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Luke Evans: il bacio al cinema che fa più paura della Bestia

22 mercoledì Mar 2017

Posted by cristianaallievi in cinema, Cultura, Miti, Personaggi

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Bill Condon, censura, Cristiana Allievi, Disney, GQitalia, La bella e la bestia, LeFou, Luke Evans, polemica gay

La versione live action del «cartone che ha rotto le barriere come il primo film del genere nominato agli Oscar» arriva in sala perfettamente sintonizzata col 2017, carica di un’emotività finalmente a tutto spettro ma quanto putiferio per una cosa normale

La bella e la bestia diretta di Bill Condon, versione live action del cartone del 1991 della Disney, che fu il primo film animato a ricevere una candidatura all’Oscar come Miglior lungometraggio – vincendone poi due, per la colonna sonora e la canzone originale-, e il primo film animato a superare 100 milioni di dollari di incasso al botteghino, è arrivato con ben 800 copie nelle sale di tutta Italia ma, guardando le coreografie del musical in cui le teiere danzano e i piumini spolverano, nessuno avrebbe immaginato di assistere al primo film della Disney che avrebbe sollevato un caso “morale”.La Bella e la Bestia

Un caso iniziato due settimane fa, alla prima londinese, coi click sul trailer schizzati alle stelle (128 milioni di visualizzazioni nelle prime 24 ore), dopo una dichiarazione del regista che, parlando con il magazine inglese Attitude, ha definito una scena finale del film “un momento bello ed esclusivamente gay”. Di cosa si trattava esattamente? Durante una baruffa tra Gaston e gli abitanti del castello in cui sta rinchiusa la Bestia, Miss guardaroba va contro tre ceffi di Gaston e li “traveste” da donna.La Bella e la Bestia

Uno di loro si guarda compiaciuto allo specchio. Poi, nella scena finale del grande ballo, danza con l’inseparabile amico di Gaston, LeFou. Unendo questi ‘ammiccamenti’ e la confusione che ha in testa LeFou al fatto che Bill Condon è apertamente gay, e che Luke Evans – che interpreta magistralmente Gaston – ha fatto coming out, qualcuno ha deciso che la nuova versione di La bella e la bestia farebbe “propaganda gay”.La Bella e la Bestia

 

Il primo gran rifiuto è arrivato dall’Alabama, dove un dive-in ha dichiarato che non avrebbe proiettato il film “per non compromettere quello che insegna la Bibbia”. Non si sa nemmeno se la Disney glielo aveva proposto o meno, ma fa niente. In Russia, paese in cui l’omoessualità è stata ufficialmente rimossa dalla lista dei disordini psichiatrici nel 1999, un deputato ha chiesto al ministro della cultura di vietare la visione del film agli spettatori sotto i 16 anni (ma la prima reazione era stata quella di vietare del tutto la proiezione nel paese). Ultimo caso, il più eclatante, la Malesia, in cui i censori hanno chiesto di tagliare la scena, ottenendo un secco no dalla Disney.

Bill Condon, regista e sceneggiatore premio Oscar, non ha dubbi quando gli si chiede se avrebbe mai pensato che LeFou poteva innamorarsi di Gaston. «Mai, devo ammetterlo. La nostra idea è che il personaggio in qualche modo sta cercando se stesso: un giorno vuole essere Gaston, il giorno dopo vuole baciarlo. È confuso su quello che vuole. Ma in senso più ampio, credo che sia importante celebrare l’amore in tutte le forme possibili. Siamo nel 2017, dobbiamo parlare al mondo in cui viviamo e sono molto contento che la Disney abbia supportato quest’idea. Quando abbiamo mostrato il film a un pubblico per testarlo ha risposto molto bene».

  1. La Bella e la Bestia

L’attore inglese Luke Evans, un superbo Gaston, aggiunge il resto. «Questo cartone animato ha rotto molte barriere, è stato il primo film del genere nominato agli Oscar, una cosa da non credere. Cosa penso del rapporto tra Gaston e LeFou? Non so se si tratti d’amore, non sono nemmeno sicuro che LeFou sappia cos’è», continua. «Direi che la sua è una “lieve infatuazione”, sta cercando la sua strada e vedere un uomo forte, che tutti nel villaggio amano, e a cui lui è vicinissimo, glielo fa vedere sotto un’altra luce. Nel ventunesimo secolo ci sta mostrare una persona lievemente diversa dalle altre, anche in un piccolo villaggio».

E considerato che i villani vogliono far fuori la Bestia, che è un altro “diverso”, ci sono altre sfumature che dovrebbero far riflettere. «L’aspetto della xenofobia non è stato pianificato», conclude Condon. «È grave, esisteva prima di Donald Trump e in molti altri paesi. Quello che amo di questo film è che le danze di tazzine e piumini riescono ad annullare tutto l’orrore del mondo».

La Bella e la Bestia

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Staley Tucci racconta l’artista Alberto Giacometti

16 giovedì Feb 2017

Posted by cristianaallievi in Berlinale, cinema, Cultura

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Alberto Giacometti, Armie Hammer, Clemence Poesy, cristianaallievi, Final Portrait, Geoffrey Rush, GQitalia, Stanley Tucci

Geoffrey Rush interpreta il geniale scultore svizzero in un film che, lontano dal classico biopic, sa essere folle e rock quanto il suo soggetto

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Armie Hammer e Geoffrey Rush in Final Portrait, di Stanley Tucci, in competizione alla 67 Berlinale (© Parisa Taghizadeh)

Ci sono lunghi minuti in cui il volto di Armie Hammer viene scrutato, scavato, quasi vivisezionato. A posarsi su di lui con una focalizzazzione assoluta è l’occhio di un artista che sembra vedere il mondo in modo diverso da come lo vediamo tutti noi. È questo il cuore di Final portrait, il quindo film che vede Stanley Tucci di nuovo dietro la macchina da presa, a 21 anni da Big Night. Nella pellicola, in concorso alla Berlinale, il regista e attore si focalizza sugli ultimi due anni di vita di Alberto Giacometti, scultore e pittore svizzero interpretato da un pirotecnico Geoffrey Rush, e ancor più precisamente sul suo incontro con l’amico scrittore e amante dell’arte James Lord, interpretato da un affascinante Armie Hammer (che a è presente al festival anche in Call me by your name di Luca Guadagnino, nella sezione Panorama). Non si tratta quindi di un classico biopic, ma della cronaca di un incontro tra due amici scandito in 18 giornate: tante ce ne sono volute perché James Lord potesse finalmente portare a casa un ritratto che Giacometti aveva promesso di eseguire in pochi giorni.

La storia è stata scritta da Tucci stesso, ispirandosi a un libro che aveva letto molti anni prima, ed è ambientata nella Parigi del 1964, quando Giacometti ha 64 anni e il suo amico Lord ne ha appena compiuti 40. Quest’ultimo si trova di passaggio nella città durante un viaggio, quando il pittore e scultore di fama mondiale gli chiede di posare per un ritratto, e lui accetta. James è un osservatore, ed è quindi un tipo più passivo. Vuole scrivere si Giacometti, farsi fare un ritratto da lui ma più di tutto è un amico che vuole passare tempo assieme, per conoscersi meglio. Quello di cui parlano in questi 18 giorni finirà nella biogarfia del pittore. Lo spettatore godrà delle nuanche di una particolarissima amicizia, ma soprattutto riceverà molte informazioni sulla frustrazione, la profondità e il chaos del processo creativo dell’artista.

«Il lavoro di Giacometti mi piace moltissimo, è antico e moderno insieme, e soprattutto è vero», racconta Tucci, che ha fatto riprodurre le sculture e i dipinti che si sarebbero trovati nello studio del maestro da un team di quattro artisti. «Una delle cose che amo di lui è lo spazio che crea, intorno alle figure, nel caso delle sculture, dentro la tela se si tratta di quadri. La posizione in cui le persone si collocano nello spazio dice moltissimo delle loro relazioni, del loro comportamento». Le immagini sono splendide, la saturazione del colore varia durante il film. «Lo avrei girato in bianco e nero, ma sarebbe stato più difficile da distribuire, così ho optato per una palette vicina ai colori dei lavori di Giacometti. Siccome è un film ambientato negli anni Sessanta, non volevo che Parigi diventasse troppo romantica e nostalgica, volevo fosse reale. Con Danny Cohen, direttore della fotografia, abbiamo girato con due macchine da presa in simultanea, per questo il tono del film è molto naturalistico». E, per dirla con le parole della sua protagonista femminile, Clemence Poesy, «è molto più rock and roll dei film d’epoca».

Tucci ha pensato a Geoffrey Rush molto prima di iniziare a lavorare al film, perché il suo volto è molto vicino a quello di Giacometti. Ma ha dovuto accorciarne e rafforzarne l’esile figura attraverso un accorto uso dei costumi. Mentre per affiancarlo ha avuto gioco facile con il californiano Armie Hammer, perfetto per calarsi nei panni dell’americano affabile e lievemente stiff. Unico dubbio, che fosse troppo bello per il ruolo. «Com’è stato lavorare con Geoffry? A parte il suo senso dell’umorismo, che non ha smesso di colpirmi ogni giorno, è stato come giocare una partita di tennis con qualcuno che è talmente più bravo di te da elevare il tuo stessogioco. Tutto quello che dovevo fare era sedermi e veder recitare uno dei miei idoli, niente male direi, ricomincerei subito (risata, ndr)».

Il padre di Armie è stato un collezionista d’arte, c’è da chiedersi se la cosa lo abbia influenzato. «Mi piace considerarmi un artista, la mia relazione con l’arte forse è più diretta».  Il finale di Final portrait ha un ritmo veloce. Dopo aver cambiato per tre volte la data del suo rientro, James Lord decide di dare una scadenza definitiva a Giacometti per tornare negli States. «Il ritratto finale è un compromesso, i due amici non si sono mai più rivisti», conclude Tucci. «Ma questo non conta. La sensazione che volevo lasciare nello spettatore – in un’epoca in cui grazie ai social pensiamo di dover mostrare sempre tutto per avere successo – è che Giacometti avrebbe rifatto tutto daccapo, era il suo modo di lavorare. E nonostante non fosse mai soddisfatto del proprio lavoro, questo ritratto “incompiuto” l’anno scorso è stato venduto per 20 milioni di dollari. Non male, direi»

Pubblicato su GQ.it

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The Bomb, 70 anni di nucleare in 50 minuti di immagini e musica

15 mercoledì Feb 2017

Posted by cristianaallievi in Cultura, Festival di Berlino

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67Berlinale, armi nucleari, Eric Schlosser, GQitalia, Kevin Ford, Radiohead, Smriti Keshari, The bomb

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The bomb, diretto da Kevin Ford, Smriti Keshari e Eric Schlosser (photo by  Stanley Donwood & Teh Kindom of Ludd).

Un giornalista, due registi indipendenti e il grafico che ha dato un’immagine forte ai Radiohead uniti a raccontare l’orrore e insieme il fascino inquietante (e tutto maschile) delle armi nucleari

Sul palco ci sono sintetizzatori, computer, chitarre. Sullo schermo iniziano a scorrere immagini che, da un satellite, volano su tutta la superficie terrestre. È il momento in cui parte la musica live dei The acid, quattro musicisti guidati dal dj inglese Adam Freeland. Il ritmo incalza, sullo schermo passano memorabili immagini di marce militari in diverse parti del globo, seguite da parate di carrarmati. Ed ecco che, in pochi minuti, partono missili da ogni dove, da terra, dal mare, dal cielo. E uno solo di quei missili sottomarini, si scoprirà, è in grado di radere la suolo più di cento città.

La 67ma Berlinale ha appena aperto la sua sezione Berlinale Special con The bomb, un progetto multimediale creato da Smriti Keshari, Eric Schlosser e Kevin Ford che immerge lo spettatore in uno scenario intenso, spiazzante e disperato: quello delle armi nucleari. Per raccontare questo viaggio di 50 minuti tra musica, immagini di repertorio, animazione e testi che illustrano i settant’anni passati da quando l’ultima città è stata rasa al suolo grazie al nucleare, i creatori hanno passato in rassegna tonnelate di materiale d’archivio.

«Per almeno quindici anni sono stati girati filmati che sono stati tenuti nascosti, ma alla fine della guerra fredda tutto questo materiale è stato declassificato», racconta Eric Schlosser, scrittore e giornalista candidato al Pulitzer, autore di quel Command and control da cui è stato tratto il documentario di Robert Kenner candidato agli Oscar di quest’anno.

«Dal 1991, con la dissoluzione dell’Unione Sovietica, nessuno si è più curato delle armi nucleari. All’epoca stavo scrivendo il mio libro e collezionavo immagini e informazioni su tutto, ricordo che delle varie categorie in cui mi sono imbattuto la mia preferita era la “cosmic top secrets”: l’ho interpretata pensando che non dovevo parlarne con gli alieni», scherza.

«I documentari erano così ricchi di informazioni che abbiamo deciso di riportarli in vita», prosegue Smriti Keshari, regista indiana americana nota per le sue storie capaci di ispirare un cambiamento sociale. «A quel punto abbiamo pensato a Stanley, perché viene da un lavoro “politico”. Il tocco moderno a questo mare di informazioni è suo».

Stanley Donwood è uno degli artisti grafici più famosi d’Inghilterra, colui che ha dato un’immagine forte ai Radiohead (con cui lavora da 20 anni) e noto per le sue campagne contro il nucleare. «È incredibile pensare che dietro le armi che mostriamo allo spettatore ci sia qualcuno che le ha concepite, disegnate e poi progettate. Lungo tutto il processo costruttivo coloro che hanno disegnato la prima atomica erano consapevoli che avrebbe ucciso qualsiasi essere vivente sulla terra, ma sono andati avanti e hanno testato i dispositivi lo stesso».

Nel viaggio dal Trinity Test del 1945 allo stato del nucleare nel 2017, in cui sul pianeta nove nazioni possiedono quindicimila armi nucleari, di cui quelle americane sono 20 volte più potenti della bomba sganciata su Hiroshima, la musica di The acid gioca un ruolo emotivamente centrale: rende lo scenario molto affascinante, al punto da chiedersi se l’effetto non sia contrario a quello che dovrebbe suscitare.

«Sarebbe stato troppo semplicistico mostrare solo cadaveri e distruzione», crede Schlosser. «La tecnologia e le esplosioni hanno un fascino reale, c’è qualcosa di maschile e meraviglioso nelle forme di queste armi e credo che per capirle davvero si debba sentire quel sentimento di attrazione. Poi si spera che quando le cose prendono un’altra piega si capisca che non si tratta di fuochi d’artificio, ma di gente che sta sta facendo esperimenti terrificanti».

Del progetto fa parte anche Kevin Ford, scrittore e regista di vari film indipendenti. Ha girato anche un corto sul libro di Schlosser con musiche dei Radiohead. «A un certo punto del film è stato molto importante lasciare un silenzio assoluto. Lo spettatore fa un’esperienza intossicante con la musica, poi quando arriva allo sgancio dell’atomica sul Giappone, sparisce tutto. Alcuni sopravissuti di Hiroshima e Nagasaki hanno dichiarato di aver sentito un silenzio assoluto e terrificante, all’improvviso».

Gli Usa e la Russia possiedono più del 90% delle armi nucleari, e oggi in quattro minuti il mondo potrebbe finire grazie a queste macchine mostruose.
Dov’è il pericolo più caldo, secondo i creatori di The bomb?
«India e Pakistan stanno ricreando uno scenario preoccupante. Usa e Urss si odiano, ma a una distanza di migliaia di chilometri; l’odio tra vicini è più intenso e insopportabile».

Ford recupera una speranza dal passato. «Una delle frasi più forti del film, non a caso, è di Ronald Regan, quando dice “spero nel giorno del totale disarmo”. Questa è l’unica conseguenza logica, fa parte della nostra evoluzione umana andare oltre questo orrore».

Articolo pubblicato su GQ.it

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Il battito animale di Fassbender

10 martedì Gen 2017

Posted by cristianaallievi in cinema, Mostra d'arte cinematografica di Venezia, Personaggi

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12 anni schiavo, Alicia Vikander, Assassin's Creed, Cristiana Allievi, DannyBoyle, GQitalia, Jameson, La luce sugli Oceani, Macbeth, Michael Collins, Michael Fassbender, Steve Jobs, Steve McQueen

IL TALENTO NATURALE? «QUANDO NON SAI MAI COSA ASPETTARTI, COME CON MARLON BRANDO». LA FAME? «ALL’INIZIO L’AVEVO, È NECESSARIA E POTENTE». MICHAEL FASSBENDER È IN ASSOLUTO IL PIU’ FISICO DEGLI ATTORI DEL MOMENTO. UNO CHE SI SPINGE OLTRE, SEMPRE. PER SOPRAVVIVERE A SE STESSO.

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L’attore Michael Fassbender, 39 anni, uno dei maggiori talenti in circolazione (courtesy of GQ.it)

«Hai una fame feroce, quando sei agli inizi e cerchi di fare quello che davvero desideri nella vita. Io almeno l’avevo. E’ necessaria ed è potente. Oggi sono ancora molto appassionato, amo quello che faccio, ma in modo più rilassato». Mi chiedo se non abbia il potere di leggere il pensiero, Michael Fassbender. Perché appena me lo trovo davanti ho la sensazione che sia più rilassato di una manciata di anni fa. E pensare che prima del 2007, a 30 anni compiuti, il ruolo per cui era più famoso era uno spot della Guinness. Poi, partendo da Hunger, che guarda caso significa fame, ha regalato ogni possibile declinazione del disagio fisico e psicologico – dalla brutalità agli scioperi della fame, dalle dipendenze dal sesso alle seduzioni pericolose – in un crescendo di estremi cinematografici per due dei quali è stato candidato agli Oscar: nei panni dell’algido e geniale creatore di Apple, in Steve Jobs, il cui motto era “stay hungry, stay foolish”, e in quelli dello spietato schiavista Edwin Epps in 12 anni schiavo. Fino al giardino di un faro di fronte alle coste dell’Australia che in La luce sugli oceani (accanto ad Alicia Vikander, sua compagna anche nella vita) cresce un bambino che ha salvato da una barca a remi alla deriva, passando per il difensore dell’umanità di Assassin’s Creed, in questi giorni al cinema.

È una mattina di sole sfavillante e Michael Fassbender indossa camicia bianca con jeans e giacca blu. Mi racconta una parte importante della sua identità che ormai ci si dimentica, offuscati dalla bravura delle sue performance, ma che forse ne sta proprio alla base. «Mio padre è tedesco e mia madre un’irlandese del nord, di Antrim, era la nipote di Michael Collins. Io mi sono sempre sentito il diverso del gruppo». Non ha un fascino aggressivo;  i suoi modi sono gentili,  i suoi sono accoglienti, per niente disperati.

Lei è la prova inconfutabile del fatto che recitare fa risparmiare un sacco di soldi dall’analista. «Serve a capire meglio se stessi e gli altri. E oggi so per certo che tutti sono capaci di fare cose terribili. Meglio non averle a portata di mano, me l’ha insegnato Macbeth».

Ha dichiarato “la sopravvivenza è sopravvivenza”: cosa significa questa parola per lei? «Essere capaci di adattarsi, il potere dell’adattamento è la più grande qualità in un uomo».

La possiede? «In un certo senso è qualcosa che ho ereditato da una parte della mia famiglia. Gli irlandesi sono stati colonizzati, sono emigrati, hanno subito la carestia, in milioni si sono ritrovati sulle navi, credendo di andare a Liverpool e ritrovandosi invece in Australia… Diciamo che la capacità di adattarsi è qualcosa che hanno dovuto sviluppare».

È stato come una meteora, in una manciata di anni è arrivato al top: la velocità le piace? «Ho guidato la prima auto che avevo 12 anni, e da allora non ho mai smesso di correre sui kart. Fuori Londra ci sono un paio di circuiti, entrambi abbastanza veloci, quando scendo in pista mi diverto ancora, in un certo senso mi rilasso. È qualcosa che sento facile».

So che ha provato anche il brivido della Ferrari. «A ottobre sono stato a Maranello per la prima volta, un sogno per me. Sul circuito di Fiorano ho guidato una 488 GTB e una F12 berlinetta. Nei primi giri ero piuttosto stressato, ma una volta imparato a convivere con la velocità e assorbite tutte le informazioni che mi sono state date le cose sono cambiate. Guidare su una pista, il più veloce possibile, è una specie di meditazione».

Se penso alle parole di Danny Boyle, che l’ha diretta in Steve Jobs e ha detto “mi ha impressionato la qualità di assoluto fascino che applica ferocemente per raggiungere la perfezione in quello che fa”, mi viene in mente un altro Michael: Schumacher. «È sempre stato un mio idolo, e la vittoria di cinque campionati del mondo consecutivi una grande fonte di ispirazione».

Anche a lui hanno dato del maniaco e dell’egoico. «È vero, faccio molti compiti a casa, anche perchè sono lento nel memorizzare. Leggo una sceneggiatura almeno 200 volte, la ripercorro in lungo e in largo guardando le cose da ogni angolazione. Poi però al primo ciak in un certo senso butto tutto dalla finestra: è da lì in avanti che inizio a godermi davvero il mio lavoro».

Le sue performance sono molto fisiche, del resto. «Ho iniziato col teatro pop e la pantomima, sono entrambi molto fisici nel modo di raccontare una storia. Quando ho frequentato il Drama centre di Londra ho approfondito anche la danza e il lavoro sul movimento in genere: tutt’oggi quando mi avvicino a qualcosa penso quasi esclusivamente in termini di fisicità».

Faccia un esempio. «Se devo interpretare un contadino mi focalizzo sul peso che porta, su come trasporta gli oggetti: quello che voglio arrivare a mostrare è la forza che lo connette alla terra e che non ottieni andando in palestra».

E dire che Fassbender, quando aveva 19 anni, fu rifiutato da ben due scuole di recitazione. Il direttore di una delle due  quasi lo annientò, dicendogli: “Riconosco un vero attore da come entra in questa stanza, e lei non lo è”. Non l’unica svista, se si pensa che Steve McQueen, il regista con cui ha girato tre capolavori, lo aveva mandato via al primo provino. Fu il suo casting director a dargli una seconda chance.

In un corto diretto da Bruce Weber, sul set di un servizio fotografico lei accenna al “corpo dell’animale istintivo”. «Lo vedo solo in due attori, Marlon Brando e Mickey Rourke. Il fatto di non sapere mai cosa uscirà da quei corpi li rende così interessanti da guardare, è quello che definisco avere un talento naturale».

Come si sente a spingersi oltre, come fa sempre? «Male, ma per fortuna dura poco. Se penso ai miei film con McQueen sono trenta giorni di riprese ciascuno. Ho un mio modo di ribilanciarmi: lavoro molto duramente quando è il momento di farlo, e non appena si spengono i riflettori mi lascio tutto alle spalle».

Ci riesce davvero? «Ci riesco. A essere sincero una parte del mio cervello è sempre impegnata, ma se esco con gli amici non voglio essere quello che si porta dietro il lavoro, non mi diverto. Soprattutto, non voglio correre il rischio più pericoloso, che è essere ossessionati da se stessi».

Chi sono i suoi amici? «Non ne ho (scoppia a ridere, ndr). Scherzo, sono ancora quelli di una volta e per me è fondamentale passar del tempo insieme  a loro».

E a berci sopra? «Alla fine della giornata non disdegno un whiskey, meglio se irlandese come il Jameson. Ma non posso eccedere perché mi disturba lo stomaco, e dev’essere il drink di un fine serata».

Adesso, invece, che è mezzogiorno? «(ride, ndr) Non ho paletti troppo rigidi, ma per quest’ora direi che è più indicata una coppa di champagne».

A giugno tornerà nella sua Irlanda e per non smentirsi sarà di nuovo un amorale, in Codice criminale. Ma prima, a marzo, interpreterà un veterano della Grande guerra in La luce sugli Oceani diretto da Cinfrance e tratto dal bestseller di M.L. Stedman. «In superficie Tom è un uomo molto contenuto, all’apparenza sembra svuotato, ma sotto sotto c’è una tempesta. È come una pentola d’acqua bollente con un coperchio sopra».

Guarda il caso… «Vuol sapere la verità? Secondo me si sono messi tutti in testa che sono un dannato e non vogliono darmi parti che fanno ridere».

Non solo, stavolta la isolano a Janus Rock, dove c’è solo un faro circondato dall’oceano. Come si sente negli spazi incontaminati? «A casa. Sono cresciuto in una campagna meravigliosa, a County Kerry, i miei si sono traferiti lì da Heidelberg quando avevo due anni. Se mi allontano per troppo tempo dalla natura ne sento il richiamo, sta diventando una parte sempre più essenziale nella mia vita. Mi piace come il ritmo del mio corpo risponde a quell’ambiente. Più invecchio, più mi sento diverso in città».

Cover story di GQ Italia gennaio 2017 

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Kim Rossi Stewart: Tommaso e i quarantenni irrisolti

10 sabato Set 2016

Posted by cristianaallievi in cinema, Mostra d'arte cinematografica di Venezia, Senza categoria

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Anche libero, Anche libero va bene, Cristiana Allievi, GQitalia, Kim Rossi Stewart, Tommaso, Venezia 73

Un film sulla mente che passa molto anche per la carne. Con qualche elemento autobiografico e molta riflessione sulla oggettività difficoltà (generazionale?) di riuscire a stare sulle proprie gambe abbastanza da viversi appieno e fino in fondo

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Kim Rossi Stewart, attore e regista romano, 47 anni. 

«È un film sulla mente, e a livello emotivo coinvolge meno del mio lavoro precedente. Del resto da quando l’uomo si è civilizzato e la sua intelligenza si è staccata da quella animale, con la mente bisogna farci i conti, nel bene e nel male». Così Kim Rossi Stewart racconta Tommaso, il film presentato fuori concorso a Venezia e da oggi al cinema.
È la storia di un uomo sulla quarantina che non riesce a tenersi accanto una compagna. Sogna fantastiche avventure con le donne, in realtà è congelato emotivamente e allontana sistematicamente chi gli si avvicina valicando i confini delle sue difese emotive. Dietro una specie di coazione a ripetersi ci sono due realtà, una madre assente e un bambino interiore con cui ha perso il contatto. Bambino che, dieci anni fa, stava al centro del primo lavoro dietro la macchina da presa del regista romano, Anche libero va bene, e che allora veniva abbandonato dalla madre. Ma mentre quella pellicola era riuscita nella sua analisi della relazione genitori-figli, in Tommaso sembra mancare il distacco necessario per ottenere lo stesso effetto.

Da una parte al regista va il merito di essersi messo al centro del proprio lavoro, con l’escamotage di far fare al suo protagonista il lavoro di attore in crisi. Dall’altra questo autobiogafismo è il punto debole del film: Rossi Stewart sembra troppo coinvolto col suo protagonista – che poi è se stesso- per poter restituire un racconto efficace e interessante. «Girando Tommaso mi sono trovato a valutare cosa può rappresentare, oggi, l’atto di mettersi a nudo. Ho giocato molto con questo aspetto, non so nemmeno io quanto lo abbia fatto. Avrei potuto scegliere altri mestieri per il mio protagonista, ma trovo che spogliarsi, con una buona dose di sincerità, sia un atto molto civile, etico e moralmente giusto. Se tutte le persone avessero questo obiettivo, dai capi di Stato alle persone più semplici, staremmo tutti molto meglio».

Tommaso è un attore frustrato che vorrebbe girare un film in cui racconta le proprie angosce interiori, ma nessuno glielo vuole produrre, e da spettatori si ha la sensazione di guardare proprio quel film a cui il protagonista allude. A un certo punto della storia dice “Io muoio, se non riesco a esprimermi liberamente”, frase che fa di nuovo pensare a chi sta dietro la macchina da presa. «La scelta del mio mestiere dice quanto questa frase mi riguardi, da sempre», racconta l’attore che più di vent’anni fa ha raggiunto la fama in tv grazie a Fantaghirò, e che a cinque anni era già sul set con il padre, attore e assistente alla regia. «Il mio lavoro mi ha sempre permesso di esprimere in modo libero tante questioni emotive. Poi c’è la vita privata, in cui l’espressione di me stesso ha il suo spazio».

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Rossi Stewart con Jasmine Trinca, una delle interpreti di Tommaso. 

I punti in cui Tommaso respira meglio sono forse quelli che ruotano intorno a sesso e seduzione, in cui si ha la sensazione di uscire da una zona di nebbia e di essere finalmente coinvolti. Mentre secondo Kim le immaginazioni erotiche sono un segnale a indicare la temperatura del malessere del suo protagonista, l’incapacità di vivere le cose concrete della vita, «la sessualità tira fuori gli aspetti più animaleschi, diretti e meno razionali di noi stessi, ed è nella natura delle cose che questo si senta nel film».

Senza svelare il finale della storia, non si può dire che Tommaso ne esca risolto. «Nel suo percorso viene risucchiato da una spirale, ma la cosa non è negativa», conclude Rossi Stewart. «Perché arriva a toccare il fondo, rischia, con coraggio, e secondo me entra in una nuova fase della vita. Ai miei occhi Tommaso riesce a uscire dalla ruota del criceto, scoprendo che quando si è in grado di stare sulle proprie gambe si è pronti per una relazione di coppia e per la grossa condivisione che questa comporta».

Se sente che il suo film appartiene a qualche genere? «So che ai giornalisti piacciono i paragoni, ma fatico ad associare questo film a qualcosa, se appartiene a un filone è quello autoreferenziale. Sono così ambizioso da voler creare qualcosa di unico, non mi vergogno ad ammetterlo».

 

Articolo pubblicato da GQItalia.it

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Tom Ford: «Vi racconto la nostra paura di viverci fino in fondo».

04 domenica Set 2016

Posted by cristianaallievi in Moda & cinema

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A single man, Amy Adams, Back to Black films, Cristiana Allievi, GQitalia, Jake Gyllenhaal, Nocturnal Animals, Tom Ford, Venezia 73

Il senso delle scelte, la capacità di capire «chi sono le persone che contano, per tenercele strette», la necessità di ascoltarsi e «avere fiducia in se stessi» ma anche l’arte ironica di «goderti l’assurdità del mondo che ti sei scelto». Il regista couturier regala Nocturnal Animals, un altro film esteticamente perfetto e insieme profondo

Risultati immagini per Tom Ford Venezia 2016

Il regista, produttore e stilista texano Tom Ford, 55 anni.

Dopo aver visto Nocturnal Animals non stupirebbe scoprire che Tom Ford sa anche cantare, perché è una delle poche cose che non lo abbiamo (ancora) visto fare.
Sul fatto che sappia dirigere e scrivere una sceneggiatura, ormai nessuno può avere più dubbi, e si scoprirà anche se vincerà la nuova sfida di produttore, avendo creato da poco la sua Back to Black Films.

Il secondo film da regista dello stilista texano, presentato oggi in concorso alla Mostra d’arte cinematografica di Venezia e applauditissimo dalla critica, presenta un apprezzabile lavoro di adattamento del libro Tony and Susan di Austin Wright, del 1993.

È la storia di una donna, Susan (Amy Adams), gallerista di New York, che a un certo punto riceve un manoscritto. Lo ha scritto il suo ex marito Tony (Jake Gyllenhall), un aspirante scrittore che finalmente colpisce nel segno. Il libro si chiama “Nocturnal Animals”, ed è violento fino all’horror, con uno scopo: far rivivere a Susan la sua vita con l’ex marito, con tutta la sua incapacità di amarlo includendo le sue fragilità.

Leggendo quelle pagine Susan rifletterà su tutta la sua vita, e sulla propria incapacità di accettare se stessa e la propria natura, tratto che l’ha portata a vivere una vuota vita borghese.

«Il senso di questa storia è capire chi sono le persone che contano, nella nostra vita, per tenercele strette», racconta il regista.
«Ma si tratta anche di avere fiducia in se stessi. Il personaggio di Amy Admas, Susan, è vittima della propria insicurezza, cade in quello che gli altri volevano che fosse, nello specifico sua madre, invece che in se stessa. Rappresenta la mia parte femminile, mentre Jake, che recita un uomo che viene dal Texas, e che non è il tradizionale macho ma è sensibile, rappresenta il mio maschile. Ed è un uomo che alla fine, perseverando sulla propria strada, diventa più forte».

La sequenza di apertura del film, con donne grassissime alla Botero, che ballano vestite solo di stivali e cappello da majorettes, catturano prepotentemente l’attenzione dello spettatore. «Volevo ambientare la storia in un mondo contemporaneo, ed enfatizzare alcune delle sue assurdità. Di solito non amo quando nei film l’arte è falsa, così ho dovuto inventare la scena iniziale, e l’ho fatto mettendo la testa in un immaginario di artista. Ho vissuto gli ultimi 27 anni in Europa, così ho pensato a un artista europeo che esagera, con queste donne cariche di dettagli americani, grasse ed eccessive. Mentre giravo mi sono innamorato di loro, erano così belle, felici, libere perché hanno abbandonato tutte le convenzioni culturali su come le donne dovrebbero essere. Bisogna lasciar andare l’idea di come dovremmo essere per trovare chi siamo davvero», continua Ford.

Uno stilista sul set, Tom Ford e la coppia Gyllenhaal-Adams: "Un tuffo dentro l'io"

Il regista (al centro) con il cast di Nocturnal Animals, film in concorso alla 73° Mostra d’arte cinematografica di Venezia.

Il film è esteticamente perfetto, come il precedente, e si mantiene in un equilibrio pericoloso e straordinario, estetizzando anche i momenti più brutali della storia, come quello in cui si vedono i cadaveri di due donne perfettamente adagiati su un divano rosso, in mezzo a una discarica. «Per me lo stile deve servire la sostanza, sempre, in particolare nei film. Il personaggio di Susan dice a Jake “dovresti scrivere di te stesso”, e lui le risponde “nessuno scrive di altro che non sia se stesso”. Lei in quel momento è sdraiata su un divano rosso, e lo fa arrabbiare moltissimo. Per questo quando lui nel libro la “uccide”, torna di nuovo il divano rosso: l’uomo vuole far provare alla ex moglie quello che ha provato lui, e io lo restituisco visivamente».

Nel film si conversa anche sul fatto di non essere felici del proprio lavoro e della propria carriera, che si porta avanti solo per dovere. «Da giovane sei ottimista», prosegue il regista, «e sei attratto da cose che sembarno meravigliose ma solo superficialmente. È così che crescendo ti trovi intrappaolato, perchè devi pagare le bollette e mandare i figli a scuola. A quel punto non ti resta che goderti l’assurdità del mondo che ti sei scelto».

Il film non ha un lieto fine, e per Ford questo è un bene. «Non sapremo cosa farà la donna protagonista, di certo però non tornerà alla sua vita: il suo passato è definitivamente alle spalle, in questo senso il film contiene una trasformazione».

Alla domanda se vuole dedicare più tempo alla regia, in futuro, compatibilmente con tutti i suoi impegni, risponde sorridendo. «Non vedo l’ora di girare il prossimo lavoro, ma non è ancora il momento di rivelarne i dettagli. Posso solo dire di essere old fashion, il mio intento quando dirigo una storia è sempre farmi domande sulla mia vita. E se lo spettatore lascia il cinema senza essersi fatto domande, vuol dire che il film che ha visto ha fallito…».

 

Articolo pubblicato da GQItalia sett 2016

© Riproduzione riservata 

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