivi tag: Luc Besson

Natalie Portman: «La perfezione non esiste»

18 venerdì Nov 2016

Posted by cristianaallievi in cinema, Festival di Berlino, Mostra d'arte cinematografica di Venezia

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Tag

Benjamin Millepied, Christian Bale, Eating animals, Jackie, Luc Besson, Natalie Portman, Planetarium, Safran Foer, Terrence Malick, The knight of cups, Weightless

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L’attrice israeliana naturalizzata statunitense Natalie Portman, 35 anni. 

«Avevo 19 anni e stavo recitando in Il gabbiano di Chekhov, al Delacorte Theatre in Central Park. Dopo la premiere sono uscite le prime critiche e ho fatto l’errore di leggerle. Sono andata in panico, ero quasi isterica. Mi sono precipitata nel camerino di Phil Semyour Hoffman, che era nel cast, urlando“non posso farcela, sono totalmente paralizzata!”. Lui, con una calma assoluta, mi ha detto: “Tutti quelli che sono sul palco con te, da Meryl Streep a Christopher Walken, a me, hanno fatto un sacco di casini quando erano alla scuola di teatro. Abbiamo sbagliato mentre non ci guardava nessuno, tu lo stai facendo là fuori, è normale avere paura!”. Mi stava autorizzando a sbagliare, e i quel momento ho capito che se un attore della sua portata, il migliore di tutti, è inciampato, allora potevo sbagliare anch’io». Il fatto che a pronunciare queste parole sia una delle attrici più pacate che ci siano in circolazione ha dell’incredibile. Indossa un abito Valentino Red color crema con disegni di pappagallini, e mi dice che oggi non commette più l’errore di leggere quello che scrivono di lei. L’incarnato del viso è perfetto, come ci si aspetta dal volto di Dior Parfums. Natalie Portman mi ha sempre dato l’idea di essere la prima della classe. A 13 anni era già sul set di Leon, e Luc Besson l’ha catapultata nel mondo del cinema che era una bambina. Ma a 18 anni, nonostante fosse già un’attrice sulla rampa di lancio, è tornata all’Università a studiare Psicologia. Cose che capitano, nelle famiglie borghesi, e Natalie è nata a Gerusalemme dal medico Avner Hershlag, ebreo di origine polacca, e da Shelley Stevens, casalinga di origini americane che poi è diventata la sua agente. Non bastasse, negli anni ha studiato giapponese, francese, tedesco e arabo, lingue che si aggiungono a quelle materne, l’ebraico e l’inglese. Insomma, se si pensa che ha anche sposato l’ex direttore del balletto dell’Opera di Parigi, Benjamin Millepied, e che è diventata produttrice e regista, sembra il ritratto della perfezione. Quando le elenco tutti i motivi per cui sarebbe facile etichettarla come “secchiona”, con l’aggravante di aver anche vinto il premio più ambito da un attore, l’Oscar, grazie a Il cigno nero, mi fa capire che mi sbaglio: «Quello è un falso idolo, e bisogna stare attenti a credere troppo alle statuette d’oro… ll consiglio che darei per avere successo? Non temere di fare casini! Non siamo sergenti, nessuno morirà per un nostro errore, la peggior cosa che può succedere a un attore è impegnarsi in qualcosa che non funziona: sbaglia quanto vuoi, va benissimo. Ancora meglio se accetti le conseguenze». Ora è al cinema con Knight of cups di Terrence Malick, e nel 2017 la vedremo in almeno tre film: Jackie, del regista cileno Pablo Larrain, presentato all’ultima Mostra d’arte cinematografica di Venezia, e sono in molti a scommettere che nei panni della moglie di Kennedy vincerà il secondo Oscar. Poi verrà Planetarium, della regista francese Rebecca Zlotowski quindi Annihilation, di Alex Garland. E nei panni di produttrice promuoverà il il documentario Eating animals, dalle memorie di Jonathan Safran Foer.

Lavorare con Terrence Malick dev’essere molto affascinante, si è ispirata a lui per diventare regista? «Ho preso molto da Terrence, soprattutto il suo abbracciare le cose difficili del percorso. Se piove di solito i set si fermano, mentre con lui si gira con la pioggia. C’è vento? Lui riprende il vento… Il mondo ha bisogno dei suoi film, pieni di bellezza, spirito ed energia positiva».

L’ha voluta anche per il suo Weightless, in cui si trova al centro di un triangolo amoroso con Christian Bale e Michael Fassbender. «Il mio personaggio è molto diverso dal precedente, sarò bionda. Ma non le dirò di più, il rischio che si corre quando si gira con Terrence è di non ritrovarsi nemmeno in una scena del film».

Con A tale of love and darkness ha esordito alla regia. Essere sceneggiatrice, attrice e dirigere un film l’ha cambiata? «È stata una sfida enorme, trovare persone che credono in te, recitare in ebraico, scrivere una sceneggiatura che rispetti la realtà delle cose ed essere madre allo stesso tempo… Coinvolgerti in una cosa tutta tua, e per lungo tempo, da una soddisfazione enorme, ti prendi i meriti e le critiche. Da attore lavori per qualche settimana e poi ti presenti alla premiere un anno dopo. E se il film non va bene, è sempre colpa del regista».

 Com’è arrivata a impegnarsi in un film dalla storia particolare come Planetarium? «Conosco Rebecca da una decina d’anni, la make up artist dei suoi film, Saraï Fiszel, è un’amica comune che vive a Los Angeles. Mi ha chiamata per dirmi che voleva interpretassi un’americana trasferitasi in Francia, era proprio il periodo in cui ero andata a vivere a Parigi con mio marito».

Nel film lei ha il dono di parlare con i fantasmi e insieme a sua sorella vi esibite in giro per la Francia, finché un produttore non vi lancia nel mondo del cinema. Cosa ha a che fare tutto questo con lei? «L’idea di collegare lo spiritismo al cinema mi affascina molto. Il desiderio di “catturare” i morti, da una parte, e il fatto che tra cento anni si vedranno film che trasmettono ancora qualcosa nonostante gli attori siano defunti, è una nuova prospettiva sul cinema a cui non avevo mai pensato».

Con chi cercherebbe di mettersi in contatto, del suo passato? «Mi affascinerebbe sapere qualcosa di alcuni membri della mia famiglia di varie generazioni fa, di cui non so nulla».

Si dice che abbia coinvolto lei Lily Rose Depp nel film. «Rebecca faticava a trovare una brava attrice che parlasse francese e inglese e che potesse sembrare mia sorella, Lily Rose mi somiglia molto. È più matura per la sua età, mentre io sono molto immatura per la mia, ci incontriamo a metà strada (ride, ndr)».

Questo film e Jackie non sono diretti da hollywoodiani. «Li ho girati mentre vivevo a Parigi e mi interessava lavorare con registi con cui non avrei potuto collaborare negli Usa, perché appartengono a una tipologia che non pensa a un attore americano per i propri film. Pablo e Rebecca sono stati un dono per me».

L’anno scorso mi ha detto “vivendo in Europa mi sono accorta di quanto abbiamo perso noi americani senza accorgercene. A Parigi c’è una libreria ogni tre passi, a Los Angeles ce ne saranno due in tutta la città…”. Oggi  che è tornata a vivere in Usa con la sua famiglia, cosa dice? «In Europa ho imparato molto di me stessa, ho capito quanto sono americana (ride, ndr). Voglio sempre che le persone siano a loro agio, che stiano bene e siano felici, a Parigi non sorridono molto. Amo Los Angeles, è un posto incredibile e al momento è una specie di luogo dei sogni. Siamo circondati da arte, musica e alberi!».

A proposito di positività, lei è di nuovo in dolce attesa: oggi pensa che per una donna sia fondamentale essere madre, per sentirsi totalmente appagata? «Le persone sono diverse, c’è chi si sente davvero realizzato con i figli e chi senza. Questa ossessione dei media sulla maternità è assurda, soprattutto se si tratta di attrici. Per me un figlio è stata una svolta meravigliosa, mi ha cambiato la vita, ma sono sicura che altre donne possano sentirsi realizzate anche senza».

 

Storia di copertina pubblicata su F del 23 novembre 2016

© RIPRODUZIONE RISERVATA

 

Cara Delevingne: «Ragazze, imparate a dire no».

24 mercoledì Ago 2016

Posted by cristianaallievi in Moda & cinema

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Anna Karenina, Annie Clark, Cara Delevingne, Cristiana Allievi, David Ayer, Faudel-Phillips, Karl Lagerfeld, Luc Besson, St. VIncent, Suicide Squad, Tom Ford, Tulip fever

 

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L’attrice e modella Cara Delevingne, 24 anni (courtesy of Grazia Italia).

“Chi sono io? Chi sto cercando di essere? Non me stessa, chiunque ma non me stessa…”. Parole che colpiscono, quelle di Cara Delevingne, specie se affiancate a dichiarazioni altrettanto forti, come l’ammissione di aver sofferto di depressione e di aver voluto diventare modella per cercare una scappatoia a questa gabbia. Ma facciamo un passo indietro. A 17 anni questa londinese cresciuta nel quartiere di Belgravia abbandona la scuola e firma un contratto con la Storm Management, e di colpo è catapultata nel mondo delle campagne pubblicitarie. Tutti la vogliono, da Burberry a Victoria’s Secret, da Mango a Fendi a sua maestà Karl Lagerfeld, che le fa aprire la sfilata di Chanel a Parigi. Non bastasse, Tom Ford la mette nuda tra le orchidee per il suo profumo, Black Orchid. Riceve due volte il titolo di modella dell’anno ai British fashion Awards, Forbes la indica come la seconda modella più pagata al mondo (a pari merito con la Lima), con nove milioni di dollari l’anno. Ma questo non cambia il suo stato interiore, finchè l’anno scorso annuncia al Time di volersi ritirare dalle passerelle, a soli 23 anni, per dedicarsi alla recitazione. Motivazione ufficiale, un tale stress che le ha probabilmente provocato la psoriasi. Quelle di cui sopra sono le parole che ha usato per descrivere il proprio stato d’animo dal microfono di Women in the World Summit, davanti a un Rupert Everett maestro di cerimonie. Non un caso, forse, che abbia condiviso proprio con lui una confessione a cuore aperto. Se Everett è un discendente della famiglia degli Stuart, infatti, Cara proviene da parte di madre dai baroni Faudel-Phillips; e come Rupert, Cara ha fatto outing l’anno scorso, raccontando a tutto il mondo di essere innamorata della musicista Usa Anna Clark, nota come St. Vincent. Alta, magra, con quelle sopracciglia importanti che sono un marchio di fabbrica, è cresciuta in una famiglia privilegiata ma tutt’altro che perfetta. La madre, Pandora, sta scrivendo un libro di memorie sulla sua dipendenza dall’eroina, e per madrina ha Joan Collins, mentre il padre è un uomo di successo nel campo immobiliare. Cara suona la batteria e canta, e il cinema è sempre stato il suo vero amore, ma per essere credibile in una nuova veste ha dovuto lottare, e parecchio. L’abbiamo vista in Anna Karenina di Joe Wright accanto a Keira Kniegtly, in London Fields con Johnny Depp e Amber Heard. E in Tulip fever condivideva il set nientemeno che con Judi Dench e Christoph Waltz. E considerato che in Suicide Squad sarà insieme a Jared Leto e Will Smith, nelle sale dal 18 agosto, possiamo affermare con cognizione di causa che Cara è una di quelle modelle a cui la transizione ad attrice è riuscita per davvero, come a Charlize Theron. O come ha detto un celebre critico di Variety, a giudicare dal suo lavoro, Cara è una arrivata sulla scena per restarci, considerato anche che il suo prossimo ruolo è nella science-fiction di Luc Besson, Valerian. Intanto possiamo godercela in Suicide Squad, il cui racconto si basa sui personaggi della DC Comics. Nel film lei è l’Incantatrice e fa parte di una banda di super cattivi a cui viene fornito il più nutrito arsenale immaginabile dal governo, il tutto per sconfiggere un’entità sconosciuta. Quando scopriranno il vero motivo per cui sono stati scelti si troveranno a dover decidere se combattere ancora insieme o se fare ognuno per sé.

L’Incantatrice è un antico essere malvagio che si risveglia nell’esploratrice June Moone dopo un lungo periodo di prigionia. Come si è preparata a questo ruolo? «Sono una donna cattiva e contorta che fa saltare in aria i corpi, e li fa a pezzi… Mi ci sono preparata immaginando silenziosamente modi per uccidere i miei amici (ride, ndr), a quanto pare funziona!».

Lei sarà una strega. «Il mio personaggio è fuori dal mondo, o almeno da questo mondo. Ma la genialità di David Ayer (che ha scritto e diretto il film, ndr) è stata rendere tutto molto radicato e reale, ha voluto che incarnassi una persona potente, quasi prepotente, di cui sfugge sempre un pezzo. Si scoprirà che si tratta di una donna ferita e molto vulnerabile, ed è questo aspetto che la rende umana e con cui tutti potranno relazionarsi».

 Non è facile avere bei ruoli al cinema, specie agli inizi, come ha reagito quando David Ayer l’ha scelta? «L’ho incontrato due anni fa e mi ha solo dato la sua visione generale del personaggio, attraverso immagini che aveva trovato in rete. Tutto il progetto era segretissimo, ha scatenato la mia immaginazione, dal momento in cui mi ha parlato dell’Incantatrice e del mondo etereo di cui fa parte ho detto subito di sì. Più avanti ci siamo parlati ancora al telefono, mi ha chiesto pareri sulla salute mentale, un argomento che mi interessa molto».

Lei ha sorpreso molte persone, l’anno scorso, annunciando di abbandonare le passerelle… «Eppure quello di fare la modella non è mai stato il mio sogno, a quattro anni volevo già recitare, ho sempre preferito essere un’altra, sin da bambina. C’è stato un momento della mia vita in cui ho letteralmente vissuto attraverso la macchina fotografica, e il problema è che quello è un mondo in cui vieni usata: ti spremono come un limone, poi ti buttano via per la prossima che arriva. Quel lavoro stava uccidendo la mia anima, ho iniziato a farlo per sfuggire alla depressione di cui ho sofferto sin da ragazzina».

Lo stress le ha causato una forte psoriasi, ha dichiarato anche di essere arrivata a odiare il suo corpo, e a sperare che qualcuno arrivasse da fuori a fermarla, perché lei non ci riusciva… «È stata Kate Moss a farlo. Sapendo a che pressione siamo sottoposte, vivendo sempre per soddisfare le aspettative altrui, mi ha consigliato di rallentare. Così mi sono dedicata allo yoga e al rilassamento, mi sono ricaricata per il passo successivo: fare quello che volevo davvero della mia vita».

Ci sono attrici che arrivano dal mondo della moda che si lamentano dei ruoli che vengono offerti loro come attrici, poco credibili. «Anche a me hanno chiesto di interpretare la modella svedese o inglese, che muore sempre, o la ragazza scema, come in American Pie 27, con scene di sesso gratuite. Non sa quante volte sono andata in crisi declinando ruoli, perché tutto quello che volevo fare era recitare… Ma ho capito che la mia dignità era più importante anche di questo».

Qual è la cosa che oggi trova più sfidante di questo lavoro? «Imparare a tenere fuori dal set le distrazioni della mia vita. Ed essere innamorata aiuta, quando lo sei stai con quella persona come se nella stanza non ci fosse nessun altro. Recitare è un po’ lo stesso, quando guardi in faccia un altro attore non deve esistere nient’altro».

Il suo primo ruolo è stato in Anna Karenina, quattro anni fa: come lo ricorda? «Ho passato ore tra trucco e capelli, per girare una grande scena, ero così nervosa… Poi è arrivato il regista e mi ha detto “Smettila di fare la modella, e smettila di cercare di sembrare bella!”. È successo qualcosa dentro di me».

Ha superato la paura di essere incasellata e poco credibile? «La gente può incasellarmi in qualsiasi modo, come modella e com quello che vuole. Ma se semplicemente vado avanti e faccio le cose al meglio, cosa che spero succeda, so di poter dimostrare di valere molto».

Suicide Squad è uno di quei film che si girano in gruppo, com’è andata con i colleghi? «Abbiamo avuto un mese di prove, prima di girare. È stato molto divertente perché fuori dal set ci scatenavamo come bambini. È ovvio che noi non siamo i personaggi che interpretiamo, ma in qualche modo incontrandoci ci trasformavamo in ragazzacci pestiferi. Ha presente quando a scuola ci si sedeva in fondo al pullman, a cantare a squarciagola? Eravamo così. Ma una volta sul set la situazione cambiava al volo, volevamo tutti rendere al meglio quando arrivava David».

 

Ha una scena preferita? «Direi quando ho incontrato me stessa la prima volta, nell’essenza, ovvero quando June incontra per la prima volta l’Incantatrice.  Ho recitato le due parti in due giorni diversi, proprio per costruire il momento in cui i due personaggi arrivano a incontrarsi vis a vis».

Nel film ha un look straordinario, ha collaborato con la costume designer Kate Hawley nel costruirlo? «Il dipartimento che si è occupato di trucco e costumi era così straordinario che sarei stata ridicola a pensare di dare un contributo! Da parte mia ho sentito che creare il personaggio, e giocare sulla sua fisicità e l’accento, era abbastanza».

Prima parlava di essere innamorata, è stata coraggiosa quando ha dichiarato di essere legata alla musicista Annie Clark, nota ai fans come St. Vincent… «A un certo punto è meglio rivelarsi per chi si è davvero, e la mia sessualità non una fase passeggera, come qualcuno pensa».

Il prossimo anno ha vari film in uscita, ma davvero non la vedremo più in passerella? «Farò ancora la modella, ma in modo molto selettivo. Adoro dire di no, e finora non lo avevo fatto. Questo mi ha rubato molta salute e felicità, e non riaccadrà mai più».

Ha quattro milioni di follower su Twitter e 20 su Instagram: cosa consiglia alle ragazze che vogliono fare le modelle? «Perché non sognare alla grande, per esempio di diventare delle politiche di successo? Scherzi a parte, il mio consiglio è: qualsiasi cosa vogliate fare, state bene con voi stesse, perché con voi stesse ci dovrete stare un bel po’ di tempo».

Articolo uscito sul n. 33 di Grazia

© Riproduzione riservata

 

 

 

 

MILLA JOVOVICH: «DOVE TROVO LA MIA FORZA»

05 venerdì Giu 2015

Posted by cristianaallievi in cinema

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Dashiel, Ever Gabo, Gisele Bundchen, Il quinto elemento, Luc Besson, Milla Jovovich, Paul Anderson, Pierce Brosnan, Resident Evil, Richard Avedon, Survivor

Da poche settimane, è diventata mamma per la seconda volta, il 1° aprile è nata Dashiel Edon. E Milla Jovovich sprizza gioia da tutti i pori. Incontro la top model di origini ucraine, 39 anni, per parlare di Survivor, il thriller contemporaneo, ora al cinema. Sono preparata a trovarmi davanti una diva dei film d’azione e invece mi spiazza offrendomi il lato più intimo. Tra una domanda e l’altra si parla di poppate e di uomini, mentre cerca di domare la primogenita, Ever Gabo, 7 anni, che è rimasta a casa da scuola e pretende attenzioni, e la nuova arrivata dorme beata nell’altra stanza. Il papà è Paul Anderson, 50, il regista inglese della saga Resident Evil che ha fatto di Milla un’icona. Prima di lui, Jovovich aveva sposato il francese Luc Besson, che l’aveva scelta per Il quinto elemento, e prima ancora c’era stato un matrimonio lampo con l’attore americano Shawn Andrews.

L'attrice, modella e cantance ucraina Mila Jovovich, 39 anni

L’attrice, modella e cantance ucraina Mila Jovovich, 39 anni (courtesy of celluloidportraits.com)

È mamma da meno di due mesi. Come sta? «Benissimo. Dashiel è una meraviglia e, soprattutto, mi lascia dormire. Per questo non sembro uno zombie come sette anni fa, quando è nata sua sorella Ever Gabo».

Ha postato le immagini della sua gravidanza su Instagram e Dashiel è apparsa appena nata: non ha paura di esporsi?
«Quello che amo dei social media è che posso scegliere che cosa mostrare. Quando è nata Ever Gabo avevo i paparazzi addosso tutto il giorno, era tutto troppo invasivo. Così stavolta ho giocato d’anticipo, perché è impossibile fare il mio lavoro e avere il totale controllo della privacy».

Sui social media si è definita “una fabbrica di latte”. Non è troppo?
«Voglio allattare mia figlia e sì, sono orgogliosa di essere una latteria. Non so come sia da voi,
 in Italia, ma qui negli Stati Uniti l’allattamento al seno viene scoraggiato. Non so e non voglio sapere quali siano le motivazioni. Certo, in America è normale tornare al lavoro subito dopo il parto. Basterebbe lasciarci il tempo di stare con i nostri piccoli, invece di chiederci di rientrare dopo una settimana, no?».

Non tutte le madri possono permetterselo, soprattutto di questi tempi.
«Riconosco di essere molto fortunata».

Con la sua prima figlia era stato diverso? «Dopo un mese ero già sul set. Sono riuscita ad allattarla per tre mesi, poi ho conservato il latte per il quarto. Con Dashiel non farò così».

Quando pensa di riprendere a lavorare nel mondo della moda?  
«Quest’anno mi sono presa la prima pausa della mia vita. Me la merito. Non mi pentirei di questa pausa di riflessione nemmeno se al rientro non mi dessero più un lavoro».

La sua collega brasiliana Gisele Bündchen, 34 anni, ha appena lasciato le passerelle, dicendo che è stato il corpo a chiederglielo.
«Fa bene, potendolo fare. Ha iniziato a sfilare giovanissima, ha lavorato tantissimo».

Anche lei non scherza. Ha posato per le prime copertine, fotografata da Richard Avedon, quando aveva 11 anni.
«La modella è solo una delle cose che ho fatto in vita mia. E se è rimasto un interesse nei miei confronti anche dopo i 30 anni, età in cui chi vive di passerelle ha smesso di lavorare da un pezzo, lo devo all’aver differenziato le mie attività. Ma non creda che sia stato facile».

Perché?
«Negli Anni 80 in molti non hanno accettato il fatto che fossi modella, cantante, attrice. Però ce l’ho fatta. Sono stata capace di provare a tutti di essere all’altezza. Sì, sono sempre stata molto determinata, mettevo me stessa al primo posto».

(Ever Gabo ci distrae: vuole guardare la tv, ma mamma Milla non le dà il permesso. Cerca di convincerla a leggere un libro di favole con la tata).

Ora che è diventata madre mette ancora se stessa al primo posto? Non ci credo.  
«Essere mamma è la cosa più importante che mi sia capitata. Mi sta rendendo felice come niente altro. Ora sì che c’è qualcosa che ha la priorità. Penso sia questa la vera felicità e non la puoi sperimentare finché tutto gira solo intorno a te»
(Ever Gabo rientra dal giardino, vorrebbe a giocare con della terra sul letto dei genitori. Milla la invita a non salire sui cuscini con i piedi nudi, perché «poi la mamma si deve sdraiare»).

In Survivor è lei la protagonista. Siamo sempre abituati a vedere gli uomini nei ruoli importanti dei film d’azione, lei è un’eccezione.
«Non avevo mai avuto modo di interpretare una donna forte e contemporanea. Kate Abbott, il mio personaggio, è un’impiegata del dipartimento di Stato americano che deve sventare un attacco terroristico pianificato a New York per la notte di Capodanno. È una sofisticata, di successo, e non lascia che altre persone interferiscano nella sua vita».
Possiamo dire che ha rubato la scena a Pierce Brosnan, che in Survivor è uno spietato serial killer. Come ha preso il fatto di non essere il protagonista, lui che è lo 007 più famoso dopo Sean Connery?
«È uno degli uomini più adorabili che abbia mai incontrato, molto alla mano. Quando abbiamo girato a Londra, come camerino ci hanno dato da dividere un ufficio vuoto in una chiesa. Lui non ha fatto una piega. Anzi, il meglio l’ha dato quando sono arrivati mio marito, i suoi cugini, i fratelli con figli, sua madre: sono inglesi e sono venuti tutti a trovarci, approfittando del fatto che fossimo a Londra».

La Jovovich con il marito, il regista Paul Anderson. Insieme hanno due figlie (courtesy of wonkoo.com)

La Jovovich con il marito, il regista Paul Anderson. Insieme hanno due figlie (courtesy of wonkoo.com)

Un’intera tribù di fan all’attacco?
«Esatto. Confesso, ero molto preoccupata. Quando lo hanno visto, sono andati in fibrillazione: avevano davanti Brosnan, il supereroe inglese. Pierce a quel punto avrebbe potuto sparire in un’altra stanza, invece che cos’ha fatto? Ha iniziato a scattare foto a tutti, a rispondere alle loro domande. È davvero un uomo fantastico, tratta le persone in un modo unico, le fa sentire meravigliose. E ha un grande rispetto per le donne».

Lei ha dichiarato: «Gli uomini che ho avuto, hanno amato il mio spirito indipendente, erano orgogliosi del mio successo al punto da diventare gelosi del tempo che dedicavo alla mia carriera». Con suo marito Paul è così?
«È un vero supporto, ama la mia forza e il mio successo non lo ha mai fatto sentire insicuro. Se siamo a una prima e tutti urlano “Milla, Milla” non fa una piega, anche se il regista è lui. Del resto non posso andare in giro a dire: “Su, guardate mio marito, non me”. La gente diventa matta per gli attori, non è una cosa personale e Paul lo sa. È un uomo dotato di un infinito senso pratico».

Voi due condividete il lavoro. È questo il segreto?
«Di sicuro ci siamo aiutati a vicenda ad avere successo ed è bello lavorare insieme alla costruzione di un progetto. Non mi riferisco solo alla carriera, al conto in banca o alla casa, ma alle due splendide bambine frutto del nostro amore. Qualche giorno fa, per la festa della mamma, Paul mi ha detto: “Grazie di avermi regalato queste meraviglie”. Ever Gabo e Dashiel Edon hanno cambiato il nostro sguardo sulla vita. Mi fanno accettare il fatto di non essere più la giovane pollastrella che ero».

E adesso? 

«Vita in famiglia 24 ore su 24. Poi a luglio partiremo tutti per il Sudafrica, dove resteremo fino a Natale per le riprese del sesto capitolo di Resident Evil, quello che chiuderà la saga. Ho uno sguardo più ampio sul mio domani, c’è la carriera, ma non si tratta più, come prima, di girare un film dopo l’altro. Oggi vedo una logica in ciò che faccio e questo mi rende molto felice».

Che cos’altro le dà gioia?
«Mia madre vive a pochi isolati da qui, mio padre sta a Newport Beach e tutti i weekend viene a vedere le bambine. Da figlia unica, sono così contenta che le mie figlie abbiano tante persone intorno, una vera tribù di cugini, zii, nonni. Sanno di avere un posto preciso nel mondo. E sono sicura che così cresceranno con un senso di sicurezza maggiore».

Su Grazia del 22 maggio 2015

© Riproduzione riservata

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