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Cristiana Allievi

~ Interviste illuminanti

Cristiana Allievi

Archivi Mensili: luglio 2016

Oliver Stone: «Soltanto la verità».

10 domenica Lug 2016

Posted by cristianaallievi in cinema, Cultura, Festival di Taormina

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Cia, Cristiana Allievi, Donald Trump, Hilary Clinton, Igor Lopatonok, JFK, Kennedy, Kiev, Louis Stone, Nato, Oliver Stone, ONG, Platoon, Salvador, Snowden, The Untold History of United States, Ucraina, Ukraine on fire, Vladimir Putin, Wall Street

Dal nuovo documentario Ukraine on fire, prodotto e appena presentato in anteprima mondiale in Italia, al prossimo film Snowden, sullo scandalo del Datagate, il regista e produttore tre volte premio Oscar prosegue la sua missione: indagare i fatti. E mostrare, ancora una volta, il volto più controverso dell’America

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Oliver Stone, regista attore e produttore Usa (courtesy youwoncannes.com)

«Non ha idea di quanto sia stato doloroso essere coinvolto in questo film. In passato ho girato documentari sul Sudamerica e conosco bene gli attacchi che ci si trova a subire, in questo caso sono stati violenti. Trovo inconcepibile dover essere accusati per difendere fatti che è importante che vengano conosciuti. Le opinioni possono essere discusse, ma i fatti devono essere presentati, e finora nessuno lo ha fatto come noi». Non a caso si è meritato il titolo di “coscienza dell’America”. Salvador, Platoon, Wall Street, JFK: nessun regista come Oliver Stone ha messo in dubbio il mito degli Usa come ha fatto lui. E pensare che quelli citati sono film mentre quando è davvero arrabbiato- parole sue- lavora a un documentario. L’ultima volta che si è cimentato sul tema è stato con il monumentale Untold History of United States, 12 ore di immagini che smontano 70 anni di storia ufficiale americana alle voci Seconda Guerra mondiale e Guerra fredda. 69 anni, tre Oscar, tre figli e tre matrimoni all’attivo, questo regista, sceneggiatore, produttore e attore non pare abbassare la guardia. È appena stato in Italia come produttore esecutivo di Ukraine on fire, presentato in anteprima mondiale al 62° TaorminaFilmFest, in cui appare nientemeno che come intervistatore del presidente russo Vladimir Putin e dell’ex presidente ucraino Viktor Yanukovich. Stone ha vigilato sul regista Igor Lopatonok, ucraino trasferitosi negli Usa dal 2008, che ha voluto raccontare le complicate vicende di una terra di confine da sempre contesa tra Occidente ed Oriente. La ricostuzione è dal 1941 al 2014 e mostra quanto abbiano pesato i movimenti nazionalisti e la politica estera americana sulla rivoluzione in Ucraina, con particolare attenzione ai fatti di febbraio 2014 conosciuti come Euromaidan. Il regista di Platoon dà un altro colpo all’immagine del sistema-Usa prima di uscire nel suo paese (e in varie nazioni europee) con l’attesissimo Snowden. Il film racconta le vicende dell’informatico dipendente dell’Agenzia per la sicurezza nazionale che ha passato migliaia di documenti classificati alla stampa. Storia con cui, come rivela Stone stesso, è pronto a scommettere che sorprenderà i suoi spettatori.

Cosa l’ha spinta a produrre Ukraine on fire? «Il desiderio di esprimere una visione della crisi ucraina diversa da quella che propongono i corporate media, sembra che in Occidente la voce dell’Ucraia orientale non sia ascoltata. Ho incontrato molte difficoltà, lo ammetto, anche a causa dell’inglese di Igor e di molti ucraini con cui ho collaborato, persino riconoscere i vari nomi è stato complicato, a un orecchio occidentale sembrano tutti simili. Forse anche per questo in Occidente tendiamo ad accettare la visione che ci viene presentata».

Siete partiti da prima della rivoluzione arancione mostrando quanto corrotti siano sempre stati i governi ucraini e soprattutto cosa c’è dietro le manifestazioni a Kiev: i movimenti nazionalisti che nella seconda Guerra mondiale hanno affiancato i nazisti nelle stragi di ebrei e polacchi, supportati dalla Cia. Secondo voi dietro la crisi dell’Ucraina c’è una seconda guerra fredda per cui si rischia un conflitto mondiale. «L’anno scorso Winter on fire: Ukraine’s Fight for Freedom di Evgeny Afineevsky, è stato a un passo da vincere l’Oscar. L’ho visto perché sono membro dell’Academy e sono rimasto molto colpito in senso negativo. Raccontava solo la protesta in piazza Maidan e sembrava che tante persone pacifiche avessero voluto di loro spontanea volontà dar vita a una manifestazione che è sconfinata in violenza senza controllo. Afineevsky non contestualizzava i fatti, non diceva che alla polizia era stato ordinato di non sparare, non menzionava l’escalation di violenza, con i manifestanti che hanno attaccato gli edifici governativi. Nel massacro metà erano poliziotti e metà manifestanti e l’esame balistico ha dimostrato che i proiettili che li hanno colpiti erano gli stessi: vuol dire che a uccidere le persone sono stati i cecchini della destra nazionalista, nascosti tra i manifestanti. Fosse stato un mio film avrei insistito di più su questa parte».

Perché i fatti di Kiev sono al centro delle sue attenzioni? «Hanno portato a sanzioni, all’embargo, a conseguenze dure per l’economia. Molti paesi europei dopo l’abbattimento del jet della Malesya Airways hanno cambiato posizione verso la Russia, le conseguenze geopolitiche di questo fatto saranno molto pesanti. E ovunque andrà nel mondo, persino a Okinawa, ci sarà il governo americano coinvolto negli incidenti: ma negli Usa si parla solo dell’aggressione russa».

Che impressione la ha fatto Vladimir Putin, intervistandolo? «Mi ha colpito per la calma, non è un emotivo. Sembra un uomo che prende il suo lavoro molto seriamente, è preparato, non era lì per giocare con la macchina da presa o diventare tuo amico. Non ha avuto bisogno di un testo scritto per rispondere alle domande, la conversazione con lui è stata articolata e complessa».

Cosa pensa delle associazioni non governative Usa che operano in Europa, nord Africa e Oriente? «A volte fanno un ottimo lavoro, altre non sono mosse da fini nobili. Si parla di soft power degli Stati Uniti, è un po’ ovunque. Lei si immagina se una ONG messicana cominciasse a sostenere delle associazioni non governative nei movimenti di rivolta negli Usa, finanziandole, perché non condivide i trattati commerciali, o la politica estera degli Usa? Nel mio paese non durerebbe molto».

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Stone al Teatro Antico di Taormina, tra il regista di Ukraine on fire, Igor Lopatonok, e Tiziana Rocca.

Molti uomini, alla sua età, si rilassano o si chiudono in se stessi. Lei è più combattivo che mai. «Capisco che il tempo acquista sempre più valore, e se mi butto in un progetto devo metterci passione. Devo crederci, devo sentire che mi aiuterà a crescere».

Nel suo sito si legge un motto, “O nasci matto o nasci noioso…”. Oggi cosa considera noioso, se si guarda intorno? «Mettiamola così, i miei film non sembrano noiosi di solito, giusto? Ecco, la maggior parte di quello che vedo mi annoia a morte».

Dal suo punto di vista, se guarda indietro, qual è stata la spinta che l’ha portata a fare esperienze estreme e a buttarsi in progetti controversi? «La spinta è sempre stata conoscere me stesso, e cercare la verità, che continua a cambiare mentre cresciamo. Ho un profondo desiderio di comprendere il tempo e il luogo in cui mi trovo. Quando avevo 20 anni c’era un sacco di tensione e di insicurezza in me, mi ha spinto a fare molte cose, ha ispirato tutta la mia vita. Credo anche che il mio desiderio di migliorare non mi abbia ancora lasciato. E forse ogni regista sente un’insicurezza di base, nei confronti della vita».

È vero che dietro tutti i suoi film c’è suo padre Louis? «Sono nato a New York, nel centro del mondo, quindi in una posizione molto privilegiata, e mio padre era un repubblicano conservatore, supportava Eisenhower e odiava Roosvelt, a quei tempi lo odiavano in molti perché ha imposto molte regole alla borsa e ha fatto pagare tasse su tasse».

Cosa le hanno insegnato dell’America? «Ho imparato la storia ortodossa, quella secondo cui siamo eccezionali e facciamo cose buone nel mondo. Secondo questa regola la vittoria della Seconda guerra Mondiale con la bomba atomica era una necessità, così come il Vietnam, infatti dopo il college mi sono arruolato. Al mio ritorno dalla Guerra non sono cambiato subito. Innanzitutto durante il Vietnam sono successe molte cose nel mio paese, e dopo la guerra e i bombardamenti hanno iniziato a venire alla luce fatti nuovi, sul Watergate, sulla Cia e anche su molti comportamenti di politica estera che negli anni Settanta non erano di dominio pubblico. Fatti che Kennedy sapeva, ma non gli americani. Queste rivelazioni sono state molto importanti per la nostra storia, non a caso dal 1980 in avanti l’America è stata sempre più conservatrice e ha nascosto sempre più fatti al mondo: hanno mentito così tanto che conoscere la verità per gli americani era difficilissimo».

Ha votato Obama due volte, cosa ne pensa oggi? «Non ha riformato le ingiustizie, aveva promesso di cambiare la politica estera di Bush, parlava di trasparenza, voleva smettere con le intercettazioni illegali. Non ha fatto niente di tutto questo».

Come vede i due candidati, Trump e la Clinton? Cosa cambierebbe di politica estera, se vincesse uno piuttosto dell’altro? «Chiunque vinca le elezioni non cambierà niente in politica estera, nei panni di Presidente. Gli Stati uniti sono un sistema ben consolidato, purtroppo i candidati possono cambiare ben poco di questo grande sistema. Però conoscete la posizione di Obama su questo punto, e Hilary è ancora più radicale in fatto di politica estera. Sicuramente Obama si comporta così perché ha informazioni più approfondite di noi, ma non credo ci saranno grandi cambiamenti».

Il 16 settembre negli Usa uscirà Snowden, sullo scandalo del Datagate. «Mi piace ancora fare film, questo l’ho scritto e diretto, ci ho messo tre anni a realizzarlo e ne sono orgoglioso. Per molti Edward Snowden è un’astrazione, quasi una figura mitologica, di cui si conoscono solo stupidaggini. Ho voluto mostrare il vero uomo, spiegare chi era per far capire cosa è successo. E sono sicuro che sarete sorpresi da alcune delle cose che scoprirete su di lui».

Articolo pubblicato da D La repubblica il 9 luglio 2016

© Riproduzione riservata

 

Katherine Kelly Lang: «Beautiful? È più faticoso di una gara di Triathlon».

08 venerdì Lug 2016

Posted by cristianaallievi in cinema, Festival di Taormina

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Beach Boys, Beautiful, Cristiana Allievi, Diabolika, Dominique Zoida, Happy Days, kaftani, Kailua-Kona, Katherine Kelly Lang, Ron Moss, triathlon

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Katherine Kelly Lang, 54 anni, attrice e business woman.

«La mia ultima competizione? 120 chilometri di bici, 4 di nuoto e 42 di corsa, per un totale di 15 ore a fila!». Sentirla raccontare la Kailua- Kona, la più grande gara di thriatlon al mondo, ha del surreale. Un po’ per la notizia in sé, e poi perchè anche se mi sforzo di pensare che sto parlando con Katherine Kelly Lang, anni 54, attrice, i miei occhi continuano a vedere davanti a me la Brooke di Beautiful. Del resto è il personaggio a cui da vita da 30 anni, e che incarna tutti giorni, naturale che le resti cucito addosso. Mi riceve nella stanza con giardino fronte mare dell’hotel di lusso che la ospita, in un look così naturale da smentire quanto appena detto: in infradito e kaftano, Katherine non ha un filo di trucco. A pochi metri da noi c’è il suo amore, Dominique Zoida, che si riposa su un’amaca in attesa che gli restituisca la sua fidanzata. È venuta in Italia a ricevere il riconoscimento “città di Taormina” all’interno della 62° edizione del TaorminaFilmFest prodotto da Tiziana Rocca.

Considerato che è nata in California, patria di sportivi, non dovrei stupirmi delle sue imprese…  «Sono nata e cresciuta a Los Angeles, con un padre che è andato alle Olimpiadi per il salto con gli sci e una madre olimpionica di nuoto. Ho imparato tutti gli sport immaginabili ma mi sono innamorata dei cavalli e per 20 anni ho fatto gare di cross country, con corse anche di 100 chilometri».

Oggi invece è diventata un’atleta di thriatlon. «Arrivo da una gara a Pescara! La differenza è che nel thriatlon uso solo il mio corpo, ma il tipo di allenamento è lo stesso di prima. Occorrono un’ottima preparazione di base, sangue freddo, concentrazione, prontezza di riflessi, capacità di reazione agli imprevisti».

Dove tira fuori la determinazione per simili sforzi? «Sono cresciuta tra atleti, ho sempre avuto quel tipo di spinta. E poi mi piace stare molto in forma, essere sana, forte».

A consacrarla sono stati i Beach Boys, che l’hanno immortalata in molti dei loro video. «Ero sempre in spiaggia, mi prendevano per fare surf nei video. Il mio primo film è stato a 17 anni, ero la fidanzata di Patrick Swayze, poi negli Ottanta ho fatto tante ospitate nelle serie tv, persino in Happy days».

Finchè non è arrivata la chiamata di Beautiful. «Quando ho iniziato sapevo che i coniugi Bell, che lo hanno inventato e prodotto, sono dei maestri. Ma nessuno avrebbe pensato che sarebbe diventato un fenomeno mondiale».

Celebri volti della soap non ci sono più, lei è ancora qui, 30 anni dopo. «Ho firmato il primo contratto per quattro anni, per me era già una specie di “per sempre”. Quando sono scaduti i termini ho detto, “va bene, firmo per altri tre anni…”, e a furia di ripeterlo eccomi qui (ride, ndr). Nel frattempo mi sono sposata, ho avuto dei bambini, era un lavoro che si conciliava anche con la vita privata».

Tabella di marcia? «Si registra da lunedì a venerdì, per tre settimane su quattro, da sempre! Il venerdì ricevo la sceneggiatura della settimana successiva ma legge solo quella del giorno dopo, per non farmi idee. Poi ci sono i “blocchi di ferie” per ogni attore, sono i momenti in cui riesci a fare altro nella vita (ride, ndr)».

Cosa pensa di Brooke? «Mi fa molto arrabbiare, vorrei che evolvesse. Era bravissiama a scuola, è diventata una chimica, ha inventato un tessuto per i Forrester ed è diventata una business woman. Poi con la sua ossessione per Ridge si è persa, è diventata inutile. Chiedo spesso agli sceneggiatori quando tornerà a essere una donna forte, ma per questioni di praticità preferiscono che i personaggi restino su un certo binario…».

Ha mai avuto problemi con le persone, a causa di Brooke? «Mi guardano da anni, dai loro salotti, in tutto il mondo, e pensano che io sia quella persona. Ma io non sono come Brooke, sono una donna normale! Per fortuna Instagram e Twitter mi hanno salvata: lì posso mostrare chi sono veramente e cosa faccio davvero nella vita».

È ancora amica di Ron Moss, alias Ridge? «Molto, ma quando ci vediamo non parliamo di Beautiful! Ron è felice e si dedica alla sua musica».

Nella vita vera lei ha due divorzi alle spalle e tre figli. E soprattutto ha un fidanzato molto più giovane di lei, in famiglia questo è un aspetto problematico? «Mi sento più libera di fare le mie scelte davanti ai miei figli, ora che sono cresciuti, a parte il terzo, che è ancora in casa con noi. Il fatto che abbia un compagno come Dominique (direttore marketing della rete televisiva CBS, ndr) non è un problema per loro, vedono che mi vuole molto bene e sono felici per me».

Ha amato essere madre? «Moltissimo, e mi manca non avere più figli piccoli. Sono anni bellissimi, in cui tutto è così fresco e vedi le cose attraverso i loro occhi… Ora sono più grandi e si chiedono cosa vogliono fare per il resto della loro vita, anche questo momento è interessante».

Le chiedono consigli? «Vogliono incoraggiamento, che partecipi alla loro vita. Quando si trovano in una situazione negativa cerco di indicare loro la parte migliore: “ok, come può aiutarti questa situazione?”. I due più grandi vivono a Los Angeles da soli, ma non sono lontani da casa nostra».

 Si risposerebbe? «Direi di no, io e il mio compagno veniamo entrambe da divorzi e concordiamo sul fatto che non ci serve un altro matrimonio. Ma siamo praticamente inseparabili, viaggiamo insieme anche per lavoro. Da quattro anni ho una società con una designer australiana, creiamo kaftani, e Dom ci cura la parte di home shopping.

 

Perché ha scelto kaftani? «Li indosso da quando sono ragazzina, ho sempre avuto uno stile bohemienne anni ‘70, adoro quei tessuti svolazzanti dai colori intensi. Poi è un prodotto facile da ordinare, a livello di taglie. Il grosso lavoro è la creazione, dipingiamo le sete e poi facciamo le stampe digitali, abbiamo sempre pezzi nuovi. Recitare mi piace molto ed è è la mia occupazione principale, ma ho bisogno di fare altro».

La soap, che ha ritmi serrati, le permette di fare anche cinema? «Giriamo da lunedì a venerdì per tre settimane su quattro, ma riesco a fare anche cinema. Ho appena terminato Diabolika, in Puglia, che uscirà presto in Italia. Io recito la parte della strega, ho occhi molto scuri e mi copro i capelli con un grande foulard. Sono orgogliosa di aver disegnato un kaftano apposta per la mia parte: è nero con disegni tribali».

Articolo pubblicato su Donna Moderna del 12 luglio 2016

© Riproduzione riservata

 

 

Julianne Moore: «Perchè chiedere ai maschi di scrivere film sulle donne?».

05 martedì Lug 2016

Posted by cristianaallievi in cinema, Festival di Berlino

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Bart Freundlich, Berlinale, Cristiana Allievi, Difficult people, Ethan Hawke, Greta Gerwig, Il piano di Maggie, Julianne Moore, Oscar, Planned Parenthood, Rebecca Miller, Still Alice

 

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L’attrice Julianne Moore, 55 anni (courtesy of LA Times)

«Gli esseri umani cercano di imporre una certa struttura sulle cose, che in realtà sono caos puro. Creiamo ordini per cercare di spiegarci i fatti della vita, la realtà è che non li conosciamo e non sappiamo come vanno…». Sembra una frase della sociologa di successo che interpreterà in Il piano di Maggie, appena passato dal Biografilm Festival dopo  quello di Berlino, e al cinema dal 30 giugno. Invece sono parole di una delle attrici più concrete che circolino a Hollywood. Siamo in un hotel di lusso nel cuore di Berlino. È mattina e Julianne Moore indossa un vestitino lilla con una giacca svasata nera. Le è rimasto un filo di voce e, mi dice, si sta imbottendo di rimedi tedeschi sperando che facciano effetto. Non è la prima volta che la incontro, ma resto di nuovo colpita perché dimostra molti meno anni dei 56 che ha. Forse perché è una donna vera, una che nel mezzo dei 30 anni ha capito di sentirsi sola e confusa e ha cominciato a lavorare su di sé, scoprendo che aveva messo al centro della sua vita la carriera, e che era tempo di cambiare rotta. Oggi non ha solo due splendidi figli e un marito, il regista Bart Freundlich (sposato dopo aver divorziato dal regista John Gould Rubin) con cui vive nel west village di Manhattan, ma anche un Oscar in bella mostra in ufficio- vinto per Still Alice– e una serie di cause a cui tiene molto. A dimostrare che avere una carriera al top, una famiglia e degli interessi è possibile, e se ci si impegna per ottenerli. La sua vita lontana dalle luci della ribalta è semplice. Si sveglia tutte le mattine alle 6.30, fa yoga tre volte alla settimana, scrive libri per bambini. E sta dalla parte delle donne: è una delle sostenitrici di Planned Parenthood, grande organizzazione che educa su temi come salute e contraccezione, e ha appoggiato Hilary Clinton nella corsa alla Casa Bianca. Ha anche la passione dell’interior design per cui, oltre a decorare gli interni di casa sua, ha aiutato ad arredare la stanza in cui si svolge la cerimonia di consegna degli Academy Awards. Sullo schermo Julianne Moore ci ha abituato a tutto, dall’erotismo all’omosessualità, dalla pornografia all’incesto, e i prossimi film che girerà saranno con Todd Heynes e con George Clooney. Intanto dal 2 giugno sarà al cinema diretta dalla sua amica Rebecca Miller nei panni di Georgette, un’influente insegnante di sociologia il cui marito (Ethan Hawke), professore universitario, si innamora di Maggie, una donna molto più giovane di lei (Greta Gerwig), con cui va a vivere. Le due donne non si faranno la guerra ma saranno alleate, conducendo il gioco dove vogliono loro.

La commedia romantica che ha debuttato a Toronto per poi passare dal Festival di Berlino sfida ancora una volta le certezze sociali. Lei e la Gerwig proponete una gestione dei figli che mostra una nuova tipologia di famiglia allargata… «Mi ha molto intrigato il fatto che il personaggio di Maggie abbia un’idea di Georgette basata su quello che le dicono gli altri. Ma incontrandola ha una specie di fulmine, per la sua gentilezza. Tra le mie amiche è capitato spesso di sentire che la nuova moglie o compagna ha un ottimo feeling con la ex del marito, e che i loro figli si trovano bene con entrambe le donne. Mi piace che il film faccia riflettere su questa idea».

Propone anche un approccio molto pratico alla maternità: visto che i fidanzati non durano, non si deve per forza amare qualcuno per diventare madri, basta scegliere un donatore di seme, un amico di amici. È una visione moderna della vita, secondo lei? «Non credo si tratti di praticità. Mi ha toccata molto il fatto che a Maggie manchi la madre, che è stata il suo unico genitore quando era bambina. In questo senso lei non fa altro che ricreare le condizioni in cui è cresciuta, lo trovo quasi romantico».

Recita spesso la parte di donne che hanno una vita disordinata. Nella vita vera ama l’ordine? «In sessanta film ho recitato di tutto, non c’è correlazione tra chi sono e i miei personaggi. Credo però che noi esseri umani cerchiamo di imporre una certa struttura sulla realtà. La società, la religione, la comunità, il governo sono tutti ordini che creiamo per cercare di spiegarci le cose, ma non le conosciamo e non sappiamo come vanno».

Le coppie si sfasciano troppo facilmente, al giorno d’oggi? «Non sono un’esperta, ma basta parlare con chi divorzia, per sentire che non è affatto felice. Le relazioni siano sfidanti, e al loro interno succede di tutto. C’è chi sta insieme e soffre, chi si divide e soffre, chi ce la fa, chi fallisce, le variabili sono tante».

Ha un matrimonio che dura negli anni, qual è il segreto? «Credo che gli ingredienti siano molti, ma a contare è soprattutto il voler essere dove si è: stare, impegnarsi nello stare, è il segreto, o almeno uno dei segreti. L’altro è essere grati della vita che si ha».

Una delle cose che ama di suo marito? «Mi fa ridere! Ho capito da poco che prima di un incontro col pubblico o con la stampa è meglio che non legga i suoi sms: mi è capitato di uscire sul palco con le lacrime agli occhi, non sapevo come fare a trattenermi…».

I film che la fanno ridere, invece, quali sono? «Mi viene in mente uno show tv, Difficult people. Lo conducono Julie Klausner e Billy Eichner e lo adoro, è davvero oltraggioso».

Billy è lo stesso di Billy on the street. L’ho vista in una puntata dello street show che mi ha molto divertita. «Ho iniziato a seguire Julie su Twitter e dopo un po’ abbiamo iniziato a messaggiarci, finchè mi ha chiesto se volevo partecipare al suo show, ma non potevo. A quel punto è subentrato Billy, che mi ha chiesto di prendere parte al suo. E così che sono finita per strada a recitare pezzi di film famosi cercando di ottenere la mancia dei passanti!».

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La Moore con Ethan Hawke in Il piano di Maggie- A cosa servono gli uomini (courtesy film.it).

 

Anche in jeans e giacca blu, come in quel caso, lei ha sempre un’eleganza sobria. «Non mi piace attirare troppo l’attenzione, mi piace essere cool senza farmi notare troppo. Trovo molto interessante il modo in cui si decide di presentarsi al mondo, vale per un’attrice come per qualsiasi donna. Mi rendo conto di fare delle scelte, ogni volta che apro l’armadio, e vado un po’ da un eccesso all’altro. Quando lavoro sono davvero vestita, mi piacciono i tessuti e le forme decise, cose semplici e interessanti allo stesso tempo, mentre quando sto con i miei figli sono molto casual. In entrambe i casi sto attenta ai colori che scelgo, per una rossa è fondamentale non sbagliarli»

La sera che ha consegnato l’Oscar a DiCaprio, in Chanel nero, è stata fantastica. «È stata un’edizione straordinaria, i film in concorso quest’anno erano bellissimi, anche quelli rimasti fuori dalle nominations».

Avrebbe mai immaginato di vincere un Oscar, in vita sua? «Nemmeno per sogno. Mi sono ritrovata ad avere una carriera cinematografica all’improvviso, con tre film usciti quasi in contemporanea. Avevo 32 anni, e fino a quel momento avevo recitato per la tv e il teatro di Broadway, al cinema non pensavo nemmeno. Poi ho incrociato registi del cinema indipendente Usa, come Todd Haynes e Paul Thomas Anderson, che ha cambiato tutto».

Lavora ininterrottamente da molti anni, cosa pensa della condizione delle donne a Hollywood? «Che sta cambiando qualcosa, e se guarda a Il piano di Maggie, in cui siamo tre donne, e la regista è anche scrittrice della sceneggiatura (tratta da un romanzo mai pubblicato di Karen Rinaldi, ndr), si capisce qual è la direzione da seguire. È inutile andare da un uomo e dirgli “devi scrivere più storie sulle donne…”, perché le storie sono soggettive, nascono da un impulso personale. Se si vuole che le cose cambino, in termini di diversificazione, l’unico modo è coltivare un punto di vista femminile».

 

Cover story di F del 6 luglio 2016

© Riproduzione riservata

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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