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Giorgia Benusiglio: «Il mio errore l’ho pagato tutta la vita».

22 lunedì Ago 2016

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Ambrogio Crespi, Carlotta Benusiglio, Cristiana Allievi, ecstasy, Giorgia Benusiglio, Giorgia Vive, Grazia, Lamberto Lucaccioni, Mdma, smart drugs, Vuoi trasgredire? Non farti

 

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Giorgia Benusiglio, 34 anni (courtesy Mediaset.it)

«Un giorno ho letto su un opuscolo “la droga fa male, se vuoi provarla ti diamo consigli su come farlo”. Anche sui pacchetti di sigarette c’è scritto “il fumo uccide”, ma se ti fai una sigaretta non muori. Ho pensato che per una volta non mi sarebbe successo niente, l’ho pagata molto cara». È il 1999 quando Giorgia Benusiglio si cala mezza pasticca di ecstasy in discoteca e in poche ore è colpita da un’epatite tossica fulminante. Il padre, Mario, si danna per farle avere un fegato nuovo in tempi brevissimi. Dopo la terapia intensiva e le crisi di rigetto (le hanno dato due volte l’estrema unzione), è proprio il padre ad accompagnarla per mano verso la rinascita. La incontro su una terrazza siciliana dopo la proiezione del docu film di Ambrogio Crespi che racconta la sua battaglia, Giorgia Vive– La storia di una fine che è solo l’inizio, appena premiato con il Cariddi alla 62° edizione del festival di Taormina e da settembre in tour per le scuole e i palazzetti d’Italia. Tuta pantalone in seta a stampe, cintura che le fascia un vitino minuscolo, parla con Grazia pochi giorni dopo dopo aver incassato l’ennesimo colpo. Il destino due anni fa le ha strappato l’adorato padre e solo poche settimane fa la sorella Carlotta, trovata impiccata a un albero di un parco di Milano. Mentre me lo racconta Giorgia non versa una lacrima. Ha quel naturale sistema di protezione che ci fa sopravvivere al dolore quando pare impensabile riuscirci. Al di là dalla vetrata che ci separa dal terrazzo c’è la mamma, Giovanna, che cammina senza una meta con lo sguardo ferito. Cerca continuamente un contatto con gli occhi grandi e luminosi della figlia.

Credo sua madre la stia cercando… «Devo starle vicino, dopo l’odissea con me e la perdita di mio padre, adesso anche mia sorella. È davvero troppo. Io e il mio compagno stavamo per tornare a vivere insieme, ma il lutto che ha colpito di nuovo la mia famiglia ci ha fermati».

C’è qualcosa che vuole dire su quello che è appena successo? «Non posso, gli inquirenti mi hanno pregata di mantenere il silenzio e ho totale fiducia sul fatto che la verità verrà fuori. Ma dedico a Carlotta il premio ricevuto, a lei e a tutte quelle donne che non sanno dire no a un amore sbagliato, pagandolo con la vita».

In Giorgia Vive sorprende vedere quanto amore le abbia dato la sua famiglia. Si è chiesta da dove è nata la sua esigenza di ricorrere all’ecstasy? «Quello che ti droghi perché i genitori non ti amano è un falso mito. Oggi si fa uso di stupefacenti per paura di comunicare con gli amici, per far parte di un gruppo, per noia. È un altro tipo di disagio».

Perché questo film a distanza di tanto tempo? «Sei anni fa ho scritto Vuoi trasgredire? Non farti, che è alla sesta ristampa. La mia vita era andare in giro a presentarlo e a parlare con le persone, come mi ha insegnato mio padre. Poi ho incontrato Ambrogio Crespi al Cocoricò, in occasione della morte di Lamberto Lucaccioni (deceduto a 16 anni per overdose, ndr). Lui ha sentito la mia capacità di comunicare e mi ha proposto di fare il film: è stato con me 24 ore su 24 dandomi un supporto straordinario».

Sua sorella Carlotta appare di spalle, nel film. «All’inizio non voleva apparire, poi le cose sono cambiate. Un mese prima della conclusione dei lavori ha chiesto lei di “leggere” una lettera che mi aveva scritto 16 anni prima, mentre ero in terapia intensiva e non poteva avvicinarsi. Tra le parole che pronuncia ci sono queste: “ricorda che sono qui per sempre, sono accanto a te”. Eravamo d’accordo per incontrarci a Taormina, invece è stata l’ultima cosa che ha fatto, non l’ho più potuta abbracciare. Non credo niente accada per caso, la sua presenza nel film che racconta la mia storia dimostra che l’amore ha vinto ancora, nonostante il dramma».

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Come definirebbe la sua occupazione, oggi? «Sono una consulente per la prevenzione giovanile contro l’uso di sostanze stupefacenti. Giro l’Italia da 10 anni, all’inizio era una volta alla settimana, poi sono diventate tre, oggi è un continuo. Voglio dare l’informazione che non mi è stata data all’epoca, poi ognuno può fare le proprie scelte. L’anno scorso ho incontrato un ragazzo che ha preso Mdma,  era giallo dalla testa ai piedi, aveva un’epatite tossica non fulminante e ha avuto più tempo di me. Mi guardava piangendo e mi diceva “non lo sapevo…”. Sulla mia pagina FB (Giorgia Benusiglio Prevenzione Droghe, ndr) ricevo 25 messaggi al giorno, anche da genitori che hanno molto bisogno di sostegno. Oggi gli adolescenti usano ecstasy, anfetamine, cannabinoidi, Mdma, e sta tornando l’eroina, non iniettata ma fumata. Poi ci sono le “smart drugs” le droghe sintetiche che si acquistano su internet vendute come tisane, profumatori d’ambiente e molto altro. Ne escono 100 nuove all’anno, la polizia non riesce a classificarle come illegali e non puoi arrestare i pusher».

I dati ufficiali sull’uso delle droghe? «Dicono che tra gli adolescenti il 78.2 per cento ha fatto uso, fa uso o userà sostanze stupefacenti».

Come sta il suo corpo oggi? «Il problema del trapianto sono i medicinali. Ho una malattia autoimmune all’intestino, ho avuto un tumore tre anni dopo il trapianto, ogni mese faccio gli esami del sangue e ogni sei un check up completo, è il mio modo di sopravvivere».

Ha una dieta speciale? «La terapia che mi ha dato l’Ospedale San Raffaele vieta l’acido arachidonico, cioè gli omega 6 e 9. In pratica posso mangiare solo verdura, frutta, formaggi magri, legumi, grano saraceno, riso e pesce bianco. E quando sgarro sto male, me lo permetto solo se il giorno dopo non ho niente da fare».

Cosa le succede esattamente? «Mi si bloccano gli arti, non mi alzo nemmeno dal letto».

Si è perdonata per quello che ha fatto? «Sarei disonesta a risponderle di sì, ma ci sto lavorando. Sono in terapia con una dottoressa specializzata in EMDR (un approccio mirato al trattamento del trauma, ndr), in pratica riapro cicatrici chiuse male, per farle guarire. Sono razionalissima, purtroppo, ma pian piano ho fiducia nel fatto che questo aspetto si sgretoli, almeno un po’…».

È la testimonianza vivente che da una tragedia si può tirar fuori qualcosa di buono. «Quello che non mi stancherò mai di dire, a tutte le persone che incontro, è che le tragedie nella vita accadono. Bisogna rialzarsi e continuare a vivere».

Mentre la saluto penso che nessuno, più lei ha, ha i titoli per pronunciare simili parole.

Articolo pubblicato sul n. 35 di Grazia, 2016 

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Oliver Stone: «Soltanto la verità».

10 domenica Lug 2016

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Cia, Cristiana Allievi, Donald Trump, Hilary Clinton, Igor Lopatonok, JFK, Kennedy, Kiev, Louis Stone, Nato, Oliver Stone, ONG, Platoon, Salvador, Snowden, The Untold History of United States, Ucraina, Ukraine on fire, Vladimir Putin, Wall Street

Dal nuovo documentario Ukraine on fire, prodotto e appena presentato in anteprima mondiale in Italia, al prossimo film Snowden, sullo scandalo del Datagate, il regista e produttore tre volte premio Oscar prosegue la sua missione: indagare i fatti. E mostrare, ancora una volta, il volto più controverso dell’America

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Oliver Stone, regista attore e produttore Usa (courtesy youwoncannes.com)

«Non ha idea di quanto sia stato doloroso essere coinvolto in questo film. In passato ho girato documentari sul Sudamerica e conosco bene gli attacchi che ci si trova a subire, in questo caso sono stati violenti. Trovo inconcepibile dover essere accusati per difendere fatti che è importante che vengano conosciuti. Le opinioni possono essere discusse, ma i fatti devono essere presentati, e finora nessuno lo ha fatto come noi». Non a caso si è meritato il titolo di “coscienza dell’America”. Salvador, Platoon, Wall Street, JFK: nessun regista come Oliver Stone ha messo in dubbio il mito degli Usa come ha fatto lui. E pensare che quelli citati sono film mentre quando è davvero arrabbiato- parole sue- lavora a un documentario. L’ultima volta che si è cimentato sul tema è stato con il monumentale Untold History of United States, 12 ore di immagini che smontano 70 anni di storia ufficiale americana alle voci Seconda Guerra mondiale e Guerra fredda. 69 anni, tre Oscar, tre figli e tre matrimoni all’attivo, questo regista, sceneggiatore, produttore e attore non pare abbassare la guardia. È appena stato in Italia come produttore esecutivo di Ukraine on fire, presentato in anteprima mondiale al 62° TaorminaFilmFest, in cui appare nientemeno che come intervistatore del presidente russo Vladimir Putin e dell’ex presidente ucraino Viktor Yanukovich. Stone ha vigilato sul regista Igor Lopatonok, ucraino trasferitosi negli Usa dal 2008, che ha voluto raccontare le complicate vicende di una terra di confine da sempre contesa tra Occidente ed Oriente. La ricostuzione è dal 1941 al 2014 e mostra quanto abbiano pesato i movimenti nazionalisti e la politica estera americana sulla rivoluzione in Ucraina, con particolare attenzione ai fatti di febbraio 2014 conosciuti come Euromaidan. Il regista di Platoon dà un altro colpo all’immagine del sistema-Usa prima di uscire nel suo paese (e in varie nazioni europee) con l’attesissimo Snowden. Il film racconta le vicende dell’informatico dipendente dell’Agenzia per la sicurezza nazionale che ha passato migliaia di documenti classificati alla stampa. Storia con cui, come rivela Stone stesso, è pronto a scommettere che sorprenderà i suoi spettatori.

Cosa l’ha spinta a produrre Ukraine on fire? «Il desiderio di esprimere una visione della crisi ucraina diversa da quella che propongono i corporate media, sembra che in Occidente la voce dell’Ucraia orientale non sia ascoltata. Ho incontrato molte difficoltà, lo ammetto, anche a causa dell’inglese di Igor e di molti ucraini con cui ho collaborato, persino riconoscere i vari nomi è stato complicato, a un orecchio occidentale sembrano tutti simili. Forse anche per questo in Occidente tendiamo ad accettare la visione che ci viene presentata».

Siete partiti da prima della rivoluzione arancione mostrando quanto corrotti siano sempre stati i governi ucraini e soprattutto cosa c’è dietro le manifestazioni a Kiev: i movimenti nazionalisti che nella seconda Guerra mondiale hanno affiancato i nazisti nelle stragi di ebrei e polacchi, supportati dalla Cia. Secondo voi dietro la crisi dell’Ucraina c’è una seconda guerra fredda per cui si rischia un conflitto mondiale. «L’anno scorso Winter on fire: Ukraine’s Fight for Freedom di Evgeny Afineevsky, è stato a un passo da vincere l’Oscar. L’ho visto perché sono membro dell’Academy e sono rimasto molto colpito in senso negativo. Raccontava solo la protesta in piazza Maidan e sembrava che tante persone pacifiche avessero voluto di loro spontanea volontà dar vita a una manifestazione che è sconfinata in violenza senza controllo. Afineevsky non contestualizzava i fatti, non diceva che alla polizia era stato ordinato di non sparare, non menzionava l’escalation di violenza, con i manifestanti che hanno attaccato gli edifici governativi. Nel massacro metà erano poliziotti e metà manifestanti e l’esame balistico ha dimostrato che i proiettili che li hanno colpiti erano gli stessi: vuol dire che a uccidere le persone sono stati i cecchini della destra nazionalista, nascosti tra i manifestanti. Fosse stato un mio film avrei insistito di più su questa parte».

Perché i fatti di Kiev sono al centro delle sue attenzioni? «Hanno portato a sanzioni, all’embargo, a conseguenze dure per l’economia. Molti paesi europei dopo l’abbattimento del jet della Malesya Airways hanno cambiato posizione verso la Russia, le conseguenze geopolitiche di questo fatto saranno molto pesanti. E ovunque andrà nel mondo, persino a Okinawa, ci sarà il governo americano coinvolto negli incidenti: ma negli Usa si parla solo dell’aggressione russa».

Che impressione la ha fatto Vladimir Putin, intervistandolo? «Mi ha colpito per la calma, non è un emotivo. Sembra un uomo che prende il suo lavoro molto seriamente, è preparato, non era lì per giocare con la macchina da presa o diventare tuo amico. Non ha avuto bisogno di un testo scritto per rispondere alle domande, la conversazione con lui è stata articolata e complessa».

Cosa pensa delle associazioni non governative Usa che operano in Europa, nord Africa e Oriente? «A volte fanno un ottimo lavoro, altre non sono mosse da fini nobili. Si parla di soft power degli Stati Uniti, è un po’ ovunque. Lei si immagina se una ONG messicana cominciasse a sostenere delle associazioni non governative nei movimenti di rivolta negli Usa, finanziandole, perché non condivide i trattati commerciali, o la politica estera degli Usa? Nel mio paese non durerebbe molto».

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Stone al Teatro Antico di Taormina, tra il regista di Ukraine on fire, Igor Lopatonok, e Tiziana Rocca.

Molti uomini, alla sua età, si rilassano o si chiudono in se stessi. Lei è più combattivo che mai. «Capisco che il tempo acquista sempre più valore, e se mi butto in un progetto devo metterci passione. Devo crederci, devo sentire che mi aiuterà a crescere».

Nel suo sito si legge un motto, “O nasci matto o nasci noioso…”. Oggi cosa considera noioso, se si guarda intorno? «Mettiamola così, i miei film non sembrano noiosi di solito, giusto? Ecco, la maggior parte di quello che vedo mi annoia a morte».

Dal suo punto di vista, se guarda indietro, qual è stata la spinta che l’ha portata a fare esperienze estreme e a buttarsi in progetti controversi? «La spinta è sempre stata conoscere me stesso, e cercare la verità, che continua a cambiare mentre cresciamo. Ho un profondo desiderio di comprendere il tempo e il luogo in cui mi trovo. Quando avevo 20 anni c’era un sacco di tensione e di insicurezza in me, mi ha spinto a fare molte cose, ha ispirato tutta la mia vita. Credo anche che il mio desiderio di migliorare non mi abbia ancora lasciato. E forse ogni regista sente un’insicurezza di base, nei confronti della vita».

È vero che dietro tutti i suoi film c’è suo padre Louis? «Sono nato a New York, nel centro del mondo, quindi in una posizione molto privilegiata, e mio padre era un repubblicano conservatore, supportava Eisenhower e odiava Roosvelt, a quei tempi lo odiavano in molti perché ha imposto molte regole alla borsa e ha fatto pagare tasse su tasse».

Cosa le hanno insegnato dell’America? «Ho imparato la storia ortodossa, quella secondo cui siamo eccezionali e facciamo cose buone nel mondo. Secondo questa regola la vittoria della Seconda guerra Mondiale con la bomba atomica era una necessità, così come il Vietnam, infatti dopo il college mi sono arruolato. Al mio ritorno dalla Guerra non sono cambiato subito. Innanzitutto durante il Vietnam sono successe molte cose nel mio paese, e dopo la guerra e i bombardamenti hanno iniziato a venire alla luce fatti nuovi, sul Watergate, sulla Cia e anche su molti comportamenti di politica estera che negli anni Settanta non erano di dominio pubblico. Fatti che Kennedy sapeva, ma non gli americani. Queste rivelazioni sono state molto importanti per la nostra storia, non a caso dal 1980 in avanti l’America è stata sempre più conservatrice e ha nascosto sempre più fatti al mondo: hanno mentito così tanto che conoscere la verità per gli americani era difficilissimo».

Ha votato Obama due volte, cosa ne pensa oggi? «Non ha riformato le ingiustizie, aveva promesso di cambiare la politica estera di Bush, parlava di trasparenza, voleva smettere con le intercettazioni illegali. Non ha fatto niente di tutto questo».

Come vede i due candidati, Trump e la Clinton? Cosa cambierebbe di politica estera, se vincesse uno piuttosto dell’altro? «Chiunque vinca le elezioni non cambierà niente in politica estera, nei panni di Presidente. Gli Stati uniti sono un sistema ben consolidato, purtroppo i candidati possono cambiare ben poco di questo grande sistema. Però conoscete la posizione di Obama su questo punto, e Hilary è ancora più radicale in fatto di politica estera. Sicuramente Obama si comporta così perché ha informazioni più approfondite di noi, ma non credo ci saranno grandi cambiamenti».

Il 16 settembre negli Usa uscirà Snowden, sullo scandalo del Datagate. «Mi piace ancora fare film, questo l’ho scritto e diretto, ci ho messo tre anni a realizzarlo e ne sono orgoglioso. Per molti Edward Snowden è un’astrazione, quasi una figura mitologica, di cui si conoscono solo stupidaggini. Ho voluto mostrare il vero uomo, spiegare chi era per far capire cosa è successo. E sono sicuro che sarete sorpresi da alcune delle cose che scoprirete su di lui».

Articolo pubblicato da D La repubblica il 9 luglio 2016

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Katherine Kelly Lang: «Beautiful? È più faticoso di una gara di Triathlon».

08 venerdì Lug 2016

Posted by cristianaallievi in cinema, Festival di Taormina

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Beach Boys, Beautiful, Cristiana Allievi, Diabolika, Dominique Zoida, Happy Days, kaftani, Kailua-Kona, Katherine Kelly Lang, Ron Moss, triathlon

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Katherine Kelly Lang, 54 anni, attrice e business woman.

«La mia ultima competizione? 120 chilometri di bici, 4 di nuoto e 42 di corsa, per un totale di 15 ore a fila!». Sentirla raccontare la Kailua- Kona, la più grande gara di thriatlon al mondo, ha del surreale. Un po’ per la notizia in sé, e poi perchè anche se mi sforzo di pensare che sto parlando con Katherine Kelly Lang, anni 54, attrice, i miei occhi continuano a vedere davanti a me la Brooke di Beautiful. Del resto è il personaggio a cui da vita da 30 anni, e che incarna tutti giorni, naturale che le resti cucito addosso. Mi riceve nella stanza con giardino fronte mare dell’hotel di lusso che la ospita, in un look così naturale da smentire quanto appena detto: in infradito e kaftano, Katherine non ha un filo di trucco. A pochi metri da noi c’è il suo amore, Dominique Zoida, che si riposa su un’amaca in attesa che gli restituisca la sua fidanzata. È venuta in Italia a ricevere il riconoscimento “città di Taormina” all’interno della 62° edizione del TaorminaFilmFest prodotto da Tiziana Rocca.

Considerato che è nata in California, patria di sportivi, non dovrei stupirmi delle sue imprese…  «Sono nata e cresciuta a Los Angeles, con un padre che è andato alle Olimpiadi per il salto con gli sci e una madre olimpionica di nuoto. Ho imparato tutti gli sport immaginabili ma mi sono innamorata dei cavalli e per 20 anni ho fatto gare di cross country, con corse anche di 100 chilometri».

Oggi invece è diventata un’atleta di thriatlon. «Arrivo da una gara a Pescara! La differenza è che nel thriatlon uso solo il mio corpo, ma il tipo di allenamento è lo stesso di prima. Occorrono un’ottima preparazione di base, sangue freddo, concentrazione, prontezza di riflessi, capacità di reazione agli imprevisti».

Dove tira fuori la determinazione per simili sforzi? «Sono cresciuta tra atleti, ho sempre avuto quel tipo di spinta. E poi mi piace stare molto in forma, essere sana, forte».

A consacrarla sono stati i Beach Boys, che l’hanno immortalata in molti dei loro video. «Ero sempre in spiaggia, mi prendevano per fare surf nei video. Il mio primo film è stato a 17 anni, ero la fidanzata di Patrick Swayze, poi negli Ottanta ho fatto tante ospitate nelle serie tv, persino in Happy days».

Finchè non è arrivata la chiamata di Beautiful. «Quando ho iniziato sapevo che i coniugi Bell, che lo hanno inventato e prodotto, sono dei maestri. Ma nessuno avrebbe pensato che sarebbe diventato un fenomeno mondiale».

Celebri volti della soap non ci sono più, lei è ancora qui, 30 anni dopo. «Ho firmato il primo contratto per quattro anni, per me era già una specie di “per sempre”. Quando sono scaduti i termini ho detto, “va bene, firmo per altri tre anni…”, e a furia di ripeterlo eccomi qui (ride, ndr). Nel frattempo mi sono sposata, ho avuto dei bambini, era un lavoro che si conciliava anche con la vita privata».

Tabella di marcia? «Si registra da lunedì a venerdì, per tre settimane su quattro, da sempre! Il venerdì ricevo la sceneggiatura della settimana successiva ma legge solo quella del giorno dopo, per non farmi idee. Poi ci sono i “blocchi di ferie” per ogni attore, sono i momenti in cui riesci a fare altro nella vita (ride, ndr)».

Cosa pensa di Brooke? «Mi fa molto arrabbiare, vorrei che evolvesse. Era bravissiama a scuola, è diventata una chimica, ha inventato un tessuto per i Forrester ed è diventata una business woman. Poi con la sua ossessione per Ridge si è persa, è diventata inutile. Chiedo spesso agli sceneggiatori quando tornerà a essere una donna forte, ma per questioni di praticità preferiscono che i personaggi restino su un certo binario…».

Ha mai avuto problemi con le persone, a causa di Brooke? «Mi guardano da anni, dai loro salotti, in tutto il mondo, e pensano che io sia quella persona. Ma io non sono come Brooke, sono una donna normale! Per fortuna Instagram e Twitter mi hanno salvata: lì posso mostrare chi sono veramente e cosa faccio davvero nella vita».

È ancora amica di Ron Moss, alias Ridge? «Molto, ma quando ci vediamo non parliamo di Beautiful! Ron è felice e si dedica alla sua musica».

Nella vita vera lei ha due divorzi alle spalle e tre figli. E soprattutto ha un fidanzato molto più giovane di lei, in famiglia questo è un aspetto problematico? «Mi sento più libera di fare le mie scelte davanti ai miei figli, ora che sono cresciuti, a parte il terzo, che è ancora in casa con noi. Il fatto che abbia un compagno come Dominique (direttore marketing della rete televisiva CBS, ndr) non è un problema per loro, vedono che mi vuole molto bene e sono felici per me».

Ha amato essere madre? «Moltissimo, e mi manca non avere più figli piccoli. Sono anni bellissimi, in cui tutto è così fresco e vedi le cose attraverso i loro occhi… Ora sono più grandi e si chiedono cosa vogliono fare per il resto della loro vita, anche questo momento è interessante».

Le chiedono consigli? «Vogliono incoraggiamento, che partecipi alla loro vita. Quando si trovano in una situazione negativa cerco di indicare loro la parte migliore: “ok, come può aiutarti questa situazione?”. I due più grandi vivono a Los Angeles da soli, ma non sono lontani da casa nostra».

 Si risposerebbe? «Direi di no, io e il mio compagno veniamo entrambe da divorzi e concordiamo sul fatto che non ci serve un altro matrimonio. Ma siamo praticamente inseparabili, viaggiamo insieme anche per lavoro. Da quattro anni ho una società con una designer australiana, creiamo kaftani, e Dom ci cura la parte di home shopping.

 

Perché ha scelto kaftani? «Li indosso da quando sono ragazzina, ho sempre avuto uno stile bohemienne anni ‘70, adoro quei tessuti svolazzanti dai colori intensi. Poi è un prodotto facile da ordinare, a livello di taglie. Il grosso lavoro è la creazione, dipingiamo le sete e poi facciamo le stampe digitali, abbiamo sempre pezzi nuovi. Recitare mi piace molto ed è è la mia occupazione principale, ma ho bisogno di fare altro».

La soap, che ha ritmi serrati, le permette di fare anche cinema? «Giriamo da lunedì a venerdì per tre settimane su quattro, ma riesco a fare anche cinema. Ho appena terminato Diabolika, in Puglia, che uscirà presto in Italia. Io recito la parte della strega, ho occhi molto scuri e mi copro i capelli con un grande foulard. Sono orgogliosa di aver disegnato un kaftano apposta per la mia parte: è nero con disegni tribali».

Articolo pubblicato su Donna Moderna del 12 luglio 2016

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Richard Gere: «Sono con tutti gli invisibili del mondo»

21 martedì Giu 2016

Posted by cristianaallievi in cinema, Cultura, Festival di Taormina

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Alain Zimmermann, Coalition For The Homeless, Cristiana Allievi, FIO.Psd Foundation, Gli invisibili, HomelessZero, Lucky Red, Richard Gere, Taormina Film Fest, Tiziana Rocca

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Come una sfida amichevole è diventata un’occasione per lasciare il segno. Sul grande schermo e nel sociale. È successo al 62° TaorminaFilmFest, con questi ingredienti: un testimonial che è un divo tra i più amati; una comunicazione intelligente e un film, Gli invisibili, nato col preciso intento di per fare qualcosa per gli altri

A volte tutto concorre a far si che un evento diventi qualcosa che travalica i propri confini. Così la presentazione di un film a un festival, di per sè una routine, si può trasformare in un qualcosa di molto più grande di quello che sembrerebbe sulla carta. Scatenando emozioni, applausi, promesse, riflessioni, cambi di direzione nella vita. «L’anno scorso Richard Gere mi ha lanciato una sfida: “Tornerò in Sicilia se organizzerai qualcosa per i senza tetto, gli invisibili. Voglio che si faccia una campagna in merito, che il governo firmi un accordo e che le persone siano davvero responsabilizzate in prima persona», racconta Tiziana Rocca, general manager della kermesse cinematografica taorminese. «Su queste indicazioni ho pensato a cosa potevo costruire che girasse intorno al film con cui abbiamo aperto il festival, Gli invisibili, interpretato e diretto da Gere».
Compito non facile, considerato che la pellicola distribuita da Lucky Red e adesso presente nelle sale di tutta Italia era già uscita nel resto del mondo ed era stata presentata al festival di Roma due anni fa.

Infatti quando l’American Gigolò ha ringraziato pubblicamente la Rocca al Teatro Antico ha detto che non credeva che ce l’avrebbe fatta. Lei, una napoletana che vive a Roma col marito – l’attore e regista Giulio Base – e tre figli, ha iniziato 25 anni fa a fare il lavoro di pr in Italia, e ha sempre avuto un occhio attento al sociale nell’organizzazione dei suoi eventi. Per il festival, nelle sue mani da cinque anni, vola regolarmente negli Usa e convince le star una a una a venire al Sud. Fa tutto personalmente, non delega nulla. «Non ho effetti speciali, non ho aerei privati, né budget milionari, e avere grossi personaggi a Taormina richiede una lunghissima preparazione. Ma metto tanta passione nel mio lavoro, e viene sempre premiata». Qualsiasi cosa chiedano le star lei è sempre a disposizione, a qualsiasi ora, e ci tiene a far vivere ai suoi vip un’esperienza concreta del territorio, anche fuori dalle sale del Palacongressi. Ma soprattutto chi la conosce bene dice che se promette una cosa la mantiene. Il risultato si è visto l’11 giugno, quando è stato firmato il Protocollo d’Intesa tra il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e la fio.PSD Onlus (Federazione Italiana Organismi per le Persone Senza Dimora), a supporto della campagna di sensibilizzazione #HomelessZero. Il ministro Giuliano Poletti ha stanziato 100 milioni di euro che serviranno a promuovere azioni per ridurre il numero delle persone senza dimora, che in Italia si stimano essere intorno ai 50mila.

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Richard Gere presenta Gli invisibili a Sant’Egidio

Certo, il divo hollywoodiano ha fatto da forte catalizzatore. Almeno tre i momenti caldi della sua presenza. Il primo alla Comunità di Sant’Egidio di Roma, sede scelta per la presentazione del progetto alla stampa con proiezione del film ai senza tetto. «L’idea è stata quella di far ritrovare tutti alla mensa della Comunità, e non in un grande hotel. Era necessario andare da loro: noi siamo gli ospiti, loro i padroni di casa, e i protagonisti dell’evento», racconta Rocca. Lì i momenti di commozione non sono mancati, come è successo pochi giorni dopo a Taormina, all’incontro seguito alla proiezione ufficiale de Gli invisibili a cui erano presenti 300 homeless provenienti da tutto il sud d’Italia ma di varie nazionalità. Richard Gere voleva sperimentare di persona la disperazione di queste persone, farle raccontare a modo loro e fare da tramite con le istituzioni. «Ho iniziato molti anni fa a lavorare con la Coalition For The Homeless a New York, il gruppo principale nel sostenere i diritti dei senza tetto. È così che sono venuto a conoscenza di questo problema», racconta. «Quando mi è arrivata la sceneggiatura del film ho capito che era qualcosa che volevo fare, ma in modo diverso da come me l’avevano proposto. Non volevo semplicemente che si vedesse la storia di un uomo che finisce a vivere per strada, volevo che guardando il film si sentisse cosa significa». Nel corso delle riprese nell’Est village di New York, l’attore non è stato riconosciuto nei panni di un barbone. «Nessuno mi guardava in faccia, ero invisibile e mi trovavo alla stazione centrale di Manhattan».

Arriva la domanda che fa corto circuito tra cinema e realtà, rivolta a Gere da Vincenzo, un homeless italiano venuto a Taormina per incontrarlo: “Lei come si è sentito, mentre chiedeva la carità?”. «Sono un attore, e ho chiesto soldi non avendone bisogno, quindi la situazione è diversa», ha risposto Gere. «Ma abbiamo voluto che fosse il più realistica possibile, nessuno si è accorto che stavamo girando un film, le telecamere erano nascoste dentro gli edifici. Quando mi sono ritrovato lì da solo e ho tirato fuori la mano, impegnandomi nel rendere il gesto credibile, credo di aver sentito la sensazione reale di chi chiede l’elemosina».

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Tiziana Rocca, Gere e i sindaci di Taormina e Messina.

Un altro aspetto che stava a cuore all’attore, nel girare la pellicola, è il concetto del tempo.«Quando vivi per la strada sei quasi scollegato dalla realtà temporale, non è un caso che il film parta inquadrando un uomo con una ferita sul volto che si butta dell’acqua sulla faccia: non si da da dove arrivi e non si sa cosa gli sia successo, è una figura misteriosa». Sempre nell’incontro al Palacongressi prende la parola Bolgdan, di origine polacca. «Questo film parla di noi, che dalle stelle siamo finiti nelle stalle. Io sono contro la politica, ma per il sindaco di Messina ho solo rispetto, ci sta davvero aiutando…», conclude commuovendosi. «Pian piano ho capito che stavo raccontando una storia universale, che parla davvero di tante persone, soprattuto qui in Europa in questo momento», prosegue Gere. «Ho letto le statistiche dell’alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite, parlano di qualcosa come 60 milioni di persone che sono fuggiti per vari motivi e non hanno un posto su questo pianeta. Non risolve niente costruire un rifugio e dare un letto per la notte, anzi spesso crea più problemi. “Casa” non è solo un tetto sulla testa, è comunità, è avere persone a cui interessa di noi, per cui sappiamo di contare qualcosa. Per questo motivo trovo che Gli invisibili sia una metafora per tutti, non c’è nessuno che non abbia una storia che potrebbe portarlo a finire sulla strada».

Anche la casa svizzera di orologi di lusso Baume & Mercier, main sponsor del TaorminaFilmFest, è stata coinvolta nei giochi di sinergie di quest’operazione. «Ho conosciuto Gere l’anno scorso e sentendo quanto era coinvolto nel supportare la FIO.Psd Foundation è stato naturale affiancarlo», racconta Alain Zimmermann, CEO dell’azienda. «La responsabilità sociale è nel dna della nostra casa, da anni siamo impegnati su diversi fronti, tra cui quello di Love 146, un’organizzazzione che lavora per mettere fine al traffico e allo sfruttamento di minori nel Nord America». Per supportare la campagna HomelessZero abbiamo offerto uno dei 62 pezzi della Clifton limited-edition, il “Clifton Taormina Award”. Avrebbe dovuto essere battuto all’asta l’11 giugno durante la serata inaugurale della kermesse, ma un illustre acquirente, che vuole conservare l’anonimato, ha sborsato un’ingente somma per aggiudicarselo, devolvendo poi il tutto in beneficienza alla FIO.Psd Foundation. «Per me casa significa stabilità, comfort, momenti condivisi con le persone vicine a noi. In qual che modo è il luogo in cui ci sentiamo sostenuti nei momenti di difficoltà», conclude Zimmermann.

Uno degli ultimi scambi di Richard Gere prima di volare a Washington e seguire la visita del Dalai Lama, è stato con un homeless che gli ha detto di non vedere più l’orizzonte davanti a sé, e gli ha chiesto cosa deve fare, per non vivere come un cane bastonato. «Ci sono due strade per uscire dalla crisi», gli risponde Gere, alzandosi dalla sedia sul palco e sedendosi a cavalcioni accanto a lui. «Per prima cosa trova una casa, un posto dove vivere. Poi la comunità, persone a cui interessa di te. Vedo che sei una persona calorosa, guardi dritto negli occhi, hai un cuore aperto. A quel punto puoi passare all’ultimo step: a 66 anni ho capito che se vuoi essere felice, devi fare felice gli altri». Boato in sala, e una promessa fatta in diretta prima di sparire: «Il prossimo anno tornerò a trovarvi, lo prometto».

Articolo pubblicato su GQ Italia

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