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Cristiana Allievi

~ Interviste illuminanti

Cristiana Allievi

Archivi Mensili: aprile 2015

Charlotte Gainsbourg, «Finalmente ho smesso di paragonarmi a Serge, mio padre»

29 mercoledì Apr 2015

Posted by cristianaallievi in cinema

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Charlotte Gainsbourg, Cristiana Allievi, Donna Moderna, Jane Birkin, Lars Von Trier, Nymphomaniac, Omar Sy, Samba, Serge Gainsbourg, Yvan Attal

Tra una risposta e l’altra Charlotte Gainsbourg beve varie tazze di tè verde. E sorride. Fa uno strano effetto trovarla così serena, dopo averla vista sul grande schermo devastata dalla perdita del figlio in Antichrist, sconvolta dall’imminente fine del mondo in Melancholia, dipendente dal sesso in Nymphomaniac. I tre film di Lars von Trier l’hanno resa un’attrice cult, ma ci hanno fatto conoscere solo il suo lato tormentato. Adesso Charlotte, 43 anni, figlia Serge Gainsbourg, la più grande e provocatoria rockstar di Francia, e della diva del cinema Jane Birkin, è finalmente protagonista di una commedia: Samba, al cinema dal 23 aprile. Interpreta Alice, dirigente d’azienda che in seguito a un esaurimento nervoso decide di cambiare vita. Va a lavorare per un’associazione di volontariato e qui si innamora di Samba, un clandestino senegalese aspirante cuoco, interpretato Omar Sy.

Quanto c’è di te in Alice? «Parecchio. Lei ha un crollo psicofisico, io da ragazza ho sofferto di depressione. So cosa significa essere isolata, persa nelle tue preoccupazioni, ossessionata dalle bugie che racconti a te stessa: sono stati d’animo che causano dolore fisico e psicologico».

Che ricordi hai di quel periodo? «All’epoca in cui stavo male tutti mi dicevano che per guarire dovevo fare un piccolo sforzo. Mi ripetevano: “Guarda quante cose meravigliose hai…”. Ma non funziona così, a volte non basta la volontà per riuscire a reagire, anche perché quando sei depressa hai la sensazione di essere del tutto diversa da quella che eri».

Cosa ti ha aiutato a uscirne? «Riemergere da quel vortice è difficile, non so spiegare come accada. Di sicuro, è importante avere qualcuno a cui appoggiarsi, qualcuno di “reale” che ti  accompagni nel percorso per dissolvere l’incubo in cui ti trovi. Nel film Alice si innamora, e questo le dà una via d’uscita più facile».

Anche tu hai incontrato il tuo compagno, il regista e attore Yvan Attal, subito dopo la morte di tuo padre Serge. «Avevo 19 anni ed ero un relitto, passavo ore e ore ad ascoltare le canzoni di papà allo stereo solo per sentire la sua voce… Mi sono compiaciuta nel dolore, ci sono voluti anni per riprendermi. Ma Yvan è stato paziente, mi ha aspettato».

Charlotte Gainsbourg, 44 anni, attrice. Con Independence day 2 farà il suo ingresso a Hollywood.

Charlotte Gainsbourg, 44 anni, attrice. Con Independence day 2 farà il suo ingresso nel cinema di Hollywood.

E adesso avete 3 figli: Ben, 18 anni, Alice, 13, e Joe, 3. «Siamo una famiglia tranquilla,  in questo non ho seguito le orme dei miei genitori (che negli anni ’70 furono protagonisti di una storia d’amore tanto scandalosa quanto tormentata, ndr). Sto con Ivan da 23 anni, trascorro molto tempo con i nostri figli e trovo la routine quotidiana rassicurante per loro. Verso me stessa, però, sono severa, ipercritica. Sentirmi in bilico è parte della mia identità».

 Il tuo personaggio in Samba fa molte battute ironiche su se stessa e il sesso. Credi che recitare nuda, per di più in scene estreme, nei film di Lars von Trier ti abbia “sciolto”? «Lavorare con lui mi ha cambiata: fino a qualche anno fa mi vergognavo del mio corpo. Posso dire che esiste un “prima” e un “dopo” Lars. E non solo dal punto di vista del nudo e del sesso. Ho scoperto di avere tanta rabbia dentro e l’ho buttata fuori grazie a quei film: ho pianto e gridato come una disperata. Sul set tutto era spinto così al limite che niente era più un problema. E questo, dopo, mi ha dato tranquillità e portato ad affrontare le cose in modo più rilassato».

La Gainsbourg in una scena di Samba, con Omar Sy (cortesi of primissima.it).

La Gainsbourg in una scena di Samba, con Omar Sy (courtesy of primissima.it).

(continua…)

Intervista integrale su Donna Moderna del 28/4/2015

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Kenneth Branagh, «Amleto è un leader, oltre che un gentleman»

21 martedì Apr 2015

Posted by cristianaallievi in cinema

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Amleto, Camelot, Cenerentola, Chris Hemsworth, Christian Bale, Cristiana Allievi, De Niro, Disney, Enrico V, Kenneth Branagh, Kentucky Derby, Marvel, Shakespeare, Thor, Tom Clancy, Wallande, Wasp

Kenneth Branagh, l’enfant prodige di Hollywood,  ha mixato con uno stile unico cinema e serie televisive, Shakespeare e supereroi della Marvel. Uscito indenne dalla campagna mondiale di Cenerentola, a Icon racconta di quando era bambino e della figura di suo padre. Ma anche di due debolezze: per il puritanesimo e i clan. E poi c’è quel rimorso segreto… 

Non c’è modo di sfilarsi dall’argomento. Ha appena ordinato un caffè e vuole sapere perché non ne voglio uno anch’io. Scoperto che ho abbandonato l’abitudine, vuole sapere quando e perché. Il tutto mentre mi prepara un tè verde con le sue mani, nella suite di un hotel a cinque stelle nel cuore di Berlino. Dettagli da cui si intuisce quanto un uomo sia interessato al cuore e alla mente degli esseri umani. Il suo, di cuore, batte per domande esistenziali. Ma non disdegna le serie tv (vedi alla voce Wallander, in cui nei panni di un ispettore di polizia si è aggiudicato una pioggia di nominations) né le produzioni hollywoodiane ed europee (passa da Thor alla nuova Cenerentola della Disney, un successo nelle sale, lo scorso marzo). Insomma Ken- per colleghi e amici- è anche uomo da record terreni. Con Orson Welles, Laurence Olivier, Woody Allen, Warren Betty e Roberto Benigni è uno dei sei uomini ad essere stati nominati agli Academy Awards come miglior attore e miglior regista per lo stesso film. Ma già a 23 anni era il più giovane attore della Royal Shakespeare Company ad aver mai interpretato il protagonista dell’Enrico V. Il record più peculiare, però, risale all’età di 28 anni, e non ne va affatto fiero, come racconta ad Icon. In giacca blu spigata, camicia bianca e sciarpa di seta color ghiaccio, sembra di ottimo umore.

Attore e regista, 55 anni, Branagh è nato a Belfast (courtesy of http://www.listal.com)

Dagli eroi di Shakespeare a quelli della Marvel, passando per Jack Ryan, celebre personaggio dei romanzi di Tom Clancy, lei ha raccontato tipi di uomini molto diversi tra loro. Cosa li accomuna? «Il farsi delle domande. Vicktor Frankl, psichiatra e filosofo austriaco, diceva che l’uomo cerca un senso. E anche quando si manifesta come sete di potere, non si limita a questo. Il personaggio a cui sono più legato, dai miei esordi in teatro, è Amleto, un uomo rinascimentale che ama lo sport, la letteratura e la musica, un leader oltre che un gentlemen. Ma è pieno di dubbi, pian piano diventa schiavo del suo intelletto, quindi infelice. Questo si traduce nel farsi domande su ciò che conta nella vita: è questa la costante, per ripsonderle».

Cosa invece cambia, nel maschio di epoche diverse? «Il senso di sicurezza in se stesso, il ruolo rispetto alle donne, almeno nel mondo occidentale. Lo vedo in difficoltà nell’adattarsi alla sfocatura dei ruoli tradizionali, era più felice una volta, quando le cose erano più semplici, “tu stai a casa e tiri su i figli, io vado nel mondo a cacciare e a portarti la preda. Non mi vedrai per un po’ e mentre sarò fuori vedrò altre donne, perché ho bisogno di spargere il mio seme…”. Qual è il posto dell’uomo, oggi? Io so che il mio compito, adesso, è essere un uomo nuovo».

Come lo descriverebbe? «Un tipo sensibile, capace di ascoltare, di controllare il testosterone e di non essere troppo competitivo. Sembra un cliché, ma significa essere capaci di abbracciare il proprio lato femminile. Un cambiamento tutt’ora in atto, facile da accettare per alcuni, meno per altri. C’è anche chi si sente evirato».

Come vede il maschio americano, da europeo? «Credo nell’uomo americano bianco. In lui c’è un forte residuo di puritanesimo, una certa spinta e agitazione. Non è sempre a proprio agio con se stesso, specialmente lontano da casa. I miei amici americani hanno bisogno del loro grande paese, non sopportano di stare al chiuso, vogliono spazi selvaggi, in cui fare i pionieri e portare avanti il progresso».

Apprezza il loro stile lavorativo? «C’è un’etica fenomenale, una visione puritana e fanatica, in un certo tipo di uomo americano wasp. Ammiro enormemente lo spirito “I can do” nel suo senso migliore, ma portato all’estremo diventa eccesso d’azione, e mancanza di gioia».

Spesso la scambiano per un inglese, mentre lei è irlandese. «Pensano tutti che venga da Oxford o da Cambridge e che sia anche molto intelligente (ride, ndr). Ma io so come stanno le cose!».

Che interpreti un detective, come in Wallander, o diriga una straordinaria versione di Cenerentola, l’elemento umano resta il centro della sua arte. Da dove viene, questo interesse? «Come recita un celebre motto, “datemi un bambino nei primi sette anni di vita e vi mostrerò l’uomo”. In quegli anni ho vissuto in visita continua ai molti cugini, zii e zie. I miei genitori lavoravano, io ero sempre a pranzo dai nonni, con cui ho avuto una relazione molto forte fino alla loro morte. Questo ha significato essere sempre in mezzo a dinamiche familiari, conoscere i dettagli della natura umana in azione».

E ascoltare tante storie… «Infinite, ricordo tante emozioni, si rideva e piangeva molto insieme. C’è anche un altro aspetto, sono stato incoraggiato all’indipendenza sin da molto piccolo, a sette anni prendevo già i pullman da solo. Finchè ho vissuto a Belfast mi sentivo molto sicuro…».

Cosa intende dire? «Che sapevo letteralmente dove mi trovavo. Non potevo perdermi, c’era sempre un altro Branagh a raccattarmi, da qualche parte. Quando ci siamo trasferiti in Inghilterra è stato un shock: siamo diventati un nucleo familiare più piccolo, non avevo più una rete di protezione e mi trovavo in un luogo molto più grande. Ho perso il senso di chi ero, una sconnessione che si è fatta sentire per molti anni, e forse il mio lavoro è stato una reazione a tutto questo».

Deve essersi anche ritrovato, per dirigere tante superstar… Partiamo da De Niro. «Un gran timido, un uomo intenso, ritualistico, molto meticoloso. Il processo per conquistare la sua fiducia è stato lunghissimo, ma una volta avutala, siamo diventati fratelli di sangue».

Chris Hemsworth, l'attore australiano a cui Branagh ha regalato la fama mondiale grazie a Thor (courtesy www.movieinsider.com).

Chris Hemsworth, l’attore australiano a cui Branagh ha regalato la fama mondiale grazie a Thor (courtesy http://www.movieinsider.com).

Ha diretto Christian Bale che aveva 15 anni, molto più recentemente ha cambiato la vita a Chris Hemsworth, con Thor. «Il primo incontro è stato difficile. Non stava bene, era scontroso, e noi non avevamo nemmeno la sceneggiatura, lo abbiamo abbandonato. Ma cercando quell’inusuale mix di atleticità e sensibilità, ci siamo rincontrati dopo un lunghissimo casting. Ero a un punto della vita in cui avevo molta esperienza e un forte interesse a passarla ad altri, la relazione è diventata un po’ quella tra padre e figlio. Sapevo che la vita di Chris sarebbe cambiata e che ci sarebbero stati ostacoli da affrontare, come i photocall con migliaia di fotografi… Ho cercato di rendergli le cose più facili, lui ha saputo ascoltarmi e imparare».

Chi era il suo ero, da bambino? «Mio padre. Lo adoravo, credevo fosse l’uomo migliore del mondo. Aveva un dono speciale per il legno, poteva costruire qualsiasi cosa. Con gli anni si è spostato verso il lavoro manageriale, ma fino alla morte è andato fiero del suo percorso, iniziato da una working class senza prospettive, dopo aver abbandonato la scuola a 14 anni».

Il vostro miglior momento insieme? «Quando l’ho portato al Kentucky Derby, nel 1994, con mio fratello. Andava pazzo per le corse dei cavalli, e quello era un evento dalle proporzioni mitiche, una specie di Camelot. Ha visto il Bluegrass del Kentucky, credo abbia sofferto molto quando ce ne siamo andati, apprezzava quegli uomini e i loro solidi valori».

Ultima domanda: perché ha scritto la sua biografia a 30 anni? «Ne avevo 28 (ride, ndr), e l’ho fatto per soldi. Non ho molti rimorsi, nella vita, ma questo è uno di quelli. Avevo diretto il primo film e a 27 anni avevo già scritto un libro, ero quel qualcosa di diverso che stavano cercando. Oggi provo compassione per quel giovane me stesso, e direi a chiunque di non imitarmi, nemmeno sotto tortura».

 © RIPRODUZIONE RISERVATA

Articolo pubblicato su Icon del 20 aprile 2015

Viggo Mortensen: «Viaggio nella vita come nei miei film»

14 martedì Apr 2015

Posted by cristianaallievi in cinema

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Aragorn, Argentina, Buckethead, Captain Fantastic, Guns N’ Roses, Henry Blake Mortensen, Hole in the sun, Jauja, Loin des Hommes, Quentin Tarantino, San Lorenzo de Almagro, Viggo Mortensen

Cerca luoghi estremi, intensi e isolati, che lo facciano star bene. Proprio come Aragorn, l’alter ego che lo ha reso famoso. Proprio come Viggo, esploratore di esperienze, affamato di vita: fotografa, dipinge, scrive poesie e recita. Tutto insieme, «perché la vita è breve e questo limita l’esperienza. Io cerco di fané il più possibile», ha dichiarato. Per spiegare che tra le arti non ci sono distinzioni. Come nel mondo non ci dovrebbero essere frontiere. 

Viggo Mortensen, 57 anni, attore, fotografo, musicista e poeta.

Viggo Mortensen, 57 anni, attore, fotografo, musicista e poeta.

Se hai una madre americana e padre danese, e i due si incontrano sciando in Norvegia, nelle vene ti scorre già un destino. E nel caso di Viggo, nato a Manhattan 55 anni fa, maggiore di tre fratelli, si sdoppia tra realtà e schermo. Si ritrova a frequentare le elementari in Argentina, ma studierà all’Università negli Stati Uniti e poi farà il poeta-operaio di fonderia in Danimarca. Un pezzo più in là, naturalmente, eccolo attore a Los Angeles. Anche sullo schermo, quello del viaggiare è un marchio di fabbrica. La carriera inizia a metà anni Ottanta, appena terminato il college, e nel 1991 inizia ad attirare l’attenzione: sigaretta in bocca, petto nudo e aria da Richard Gere, Sean Penn lo sceglie per il suo esordio alla regia in Lupo solitario. Ma la svolta planetaria è con quel Viggo-Aragorn che inizia a viaggiare in Il signore degli anelli e non si fermerà più. L’attore feticcio di Cronenberg si presenta all’intervista di Icon con un look da rocciatore, camicia a quadretti sdrucida e un paio di pantaloni cargo che lo sono altrettanto, con tanto di sacchetto della spesa in mano. Ma guai a credere al suo look shabby: Mortensen sa che l’immagine è una lama a doppio taglio su cui scorre in modo molto prudente, da sempre, ma sa anche molto bene di potersi fidare del proprio fascino ruvido. E poi ha una predilezione per i film d’autore, sfoggia un film più sofisticato dell’altro, e questo parla per lui. Gli ultimi arrivati (ancora inediti in Italia, speriamo per poco) sono Jauja, di Lisandro Alonso, in cui guarda il caso cammina per giorni e giorni tra le rocce della Patagonia, praticamente da solo. Il secondo è Loin des Hommes di David Oelhoffen, di cui è anche produttore, e in cui fa il maestro di scuola di sangue misto, in Algeria, nel 1954. Anche nell’ultimo lavoro, di cui ha da poco terminato le riprese, Capitan Fantastic, fonde due tratti importanti della sua personalità: quella di padre e quella di viaggiatore-filosofo. Guai a togliergli Socrate, la parte che è più rintracciabile nel sito della sua casa editrice, la Perceval Press. Ma non provateci nemmeno con Martin Cauteruccio, attaccante della squadra argentina San Lorenzo de Almagro, la squadra a cui dedica un intero blog (www.sobrevueloscuervos.com).

1991, mostra le sue qualità in Lupo solitario, il debutto alla regia di Sean Penn. 2015, finite le riprese di Captain Fantastic, in cui è ancora una specie di lupo solitario, ma con sei figli. «È la seconda volta che lavoro con Matt Ross, e in effetti interpreto un padre idealista che vive con i suoi ragazzi in una foresta del Pacifico dell’Ovest, per dieci anni. Ma a un certo punto devo tornare nella civiltà, diciamo così (sorride, ndr)».

Anche lei è noto per preferire la natura allo star system… «Anche prima di diventare attore ho sempre gli animali, i cavalli, stare all’aria aperta, fare amicizia con i cani per strada, sono sempre stato così in realtà. Ma è vero, questo mondo ha peggiorato le cose, mi ha fatto venire voglia di starne sempre più alla larga (ride, ndr)».

L’ufficiale danese che vaga per le lande desolate della Patagonia del bellissimo Jauja (per girare il quale ha rifiutato un ruolo in The Hateful Eight di Tarantino) ricorda per molti aspetti Aragorn, il re avventuriero de Il signore degli anelli. Passano gli anni, lei è sempre in viaggio. «(ride, ndr) Da bambino ero molto preso da romanzi d’avventura, racconti di Vichinghi ed esploratori, vivere con un coltello nella cintura era il mio sogno. Ho anche vissuto nei boschi, e in generale in molti luoghi selvaggi, mi fa stare bene e ogni tanto lo faccio tutt’ora. So cacciare e pescare, quando mi hanno presentato Aragorn come un cacciatore della terra di mezzo ho detto “perché gli volete far uccidere i cervi con la spada?”. Sono stato io a chiedere un arco e un coltello… In pratica le sto confessando che Aragorn ero io (ride, ndr)».

Le terre di Jauja le sono familiari. Era piccolo, quando suo padre ha trasferito la famiglia in Sud America e in Argentina, cosa ricorda di quel mondo? «La fattoria in cui mio padre coltivava prodotti agricoli ed allevava bestiame. In quei luoghi ho imparato ad andare a cavallo, gli odori, il clima, il tempo, tutto mi è molto famigliare, ho ricordi fortissimi. Se vuole, la sfida è stata proprio interpretare un personaggio che vuole scappare da quella terra, per tornare in Danimarca».

La cosa più strana che ricorda dell’Argentina? «L’ironia delle persone. I danesi e gli argentini hanno qualcosa in comune, se per esempio qualcuno esce di casa e piove, urla “paese di m…” (ride, ndr), anche se si tratta solo di due gocce… All’estero tutti ridono di questa follia».

Lei parla sette idiomi, e ormai recita in qualsiasi lingua originale. «A parte inglese, italiano, francese, norvegese e svedese, parlo lo spagnolo come lo parla mio padre, bene ma con un certo accento. Invece il mio danese assomiglia a quello di mio nonno. Era un contadino, è il motivo per cui io sono un uomo vintage (sorride, ndr)».

I suoi viaggi sullo schermo sono spesso anche viaggi interiori. Come l’ha cambiata, il continuo peregrinare? «Credo siano molti gli attori che hanno avuto un’infanzia movimentata, nel senso letterale del termine. A livello inconscio facciamo questo mestiere per continuare a vivere così, vedendo cose diverse, culture distanti da loro. Un aspetto che ha anche a che fare con il non saper stare fermi, indubbiamente».

Più si viaggia, più si diventa? «Flessibili, ed è una buona cosa. I passaporti, le bandiere, le divisioni sono idee stupide, occorre una mente più aperta».

In che modo si sente diverso, quando viaggia? «Sono più attento, osservo di più. Anche se, paradossalmente, torno spesso in luoghi già visti, noto che cambiano. Come fotografo dico sempre che tutto è già stato immortalato, entri in libreria e c’è già tutto, dai paesaggi minimalisti ai fotoritocchi più spinti. Lo stesso si potrebbe dire dei film, del sesso, dei dipinti, delle emozioni, ma è il punto di vista che cambia le cose. Ho fotografato centinaia di volte una piscina, negli anni Novanta, ho finito col pubblicarci un libro, tante erano le cose diverse che sono riuscito a rintracciare (Hole in the sun, ndr)».

 Che tipo di luce preferisce, da fotografo? «Dipende da quello che voglio fare, anche essere artificiali e carichi, come i western degli anni Cinquanta, può avere un valore aggiunto… Il modo in cui guardi le cose e la tua sensibilità dipendono molto da dove sei cresciuto. Ci sono zone del mondo in cui non userebbero mai luci “dure”, né certe inquadrature».

Ad esempio? «Solo nel nord Europa cercano una logica nell’uso della luce, e anche del tempo lineare. Vedi tutte le cose in ordine, con una spiegazione dall’inizio alla fine… Alla mia età ho capito che non serve a niente cercare di capire tutto, le cose vanno bene anche quando non si capiscono (ride, ndr)».

I luoghi cosa sono? «Posti reali o anche di più, incarnazioni di un’idea, evocazioni di soddisfazione, di un certo feeling, di una contentezza, di tranquillità…».

In passato ha scritto musiche sperimentali con Buckethead, ex chitarrista dei Guns N’ Roses. Di Jauia firma addirittura la colonna sonora, e propone una musica minimalista e incisiva… «Ho mandato delle idee a Lisandro, mi ha chiamato subito chiedendomi se poteva usarle. Erano cose mie, libere da diritti, non potevo che esserne lieto. Il suono in generale è jazz, ho usato quell’atmosfera per raccontare il mio personaggio, che vaga in un paesaggio sconfinato. Mi piace l’idea di spingere lo spettatore in un altro spazio, in un’altra dimensione, con delle note».

All’improvviso si sentono una chitarra elettrica, un organo… «E anche qualche nota di pianoforte (ride, ndr). In una creazione l’importante è che tutto venga da uno spazio organico e sincero, in cui non senti che qualcuno – di solito il regista – ti sta dicendo “Guarda quanto sono bravo…”. Odio le cose pretenziose, e anche la musica è un modo per far sentire come la si pensa».

Pittura, fotografa, recita, scrive poesie: cosa sceglierebbe, se obbligato? «Non distinguo, per me sono la stessa cosa. La vita è breve e questo limita l’esperienza, io cerco di farne il più possibile e ho la sensazione che il mio lavoro migliori, con questa modalità. Oggi sovrappongo meno le cose di quanto non facessi un tempo, perché ho meno energie: faccio una cosa alla volta e non con il senso di urgenza di una volta».

Un dipinto di Mortensen (courtesy of www.angelfire.com)

Un dipinto di Mortensen (courtesy of http://www.angelfire.com)

Cos’è lo stile? «Saper ascoltare gli altri è parte delle buone maniere. Spesso le persone sembrano ascoltare, ma non è vero. Mi capita di vedere uomini che aprono la porta a una donna, ma lo fanno per l’immagine, non gliene frega niente di lei, è un gesto senza nessuna sostanza».

La mancanza di stile? «È molte cose, in una relazione per esempio, che sia fisica, emozionale o entrambe le cose, è quanto sei interessato solo a te stesso e alla tua esperienza».

Ha definito più volte suo figlio Henry Blake, nato dalla sua ex moglie Exena Cervenka, come la persona che stima più al mondo. La vostra avventura più memorabile, insieme? «Ho girato un film con un attore giapponese che mi ha regalato un grande Godzilla di plastica. Henry è diventato matto, era ossessionato al punto da voler imparare il giapponese. Era pasqua, siamo partiti insieme, volando fino a Sapporo. Nessuno parlava una parola d’inglese, dopo una lunga e complicata negoziazione mi hanno dato una macchina a noleggio. Ma anche la cartina era in giapponese, si immagina?».

Come siete sopravvissuti? «Abbiamo trovato l’autostrada e anche il modo di pagare (ride, ndr), ma confondevamo un posto con l’altro, siamo finiti in mezzo alla neve, nel nulla, sulle montagne, a fine stagione, senza nessuno! In tutto questo Henry mi guarda e mi dice, seccatissimo: “ti sei perso, papà…”. E io, “No caro, ci siamo persi!”. Nonostante questo lui è rimasto molto leale a quella gente e a quella civiltà, mentre io inventavo tremende barzellette su di loro (ride, ndr). Siamo stati due pazzi, ma ci siamo divertiti moltissimo…».

pubblicato su Icon, Aprile 2015

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