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Cristiana Allievi

~ Interviste illuminanti

Cristiana Allievi

Archivi Mensili: febbraio 2017

Mel Gibson Story: ascesa, caduta e rinascita tra due Oscar

26 domenica Feb 2017

Posted by cristianaallievi in cinema, Cultura, Mostra d'arte cinematografica di Venezia, Personaggi

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Andrew Garfield, Braveheart, Cristiana Allievi, Desmond Doss, Hacksaw RIdge, La resurrezione, Mad Max, Mel Gibson, Oscar2017, Suicide Squad

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A 21 anni dal doppio premio a Braveheart, l’attore e regista australiano torna sotto le luci e nel teatro degli Oscar dopo 10 anni bui e con un nuovo film di guerra ed eroismo

 

«Il mio prossimo film? Sarà un processo investigativo, voglio mostrare luci e ombre di un evento misterioso. Ho idee poco ortodosse e molto interessanti in merito…». Il film in questione, guarda il caso, si chiamerà La resurrezione, e sarà la continuazione di La passione. I conti tornano. Se infatti Mel Gibson oggi corre per l’Oscar, è di rinascita che è il caso di parlare, di ritorno dopo 10 anni di assoluto silenzio. I critici hanno applaudito il suo film di guerra, Hacksaw Ridge, nominandolo in ben sei categorie, inclusa quella di miglior regista per Gibson stesso. E dopo anni di esilio nel deserto – l’ultima nomination era stata perBraveheart – è questa la dichiarazione che l’autore australiano è stato accolto di nuovo, e a braccia aperte, nella famiglia del cinema. Non vincerà, questo è praticamente certo. E non solo perché i titoli in corsa includono Moonlight di Barry Jenkins e La La Land di Damien Chazelle. Il fatto è che gli organizzatori della cerimonia non lascerebbero mai Mel vicino a un microfono aperto.

Se per sempre, o per ora, si scoprirà col tempo.

Del resto il suo ritorno ufficiale ha già del miracoloso, se si pensa che l’attore e regista premio Oscar, arrestato per guida in stato di ebrezza, ha dichiarato al poliziotto che lo aveva in custodia che gli ebrei sono responsabili di tutte le guerre del mondo (epic fail con cui seppellire una carriera per sempre). È difficile trovare qualcuno dell’industry che non lo ami, a livello personale. Non è più il burlone delle feste glamour che era vent’anni fa, ma tutti lo considerano intelligente, generoso e parecchio alla mano. Ma il disgelo a livello ufficiale, quello dell’Academy per intenderci, è un’altra cosa, ed è una specie di miracolo. È avvenuto grazie a un film che mette insieme temi fortemente gibsonini come fede, violenza e guerra. Ironia vuole che il film uscisse in un’America che si preparava all’arrivo di Trump, raccontando la vita di Desmond Doss, un giovane pacifista che quando scoppia la seconda guerra mondiale si arruola volontario come medico, ma per le sue convinzioni religiose non toccherà armi. Guidato solo dalla propria incrollabile fede, a Okinawa salva la vita a 75 commilitoni. Questo eroe interpretato dal bravissimo Andrew Garfield è il primo obiettore di coscienza insignito della medaglia d’onore dal presidente Truman. E in molti hanno pensato che, consciamente o meno, in qualche modo rappresenti Gibson stesso, che ha anche scelto (simbolicamente?) di tornare a casa, in Australia, a girare il suo quinto film da regista.

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Il regista e attore australiano, 61 anni, con Andrew Garfield, protagonista di Hacksaw Ridge, in corsa per gli Oscar con 6 nominations.

Con la barba folta sale e pepe con cui lo si vede girare da diversi mesi sembra più un profeta dell’antico testamento che una star di Hollywood. Per rintracciare nella mente l’immagine della giovinezza di attore-sex symbol che ha alimentato successi come Mad Max e la serie di Arma letale bisogna attingere a ricordi da vite passate. Così come adesso sembra voler solo dirigere, e il ricordo dell’ultimo ruolo da attore degno di nota è lontano: era stato nel thriller di M. Night Shyamalan sui cerchi di grano, Signs, del 2002, seguito a Quello che vogliono le donne, del 2000.

Nato a New York da un ferroviere di discendenze irlandesi e da una madre irlandese, quando aveva quattro anni la sua famiglia si è trasferita con 11 figli in Australia, nel New South Wales, dove la nonna paterna era stata un noto contralto dell’opera. Dopo il liceo Mel è andato all’Università di Sidney esibendosi poi al National Institute of Dramatic Arts con future star del cinema come Geoffrey Rush e Judy Davis. Ha esordito al cinema con Interceptor, mentre con Tim – Un uomo da odiare, ha vinto il premio di miglior attore secondo l’Australian film institute (che equivale a ricevere un Oscar), cosa che si è ripetuta pochi anni dopo, con Gli anni spezzati. Risale invece al 1984 il suo debutto americano, in Il bounty, interpretato accanto a Anthony Hopkins. È stata poi la volta di Mad Max e, nel 1987, del personaggio di Martin Riggs con cui ha firmato la serie di Arma letale. Gli anni Novanta lo hanno visto vincere due Oscar con Braveheart- Cuore impavido (Miglior fotografia e Miglior Regia), a cui sono seguiti altri innumerevoli successi al box office, fino ai guai con l’alcol e tutto il resto che ne è seguito.
Questo grande ritorno con Hacksaw Ridge è la scintilla di un fuoco che sembra destinato a tornare a scaldare, e parecchio. Mel è un tipo ingestibile, e adesso che ha 61 anni ed è appena diventato padre del nono figlio sembra aver annunciato che le sorprese sono appena iniziate.

Chi crede che si sia ormai votato a dirigere solo film su figure bibliche ed eroi morali, potrebbe ricredersi. Per dirne solo una, circolano voci sul fatto che la Warner lo abbia parecchio corteggiato e che lui stia studiando il materiale di una nuova sceneggiatura. Si tratterebbe del sequel di Suicide Squad di David Ayer, e basterebbe a dire che chi ha pensato di aver capito chi è Mel Gibson si è sbagliato. E di grosso.

Articolo pubblicato su GQ Italia 

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Call me by your name, eros e magnifica confusione by Luca Guadagnino

18 sabato Feb 2017

Posted by cristianaallievi in Berlinale, cinema, Cultura, Mostra d'arte cinematografica di Venezia, Senza categoria

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Armie Hammer, Berlinale, Call me by your name, Cristiana Allievi, Esther Garrel, Luca Guadagnino, Michael Stuhlbarg, Timothée Chalamet

Il nuovo film del regista siciliano celebra il desiderio dei vent’anni, quando, come disse una volta Truman Capote, “l’amore, non avendo una mappa, non conosce confini”

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Da sinistra Michael Stuhlbarg, Timothée Chalamet e Armie Hammer in una scena di Call me by your name (courtesy Sony Pictures Classics).

Con Luca Guadagnino l’Italia ha trionfato alla Berlinale. E con lui, ha vinto l’universalità dell’amore. È successo nonostante Call me by your name, settimo film del produttore e regista palermitano, fosse proiettato nella sezione Panorama, e non in Concorso, perché l’anteprima mondiale è avvenuta un mese prima al Sundance, festival Usa che ha parecchio gradito l’opera. Scritta dallo stesso Guadagnino insieme a James Ivory e Walter Fasano a partire dall’omonimo romanzo dell’americano André Aciman, la pellicola che sarà distribuita in Italia da Sony Picture Classics è un inno alla passione e all’eros che non mostra nemmeno una scena di sesso esplicita e riesce a includere una storia di famiglia. Un successo, va detto, da attribuirsi anche alla scelta di un magnifico cast. Elio Perlman, interpretato dall’astro nascente Timothée Chalamet, è il figlio diciassettenne di una coppia ebrea molto abbiente in cui il padre (Michael Stuhlbarg) è un professore d’inglese specialista dell’epoca greco romana. Siamo in estate, nei dintorni di Crema, e il ragazzo è una specie di genio della musica. Parla tre lingue, trascorre la giornata ascoltando e trascrivendo note di Bach e Berlioz e flirtando con l’amica Marzia (Esther Garrel). Finchè nella meravigliosa villa seicentesca di famiglia – a pochi chilometri dalla vera casa di Guadagnino – arriva Oliver, un giovane ricercatore americano, interpretato da un Armie Hammer al massimo del suo splendore: ha 24 anni ed è una miscela esplosiva di cultura e fascino. A poco a poco tra lui ed Elio si fa strada un sentimento dalla forza inesorabile, che include anche la confusione di Elio tra la ragazza che lo ama e l’attrazione per Oliver, confusione resa dal regista in modo terribilmente empatico.

E pensare che Guadagnino ha fatto di tutto per non dirigere questo film, avrebbe voluto restarne solo il produttore e proporlo ad altri colleghi. Ma da Taylor Wood a Ozpetek, passando per Gabriele Muccino, tutti gli dicevano “perché non lo fai tu?”. Così,  si è convinto. «Mi piace pensare che Call me by your name chiuda una trilogia di film sul desiderio, con Io sono l’amore e A bigger Splash», racconta. «Ma nei film precedenti il desiderio spingeva al possesso, al rimpianto e al bisogno di liberazione. Mentre qui volevamo esplorare l’idillio della giovinezza. Elio, Oliver e Marzia sono irretiti in una confusione che una volta Truman Capote ha descritto dicendo “l’amore, non avendo una mappa, non conosce confini”».
Come i suoi protagonisti, anche lo spettatore si trova catapultato in un universo idilliaco e passionale, guardando questi 130 minuti di immagini sulle note dei pezzi per pianoforte di John Adams ma anche di Lady, Lady, Lady di Joe Esposito (chi si ricorda di Flashdance?), oltre alla musica creata apposta per il film da Sufjan Stevens. «Io e Armie abbiamo trascorso molto tempo insieme prima delle riprese», racconta Timothée, «per tre settimane ci siamo fatti il caffè, abbiamo guardato film e ascoltato musica. Eravamo sempre insieme». E Hammer, che alla Berlinale era presente anche con il film di Stanley Tucci Final Portrait, rincara la dose. «Abbiamo fatto tutto quello che si vede nel film», provoca, per poi aggiungere un «beh, non proprio tutto. Di sicuro mi sento in sintonia con il modo in cui Luca è stato capace di far emergere il desiderio umano, questa brama che si sente fra i due personaggi. Sono emozioni primarie di desiderio che le persone sentono, e spero che questo aspetto aiuterà il film ad andare oltre ogni barriera».

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Il regista Luca Guadagnino, 46 anni (pic by Alessio Bolzoni).

Mentre si viene trasportati per mano nell’atmosfera ovattata in cui sboccia l’amore, tra bagni al fiume, sguardi e silenzi che dicono più di mille parole, fuori da questa bolla c’è un mondo che sfiorisce. Siamo negli anni Ottanta, nell’Italia di Licio Gelli e Bettino Craxi, delle piazze con i cartelloni elettorali di PCI e PSI. E mentre in questa famiglia molto internazionale, con madre francese e padre inglese, si parla di resti archeologici e di bellezza ellenica, dalla tv sbuca un giovanissimo Beppe Grillo, ancora solo comico. «È l’epoca in cui abbiamo assistito alla fine degli straordinari anni Settanta e all’inizio del conformismo degli Ottanta, con il pensiero di massa che ne è seguito», ricorda Guadagnino. «Mi piaceva mostrare un gruppo di persone che resta intoccato da tutto questo». In questa decadenza si avverte che un’estate molto fuori dal comune sta per finire, anche se nessuno lo vorrebbe. In un tessuto emotivo che non molla lo spettatore nemmeno per un istante, con la fine dell’estate per Elio arrivano i dialoghi illuminanti con il padre, dalla cui bocca escono parole che molti figli sognerebbero di sentirsi dire. E non è un caso, a sentire il regista. «Call me by your name è un omaggio ai padri della mia vita, il mio vero padre e i padri cinematografici, Renoir, Rivette, Rohmer e Bertolucci».

 Articolo pubblicato su GQ Italia
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Staley Tucci racconta l’artista Alberto Giacometti

16 giovedì Feb 2017

Posted by cristianaallievi in Berlinale, cinema, Cultura

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Alberto Giacometti, Armie Hammer, Clemence Poesy, cristianaallievi, Final Portrait, Geoffrey Rush, GQitalia, Stanley Tucci

Geoffrey Rush interpreta il geniale scultore svizzero in un film che, lontano dal classico biopic, sa essere folle e rock quanto il suo soggetto

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Armie Hammer e Geoffrey Rush in Final Portrait, di Stanley Tucci, in competizione alla 67 Berlinale (© Parisa Taghizadeh)

Ci sono lunghi minuti in cui il volto di Armie Hammer viene scrutato, scavato, quasi vivisezionato. A posarsi su di lui con una focalizzazzione assoluta è l’occhio di un artista che sembra vedere il mondo in modo diverso da come lo vediamo tutti noi. È questo il cuore di Final portrait, il quindo film che vede Stanley Tucci di nuovo dietro la macchina da presa, a 21 anni da Big Night. Nella pellicola, in concorso alla Berlinale, il regista e attore si focalizza sugli ultimi due anni di vita di Alberto Giacometti, scultore e pittore svizzero interpretato da un pirotecnico Geoffrey Rush, e ancor più precisamente sul suo incontro con l’amico scrittore e amante dell’arte James Lord, interpretato da un affascinante Armie Hammer (che a è presente al festival anche in Call me by your name di Luca Guadagnino, nella sezione Panorama). Non si tratta quindi di un classico biopic, ma della cronaca di un incontro tra due amici scandito in 18 giornate: tante ce ne sono volute perché James Lord potesse finalmente portare a casa un ritratto che Giacometti aveva promesso di eseguire in pochi giorni.

La storia è stata scritta da Tucci stesso, ispirandosi a un libro che aveva letto molti anni prima, ed è ambientata nella Parigi del 1964, quando Giacometti ha 64 anni e il suo amico Lord ne ha appena compiuti 40. Quest’ultimo si trova di passaggio nella città durante un viaggio, quando il pittore e scultore di fama mondiale gli chiede di posare per un ritratto, e lui accetta. James è un osservatore, ed è quindi un tipo più passivo. Vuole scrivere si Giacometti, farsi fare un ritratto da lui ma più di tutto è un amico che vuole passare tempo assieme, per conoscersi meglio. Quello di cui parlano in questi 18 giorni finirà nella biogarfia del pittore. Lo spettatore godrà delle nuanche di una particolarissima amicizia, ma soprattutto riceverà molte informazioni sulla frustrazione, la profondità e il chaos del processo creativo dell’artista.

«Il lavoro di Giacometti mi piace moltissimo, è antico e moderno insieme, e soprattutto è vero», racconta Tucci, che ha fatto riprodurre le sculture e i dipinti che si sarebbero trovati nello studio del maestro da un team di quattro artisti. «Una delle cose che amo di lui è lo spazio che crea, intorno alle figure, nel caso delle sculture, dentro la tela se si tratta di quadri. La posizione in cui le persone si collocano nello spazio dice moltissimo delle loro relazioni, del loro comportamento». Le immagini sono splendide, la saturazione del colore varia durante il film. «Lo avrei girato in bianco e nero, ma sarebbe stato più difficile da distribuire, così ho optato per una palette vicina ai colori dei lavori di Giacometti. Siccome è un film ambientato negli anni Sessanta, non volevo che Parigi diventasse troppo romantica e nostalgica, volevo fosse reale. Con Danny Cohen, direttore della fotografia, abbiamo girato con due macchine da presa in simultanea, per questo il tono del film è molto naturalistico». E, per dirla con le parole della sua protagonista femminile, Clemence Poesy, «è molto più rock and roll dei film d’epoca».

Tucci ha pensato a Geoffrey Rush molto prima di iniziare a lavorare al film, perché il suo volto è molto vicino a quello di Giacometti. Ma ha dovuto accorciarne e rafforzarne l’esile figura attraverso un accorto uso dei costumi. Mentre per affiancarlo ha avuto gioco facile con il californiano Armie Hammer, perfetto per calarsi nei panni dell’americano affabile e lievemente stiff. Unico dubbio, che fosse troppo bello per il ruolo. «Com’è stato lavorare con Geoffry? A parte il suo senso dell’umorismo, che non ha smesso di colpirmi ogni giorno, è stato come giocare una partita di tennis con qualcuno che è talmente più bravo di te da elevare il tuo stessogioco. Tutto quello che dovevo fare era sedermi e veder recitare uno dei miei idoli, niente male direi, ricomincerei subito (risata, ndr)».

Il padre di Armie è stato un collezionista d’arte, c’è da chiedersi se la cosa lo abbia influenzato. «Mi piace considerarmi un artista, la mia relazione con l’arte forse è più diretta».  Il finale di Final portrait ha un ritmo veloce. Dopo aver cambiato per tre volte la data del suo rientro, James Lord decide di dare una scadenza definitiva a Giacometti per tornare negli States. «Il ritratto finale è un compromesso, i due amici non si sono mai più rivisti», conclude Tucci. «Ma questo non conta. La sensazione che volevo lasciare nello spettatore – in un’epoca in cui grazie ai social pensiamo di dover mostrare sempre tutto per avere successo – è che Giacometti avrebbe rifatto tutto daccapo, era il suo modo di lavorare. E nonostante non fosse mai soddisfatto del proprio lavoro, questo ritratto “incompiuto” l’anno scorso è stato venduto per 20 milioni di dollari. Non male, direi»

Pubblicato su GQ.it

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The Bomb, 70 anni di nucleare in 50 minuti di immagini e musica

15 mercoledì Feb 2017

Posted by cristianaallievi in Cultura, Festival di Berlino

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67Berlinale, armi nucleari, Eric Schlosser, GQitalia, Kevin Ford, Radiohead, Smriti Keshari, The bomb

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The bomb, diretto da Kevin Ford, Smriti Keshari e Eric Schlosser (photo by  Stanley Donwood & Teh Kindom of Ludd).

Un giornalista, due registi indipendenti e il grafico che ha dato un’immagine forte ai Radiohead uniti a raccontare l’orrore e insieme il fascino inquietante (e tutto maschile) delle armi nucleari

Sul palco ci sono sintetizzatori, computer, chitarre. Sullo schermo iniziano a scorrere immagini che, da un satellite, volano su tutta la superficie terrestre. È il momento in cui parte la musica live dei The acid, quattro musicisti guidati dal dj inglese Adam Freeland. Il ritmo incalza, sullo schermo passano memorabili immagini di marce militari in diverse parti del globo, seguite da parate di carrarmati. Ed ecco che, in pochi minuti, partono missili da ogni dove, da terra, dal mare, dal cielo. E uno solo di quei missili sottomarini, si scoprirà, è in grado di radere la suolo più di cento città.

La 67ma Berlinale ha appena aperto la sua sezione Berlinale Special con The bomb, un progetto multimediale creato da Smriti Keshari, Eric Schlosser e Kevin Ford che immerge lo spettatore in uno scenario intenso, spiazzante e disperato: quello delle armi nucleari. Per raccontare questo viaggio di 50 minuti tra musica, immagini di repertorio, animazione e testi che illustrano i settant’anni passati da quando l’ultima città è stata rasa al suolo grazie al nucleare, i creatori hanno passato in rassegna tonnelate di materiale d’archivio.

«Per almeno quindici anni sono stati girati filmati che sono stati tenuti nascosti, ma alla fine della guerra fredda tutto questo materiale è stato declassificato», racconta Eric Schlosser, scrittore e giornalista candidato al Pulitzer, autore di quel Command and control da cui è stato tratto il documentario di Robert Kenner candidato agli Oscar di quest’anno.

«Dal 1991, con la dissoluzione dell’Unione Sovietica, nessuno si è più curato delle armi nucleari. All’epoca stavo scrivendo il mio libro e collezionavo immagini e informazioni su tutto, ricordo che delle varie categorie in cui mi sono imbattuto la mia preferita era la “cosmic top secrets”: l’ho interpretata pensando che non dovevo parlarne con gli alieni», scherza.

«I documentari erano così ricchi di informazioni che abbiamo deciso di riportarli in vita», prosegue Smriti Keshari, regista indiana americana nota per le sue storie capaci di ispirare un cambiamento sociale. «A quel punto abbiamo pensato a Stanley, perché viene da un lavoro “politico”. Il tocco moderno a questo mare di informazioni è suo».

Stanley Donwood è uno degli artisti grafici più famosi d’Inghilterra, colui che ha dato un’immagine forte ai Radiohead (con cui lavora da 20 anni) e noto per le sue campagne contro il nucleare. «È incredibile pensare che dietro le armi che mostriamo allo spettatore ci sia qualcuno che le ha concepite, disegnate e poi progettate. Lungo tutto il processo costruttivo coloro che hanno disegnato la prima atomica erano consapevoli che avrebbe ucciso qualsiasi essere vivente sulla terra, ma sono andati avanti e hanno testato i dispositivi lo stesso».

Nel viaggio dal Trinity Test del 1945 allo stato del nucleare nel 2017, in cui sul pianeta nove nazioni possiedono quindicimila armi nucleari, di cui quelle americane sono 20 volte più potenti della bomba sganciata su Hiroshima, la musica di The acid gioca un ruolo emotivamente centrale: rende lo scenario molto affascinante, al punto da chiedersi se l’effetto non sia contrario a quello che dovrebbe suscitare.

«Sarebbe stato troppo semplicistico mostrare solo cadaveri e distruzione», crede Schlosser. «La tecnologia e le esplosioni hanno un fascino reale, c’è qualcosa di maschile e meraviglioso nelle forme di queste armi e credo che per capirle davvero si debba sentire quel sentimento di attrazione. Poi si spera che quando le cose prendono un’altra piega si capisca che non si tratta di fuochi d’artificio, ma di gente che sta sta facendo esperimenti terrificanti».

Del progetto fa parte anche Kevin Ford, scrittore e regista di vari film indipendenti. Ha girato anche un corto sul libro di Schlosser con musiche dei Radiohead. «A un certo punto del film è stato molto importante lasciare un silenzio assoluto. Lo spettatore fa un’esperienza intossicante con la musica, poi quando arriva allo sgancio dell’atomica sul Giappone, sparisce tutto. Alcuni sopravissuti di Hiroshima e Nagasaki hanno dichiarato di aver sentito un silenzio assoluto e terrificante, all’improvviso».

Gli Usa e la Russia possiedono più del 90% delle armi nucleari, e oggi in quattro minuti il mondo potrebbe finire grazie a queste macchine mostruose.
Dov’è il pericolo più caldo, secondo i creatori di The bomb?
«India e Pakistan stanno ricreando uno scenario preoccupante. Usa e Urss si odiano, ma a una distanza di migliaia di chilometri; l’odio tra vicini è più intenso e insopportabile».

Ford recupera una speranza dal passato. «Una delle frasi più forti del film, non a caso, è di Ronald Regan, quando dice “spero nel giorno del totale disarmo”. Questa è l’unica conseguenza logica, fa parte della nostra evoluzione umana andare oltre questo orrore».

Articolo pubblicato su GQ.it

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Kristen Stewart: «Sono spericolata, e si vede»

08 mercoledì Feb 2017

Posted by cristianaallievi in Cultura, Personaggi

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Alicia Cargile, Billy Lynn - Un giorno da eroe, Chanel, Cristiana Allievi, Kristen Stewart, Oliver Assayas, Personal Shopper, Stella Maxwell, Twilight

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L’attrice Kristen Stewart, 26 anni (courtesy of Sundance portraits)

«Mi piace l’idea del pranzo domenicale, e sono molto brava a preparare gli spaghetti. Da un po’ di tempo ho smesso di mangiare carne e non uso più prodotti animali, mi sono specializzata in centrifugati. Per esempio uso la polpa di mele, sedano e carote e la combino con l’olio di arachidi e cocco, non sai che meraviglia…». Mentre la ascolto penso che Kristen Stewart sia l’unica attrice in grado di spiazzarmi. In effetti mi vengono in mente le ultime foto che la ritraggono con la nuova fiamma, la modella Stella Maxwell, angelo di Victoria’s Secret. Le due passeggiano con in mano beveroni e centrifugati bio, a testimoniare che la svolta wellness è reale. Del resto da qualche anno a questa parte ha continue novità con cui stupirci, soprattuto a livello sentimentale. Le voci si rincorrevano da tempo, ma ha aspettato la fine del festival di Cannes per dichiarare il suo amore folle per l’assistente e produttrice cinematografica Alicia Cargile, dopo un anno e mezzo di tira e molla (intervallato da svariati flirt, mai accompagnati da conferme o smentite). Così ha messo fine a una valanga di gossip ed è uscita intelligentemente allo scoperto. «Sono innamorata della mia fidanzata, con cui mi sono separata un paio di volte, e con cui finalmente sono tornata a provare sentimenti autentici», ha dichiarato facendoci finalmente tirare un respiro di sollievo. Ma ecco che, a pochi mesi da quelle parole, te la ritrovi a flirtare con la Maxwell: le due passano da un party all’altro e Kristen è più glamour e femminile che mai. Cresciuta a Los Angeles con madre australiana sceneggiatrice e padre assistente regista, e travolta da un successo che avrebbe steso la maggior parte di noi, a 26 anni la Stewart sembra in piena fase sperimentale con un raggio d’azione molto vasto: si va dai sentimenti al colore dei capelli, passando per il lavoro sul grande schermo. Voltate le spalle a incassi da capogiro, infatti, continua a fare scelte da vera ribelle nel cinema indipendente. Al nostro incontro indossa un tailleur di Chanel con pantaloni e agita le mani nervosamente, mentre mi racconta che attraverso i ruoli che sceglie vuole affrontare ogni possibile angolazione di se stessa. «Mi sento al massimo, come attrice, quando mostro cose che il pubblico non vede normalmente, e di cui io non ero consapevole. Comunicare qualcosa a qualcuno è ciò che mi piace di più della vita, essere vista e capita è quanto di più bello ci possa essere». Nei prossimi film in cui la vedremo incarnerà due tipi di sorelle diversi. In Billy Lynn- Un giorno da eroe, film del regista premio Oscar Ang Lee nelle sale dal 2 febbraio, tenterà di convincere il fratello, un tormentato eroe della guerra in Iraq, a non tornare nel conflitto. Mentre in Personal Shopper, di Olivier Assayas, passato all’ultimo festival di Cannes e nelle sale da aprile, grazie alle sue doti psichiche tenterà di mettersi in contatto con il fratello gemello, morto per un attacco di cuore.

In Billy Lynn- Un giorno da eroe, lei è la sorella pacifista di uno dei centomila soldati che nel 2004 erano in Iraq, interpretato dallo straordinario esordiente Joe Alwyn. Le scene tra di voi, quando torna a casa per ricevere un premio, sono di grande impatto. «Credo che Ang Lee abbia distillato il meglio dei dialoghi del bestseller di Ben Fountain da cui è tratto il film. L’intento di Lee è mostrare una verità sulla guerra distante anni luce da quello che l’opinione pubblica crede, e del film io rappresento la voce alternativa e articolata. Voglio che mio fratello conosca se stesso: se questo accade, sarebbe ancora orgoglioso di fare quello che fa? Non mai stata una che giudica, anche nella vita reale, ma ho sempre creduto che per batterti per qualcosa devi prima capirla, non esserne consumato».

Il tema è più che mai attuale, ci sono tanti ragazzi e ragazze che per sfuggire alla loro realtà di vita pensano di arruolarsi nell’esercito. La scelta di Billy è quella di molti giovani americani? «Credo sia la storia più americana e comune che ci sia. L’esercito ha dato una direzione a tante vite fuori rotta, ha fornito uno scopo anche in senso positivo. Ma non tutti sono preparati a trovarsi coinvolti in qualcosa di molto più grande di loro, con gli esiti che comporta, e questo era ancora più vero ai tempi in cui è ambientato il film, quando le versione dei fatti erano costruite e orientate in modo propagandistico. Ma la cosa più difficile da comprendere era la necessità di chiedersi perché si fanno certe cose, una domanda che porta molta umanità alla figura di un soldato».

In questo film si occupa di suo fratello vivo, mentre in Personal Shopper fatica a riprendersi dalla perdita del suo gemello e a tornare a condurre una vita normale. «Al mio personaggio succedono cose strane. Nel tentativo di colmare il vuoto della perdita fa crescere le sue qualità androgine, emulando il fratello. Il rovescio della medaglia è che la sua femminilità è in difficoltà, non riesce a entraci del tutto a causa del senso di colpa che non le da tregua. La storia è complessa, racconta di una metamorfosi che passa attraverso proiezioni demoniache e il desiderio improvviso di indossare i vestiti di qualcun altro, per riniziare a vivere».

Secondo lei le esperienze dolorose sono necessarie per farci aprire gli occhi? «Servono per tornare a capire conta davvero nella vita, ci distraiamo così facilmente… La perdita ti porta anche a sentire che lo sconosciuto è spaventoso, e lì capisci che noi non avrai mai risposte sullo sconosciuto per eccellenza, la morte. Non sappiamo cosa succederà in quel momento, non sappiamo se saremo da soli o ci sentiremo collegati a qualcosa di più grande, ed è terrorizzante».

Che relazione ha col mondo del soprannaturale? «Da bambina i fantasmi mi facevano paura, e l’idea che ci sia qualcosa di invisibile non mi piace. Oggi non credo ai fantasmi ma agli impulsi e agli istinti che partono dalle viscere e di cui è meglio fidarsi. Sono la ragione per cui ci sentiamo attratti da qualcuno e respinti da qualcun altro, e non hanno niente a che fare con la logica».

La personal shopper che interpreta è molto sui generis… «È una donna molto attratta dalla bellezza e dall’estetica, ma è così auto punitiva da sentirsi in colpa per questo. Prova un senso di vergogna nel voler essere bella e nel volersi circondare di cose belle, perché lei in realtà non si piace, fatica a essere davvero una donna».

La sua, di stylist, l’ha aiutata in questo senso? «Mi conosce molto bene, dopo tanti anni che lavoriamo insieme, e non pensa solo ai vestiti da farmi indossare: mi conosce davvero. Ci sono tante persone distratte dai trend che vogliono solo ridisegnarti, non sono capaci di sottolineare semplicemente chi sei. La mia collaboratrice sa qual è, di volta in volta, il capo perfetto per farmi affrontare il mondo».

Tre anni fa ha dato un taglio drastico ai capelli, e col senno di poi la sua scelta non sembra affatto casuale. «Li ho tagliati appena ho compiuto 23 anni e l’effetto è stato travolgente. I capelli mi permettevano di nascondermi dietro un’aura sexy, appena mi sono trovata scoperta ho dovuto mostrare la mia vera faccia, e la cosa strana è che ho tirato fuori una fiducia in me stessa che non ricordavo da tempo. I capelli mi facevano sentire come una vera ragazza, mi mandavano messaggi del tipo “sono bella, sono femminile”. Non so perché gli ho dato così tanta importanza, forse è a una di quelle credenze sociali secondo cui i capelli lunghi sono più belli. Ma mi sono chiesta “il mio primo obiettivo nella vita è essere desiderata? È di una noia mortale!”».

Lei era esposta come poche, non ha temuto il cambiamento di immagine? «Ho perso due chili prima di incontrare il parrucchiere! Non riuscivo a mandar giù niente, e il giorno che mi sono seduta su quella sedia mi sudavano le mani…».

Ma carattere forte e coraggio non le sono mai mancati. Crede siano stati plasmati dal crescere con tre fratelli (di cui uno biologico e due adottati)? «Se guardo alle mie foto fino ai 15 anni, in cui mi mettevo i vestiti dei miei fratelli, ero un ragazzo! Mi piacevano i trattori, il basket, il calcio, erano tutte prese di corrente per l’energia cinetica che ho sempre avuto. E sono sempre stata un tipo di bambina che voleva stare con i più grandi…».

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La Stewart in Billy Lynn – Un giorno da eroe  (courtesy of Play4movie).

Non fatico a crederle. «Volevo essere vista come grande, ma poi le cose sono cambiate. Tra 15 e 20 anni ero sempre in ansia, se non riuscivo a controllare le cose mi ammalavo, o mi inibivo in modo debilitante».

Ha imparato a sollevare una barriera emotiva nei confronti del mondo esterno? «Dopo 16 anni di lavoro ho imparato a gestire i pensieri che sono sempre stati a mille, un tempo non avevo mai una pausa. Oggi non mi faccio più sopraffare, e se mi capita so che è temporaneo, poi passa».

Più che aver fatto pace con la sua immagine pubblica sembra aver fatto pace con se stessa. «Sono più intelligente e più calma di un avolta. Se temo i miei lati oscuri? Quando sei vera con te stessa e il tuo cuore non esiste più un lato oscuro. E non c’è più domanda che ti dia fastidio, se arriva da uno spazio onesto».

 Mentre la saluto mi viene in mente una frase che mi ha detto poco tempo fa. «Se dovessi scegliere di essere un animale, sceglierei un gatto. Perché quando tutti lo vorrebbero vicino, lui se ne sta a distanza, a osservarti…». Mi basta questo per togliermi l’illusione di averla finalmente conosciuta. Kristen mi stupirà ancora, eccome se lo farà.

 Intervista pubblicata sul n. 6 di Grazia il 26/1/2017

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Mel Gibson: «Vi spiego come sono rinato».

08 mercoledì Feb 2017

Posted by cristianaallievi in cinema, Mostra d'arte cinematografica di Venezia

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Apocalypto, Braveheart, Cristiana Allievi, Desmond Doss, Grazia, La battaglia di Hacksaw Ridge, La passione, Mad Max, Mel Gibson, The resurrection

DIECI ANNI DOPO L’ESILIO DA HOLLYWOOD È PRONTO PER GIRARE IL SEQUEL DI LA PASSIONE DI CRISTO. INTANTO, IN TEMA DI RINASCITA, TORNA CON UN FILM CHE È CANDIDATO A 6 OSCAR, LA BATTAGLIA DI HACKSAW RIDGE, PIACIUTO A CRITICA E PUBBLICO. DEL RESTO LUI NE È CONVINTO: IL CINEMA SALVA LE VITE, INCLUSA LA SUA

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Mel Gibson, 61 anni, regista, attore e sceneggiatore.

Ho davanti a me un uomo di sessant’anni con una folta barba sale e pepe. Gli occhi sono ancora molto blu e il fascino che emana è forte. Indossa una polo scura da cui sbucano due grandi bicipiti e tiene in mano un block notes e una penna. Mel Gibson è un resuscitato, uno che torna al mondo dopo dieci anni di silenzio, dopo aver scontato la sua pena per certi scandali che l’America non perdona facilmente. Un arresto in stato di ebrezza, pesanti frasi antisemite contro il poliziotto che lo aveva in custodia (mal giustificate con un “ero ubriaco”) e registrazioni di conversazioni cariche di violenza nei confronti dell’ex partner Oksana Grigoriev sono sono costati cari al regista premio Oscar. E forse non si dimenticheranno mai del tutto. Ma l’ex eroe di Mad Max è tornato con il quinto film da regista, La battaglia di Hacksaw Ridge, proiettato in anteprima mondiale all’ultima Mostra di Venezia e nelle nostre sale dal 2 febbraio. Un lavoro che ha segnato il disgelo delle relazioni con Hollywood (è andato bene al box office Usa e in molti lo volevano in corsa per gli Oscar) e mette insieme temi fortemente gibsoniani come fede, violenza e guerra. Ironia vuole che il film uscisse in un’America che si preparava all’arrivo di Trump, raccontando la vita di Desmond Doss, un eroe realmente esistito interpretato dal bravissimo Andrew Garfield, il primo obiettore di coscienza insignito della medaglia d’onore dal presidente Truman. Anche Gibson, a modo suo, ricorda un eroe, soprattutto dopo essersi defilato ed essersi guardato dentro con un po’ più di attenzione. Parlandogli ho la percezione che la sua rabbia sia senza fine, ma che lo sia anche il suo talento. Con il nono figlio in arrivo, dalla sceneggiatrice ventiseienne Rosalind Ross, racconta a Grazia cosa gli è successo in questo periodo di ritiro forzato. E dell’idea di girare il sequel di La passione di Cristo, che guarda il caso chiamerà The resurrection.

Con che sentimenti presenta se stesso e un nuovo film nuovo ai critici, al pubblico, al mondo intero? «È come mandare un figlio all’asilo, sento trepidazione, paura, emozioni miste. E anche speranza. Credo in quello che faccio e spero che anche altre persone lo capiscano. Mi piace molto l’idea che qualcosa che creo venga proiettato in una sala scura ed entri negli occhi, nel cuore, nelle anime e nelle menti delle persone».

 Desmond Doss è un medico pacifista che quando scoppia la seconda guerra mondiale si arruola volontario, ma per le sue convinzioni religiose non toccherà armi. Guidato solo dalla propria incrollabile fede, a Okinawa salva la vita a 75 commilitoni. Che effetto le fa? «È un uomo ordinario che ha fatto cose straordinarie in circostanze molto difficili, per me è un eroe. È andato a combattere senza armi, solo con la sua fede e il suo coraggio, restando molto centrato nel centro di un ciclone. È ovvio che è stato attraversato da qualcosa di più grande di lui, perché non ha mai pensato a se stesso come a un eroe, per anni gli è stato chiesto il permesso di adattare la sua storia in un film, ma si è rifiutato, “figuriamoci, non vado nemmeno al cinema”. Insisteva sul fatto che i veri eroi erano quelli sul campo. Mi è sembrata una storia che meritava di essere raccontata».

Con questo film ci vuole dire che anche lei, nel mezzo di una guerra, rinuncia alla violenza? «La sua osservazione mi sorprende. Posso solo dirle che ammiro questi tipi di uomini, mi ispirano. E in effetti queste sono le storie che mi piace raccontare…».

Questa è una storia di fede, e lei è molto religioso. Sarebbe stato diverso se la persona non avesse fatto le cose che ha fatto per fede ma solo per convinzioni morali? «Forse, ma in generale in tempi di guerra la gente credo pensasse in termini di qualcosa di più grande di noi, ed era un fatto importante».

Non so quanti milioni di persone sono state massacrate in nome della religione e di dio, nei secoli, e viene in mente anche Silence di Martin Scorsese. Però Desmond Doss è il primo che si comporta come una persona religiosa dovrebbe comportarsi, è qualcosa che non si era mai visto sullo schermo. «Anche io mi sono detto “non ho mai visto una storia del genere in vita mia…”. La guerra è un fatto giustificabile? Non molto spesso. Ci sono momenti in cui puoi uccidere, ma io ammiro chi non tocca una pistola e non uccide».

Se le chiedessero di andare in guerra farebbe l’obiettore? «Se fossi in una situazioine simile credo che imbraccerei un fucile. Se poi la userei non lo so, e non voglio nemmeno saperlo».

In che situazione ha trovato la forza di fare qualcosa che non avrebbe fatto, senza il supporto della fede? «Penserà che scherzo, ma già per svegliarsi la mattina ci vuole molto coraggio».

È un tipo di regista che si arrabbia sui set? «Si ma non urlo mai (ride, ndr). Diciamo che si sentono forti i miei sospiri, gli attori li sentono. Mi dicono spesso che sono uno che è davvero sul set con loro, e che sente tutto quello che sentono loro. Credo sia vero».

Quando recitava le è mai capitato di trovare registi che non sembravano curarsi molto degli attori? «Non credo di aver trovato un regista uguale all’altro, ognuno ha un modo molto personale di guidarti. C’è chi ti lascia fare e chi ti sta addosso, ho lavorato con persone molto matematiche che dicono pochissime parole, ma capisci che gli va bene quello che fai. Si tratta di capire chi hai davanti e di muoverti di conseguenza».

Le è mai capitato di dire “oddio, sto girando una scena come Stanley Kubric”? «Credo che siamo tutti molto influenzati da quello che ci piace, anche da altri attori e registi. Di sicuro rubo, o prendo a prestito, molte cose».

Ha dichiarato di voler dirigere il sequel di La passione, è vero? «Al momento stiamo solo parlando della direzione del film, per le riprese potrebbero volerci ancora due anni. Non è un film facile, è una cosa grossa, non riesco neanche a iniziare a spiegarle quanto grossa».

Ci provi… «Lo spionaggio industriale è sempre in agguato (risata, ndr). Diciamo che ho idee non ortodosse sul tema e credo possano essere interessanti».

Vuole mostrare l’esperienza delle resurrezione? «È così, voglio mostrare le luci e le ombre, sarà un processo investigativo».

Preparandomi al nostro incontro mi è venuto in mente che lei è uno di 11 figli, condizione ideale per diventare attore: devi lottare per avere l’attenzione dei suoi genitori. «Io ero il sesto, stavo nel mezzo. Non ascolto troppo gli psicologi, ma dicono che è la posizione migliore, non so se è vero. Comunque conviene sempre immaginare di essere amati, è la cosa migliore».

I suoi ultimi dieci anni sono stati come le montagne russe, si sente tornato sulla retta via? «Sono stati dieci anni in cui ho imparato molto, e la vita in genere è un’esperienza da cui si impara. Ho avuto molti alti e bassi, ho lavorato molto su me stesso e mi sento in una posizione più sana, adesso. Ma è un processo in divenire, e credo lo sarà sempre».

Si sente una persona migliore? «No, non mi sento né migliore né peggiore. Ci sto solo provando, come del resto ho sempre fatto. Sono un essere umano che galleggia, come lei. O forse lei galleggi più di me…».

Cosa la aiuta in questo senso, ha qualche ispirazione? «Una volta una persona mi ha detto “l’1 per cento è ispirazione, il restante 99 è lavoro: devi sederti e farlo».

Avrebbe mai detto che Mad Max, il film che l’ha lanciata nel mondo, avrebbe avuto un tale successo, così tanti anni dopo la sua interpretazione? «George Miller voleva tornare a lavorarci già 12 anni fa, e lì ero coinvolto anch’io. Ma ci sono stati ritardi per mancanza di budget, nel frattempo io ho avuto le emorroidi, avrei avuto bisogno di un cuscino per guidare il carrarmato (scoppia a ridere, ndr)».

Dopo quaranta anni di onorata carriera nel cinema, cosa le piace di questo mondo, che le piaceva anche agli inizi? «Amo i film da quando ero un bambino, per me erano come dei grandi sogni. Non credo che quell’amore sia diminuito in alcun modo: quando dirigo sento ancora la stessa attrazione che sentivo guardando quei sogni alla tv, in bianco e nero».

Intervista pubblicata sul n.6 di Grazia il 26/1/2017

© Riproduzione riservata

Gli sherpa: «Noi, sopravvissuti sull’Everest».

01 mercoledì Feb 2017

Posted by cristianaallievi in Mostra d'arte cinematografica di Venezia, Quella volta che

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Baltasar Kormakur, Cristiana Allievi, Everest, Helen Wilton, Jack Gyllenhaal, Jan Arnold, Josh Brolin, sherpa

EVEREST: I SOPRAVVISSUTI SI RACCONTANO AL FESTIVAL DI VENEZIA


Helen Wilton, Jan Arnold, gli sherpa: ricordi della tragedia della scalata del 10 maggio 1996 in cui morirono 8 persone. Il cuore del film di Baltasar Kormakur

di Cristiana Allievi

“Di solito sappiamo bene come uscire dalle tempeste sull’Everest. Ma quella è stata fuori dall’ordinario…”.

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Jack Gyllenhall (a sinistra) e Josh Brolin (destra) in Everest, del regista islandese Baltasar Kormakur.

A parlare, a margine della presentazione del film Everest di Baltasar Kormakur alla 72esima edizione del Festival di Venezia, è uno degli sherpa sopravvissuti alla tragedia del 10 maggio del 1996 in cui persero la vita otto persone appartenenti alle due spedizioni che stavano scalando il tetto del mondo.

A ricordare quei momenti tremendi ci sono altre persone. Helen Wilton, la manager del campo base della Adventure Consultants,  a 5534 metri di quota, e la dottoressa Jan Arnold, moglie di Rob Hall, capo della spedizione, morto assiderato dopo aver cercato invano di assistere un cliente esausto: non avendo più forze per scendere a valle, è rimasto solo, esposto alle intemperie.

La Arnold, che ha conquistato l’Everest la prima volta nel 1993, è stata la dottoressa al seguito di varie spedizioni del marito. Quell’anno era casa dove ha ricevuto la tragica telefonata in cui la Wilton la metteva in collegamento con Rob per l’ultima volta. “Le sue ultime parole sono state: dormi bene tesoro, e non preoccuparti troppo di me… Dopo averlo sentito ho dormito per tutta la notte, non mi sentivo sola perché ero incinta della nostra bambina, ero molto protetta. Mi ci sono voluti diciotto mesi prima di crollare davvero”.

E ammette che certe cose, dentro di sé, si sentono. “Quando sposi uno scalatore degli 8mila speri di passarci insieme la vecchiaia, ma una parte di te sa che forse non succederà”. Ricorda quando è arrivata in cima a quegli 8848 metri la prima volta. “Vedevo quelle vette taglienti sotto di me, il cuore mi scoppiava. Ho dovuto aprire l’ossigeno, e Rob ha detto al povero sherpa di stare con me… Sapevo di essere una privilegiata, basta che sbagli il giorno e non ce la fai: è il destino che decide, al di là di tutti i dettagli logistici”.

E il giorno in cui il destino si è messo di traverso, al campo base c’era Helen Wilton che, disperata nel sentire la voce di Rob via radio senza più forze, ha tentato un gesto estremo: fargli sentire la moglie appunto. “La mia tragedia è stata l’attesa. Ho aspettato di sentire la voce dei dispersi per un tempo infinito, che il film non può rendere per questioni di durata complessiva. Quel vuoto non uscirà mai dalla mia mente. Come le immagini dei sopravvissuti arrivati al campo, sembravano tornati dalla trincea, erano esausti, congelati, piangevano…  Dopo averli soccorsi sono rimasta una settimana in più per portare giù tutte le attrezzature con gli sherpa, ma la mente non riusciva ad accettare che stavamo lasciando lì altri cadaveri. Non so quante volte mi sono voltata, sperando di vedere Rob tornare, per un miracolo”.

Gli sherpa sono elementi chiave di queste spedizioni, e anche quel giorno hanno constatato che la parte più pericolosa del loro lavoro non sono le slavine. “Per scalare una montagna simile devi sapere tutto sulla tua resistenza, sulle tue riserve. Il nostro rischio è l’ambizione delle persone quando non è supportata dall’esperienza: quando l’ego diventa la parte dominante di chi siamo, e non ne siamo consapevoli, arriva il pericolo”.

Si congedano raccontando com’è cambiato il Nepal, dopo l’ultimo grande terremoto. “È un paese traumatizzato, ma questo film sarà un grosso aiuto. Farà tornare il nostro paese  al centro della cronaca, e noi non desideriamo altro che il turismo riprenda quota. E anche se non vai sull’Everest, sei comunque nel paese in cui si trova quell’incredibile vetta…”.

Intervista pubblicata su Icon/Panorama  

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