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Golden Globes 2019, ecco i candidati

06 giovedì Dic 2018

Posted by cristianaallievi in arte, cinema, Golden Globes, Miti, Moda & cinema

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Ecco i candidati ai Golden Globes 2019 per il cinema nelle principali categorie

 

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Miglior film drammatico:

Black Panther

BlacKkKlansman

Bohemian Rhapsody

Se la strada potesse parlare

A Star is Born

 

Miglior film commedia o musicale:

Crazy Rich Asians

La favorita

Green Book

Il ritorno di Mary Poppins

Vice

 

Miglior regista:

Bradley Cooper per A Star is Born

Alfonso Cuaron per ROMA

Peter Farrelly per Green Book

Spike Lee per BlacKkKlansman

Adam McKay per Vice

 

Miglior attrice in un film drammatico:

Glenn Close per The Wife

Lady Gaga per A Star is Born

Nicole Kidman per Destroyer

Melissa McCarthy per Can You Ever Forgive Me?

Rosamund Pike per A private War

 

Miglior attrice in un film commedia o musicale:

Emily Blunt per Il ritorno di Mary Poppins

Olivia Colman per La favorita

Elsie Fisher per Eight Grade

Charlize Theron per Tully

Constance Wu per Crazy Rich Asians

 

Migliori attore in un film drammatico:

Bradley Cooper per A Star is Born

Willem Dafoe per Van Gogh – At Eternity’s Gate

Lucas Hedges per Boy Erased

Rami Malek per Bohemin Rhapsody

John David Washington per BlacKkKlansman

 

 

Miglior attore in un film commedia o musicale:

Christian Bale per Vice

Lin-Manuel Miranda per Il ritorno di Mary Poppins

Viggo Mortensen per Green Book

Robert Redford per The Old Man & the Gun

John C. Reilly per Stanlio e Ollio

 

 

Miglior attrice non protagonista:

Amy Adams per Vice

Claire Foy per First Man

Regina King per Se la strada potesse parlare

Emma Stone per La favorita

Rachel Weisz per La favorita

 

Miglior attore non protagonista:

Mahershala Ali per Green Book

Thimotée Chalamet per Beautiful Boy

Adam Driver per BlacKkKlansman

Richard E. Grant per Can You Ever Forgive Me?

Sam Rockwell per Vice

 

Miglior film straniero:

Cafarnao

Girl

Opera senza autore

ROMA

Un affare di famiglia

 

Miglior Sceneggiatura:

Alfonso Cuaron per ROMA

Deborah Davis e Tony McNamara per La favorita

Barry Jenkins per Se la strada potesse parlare

Adam Mckay per Vice

Nick Vallelonga, Brian Currie e Peter Farrelly per Green Book

 

Miglior canzone:

“All the Stars” in Black Panther

“Girl in the Movie” in Dumplin’

“Requiem for a Private War” in A Private War

“Revelation” in Boy Erased

“Shallow” in A Star is Born

 

© RIPRODUZIONE RISERVATA

La forza di The Post nelle voci di Streep, Hanks e Spielberg

30 martedì Gen 2018

Posted by cristianaallievi in cinema, Cultura, Golden Globes, Miti

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Tag

Cristiana Allievi, freepress, giornalismo, GQ Italia, journalism, libertà di stampa, Meryl Streep, Steven Spielberg, The post, Tom Hanks

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Nessuno può introdurre meglio di loro questo titolo, candidato all’Oscar 2018 per il migliore film e la migliore protagonista, ma anche tutto il suo valore storico, politico e simbolico

1971. Siamo alle prime avvisaglie di interferenza politica in quella che è la libertà chiave nella vita di una democrazia. Steven Spielberg pesca, non a caso, un evento che ha minato la libertà di stampa, e lo sceglie proprio in un momento in cui l’America soffoca sotto i colpi della xenofobia e di un presidente intenzionato a infamare chi non la pensa come lui.

La storia di The post, che sarà nelle sale dall’1 febbraio grazie a 01 Distribution, ruota intono alla figura di Katharine Graham, la prima donna che finisce al comando, da editore, del Washington Post, secondo giornale locale dopo il Washington Star.

Meryl Streep, che ha ottenuto la ventunesima nomination agli Oscar per questa interpretazione, racconta una donna impreparata al ruolo che si ritrova a coprire in una società fortemente maschilista. Grazie al suo straordinario coraggio darà una grande scossa alla storia dell’informazione, decidendo di pubblicare segreti governativi che riguardano la guerra in Vietnam.
«La prima versione della sceneggiatura è stata scritta da Liz Hannah e acquistata da Amy Pascal sei giorni prima delle elezioni presidenziali», racconta la Streep.

«Tutti noi pensavamo si sarebbe trattato di uno sguardo nostalgico al passato, riflettendo su quanta strada avevano fatto le donne fino a oggi, soprattuto in vista di un presidente donna che davamo per scontato. Invece, con le elezioni, sono aumentate le ostilità verso la stampa e gli attacchi alle donne, dall’apice del nostro governo. Così  il film si trasforma, suo malgrado, in una riflessione su quanta strada non abbiamo ancora fatto».

Le vicende ruotano intorno alle Pentagon papers, un rapporto segreto di 7000 pagine stilato nel 1967 per l’allora segretario della difesa Robert Mcnamara. In pratica quei documenti raccontavano una verità a lungo nascosta: per quattro amministrazioni, quelle di Truman, Eisenhower, Kennedy e Johnson, il governo americano aveva mentito ai suoi cittadini e al mondo sulla guerra in Vietnam.
Mentre i politici sostenevano di volere la pace, la Cia e e i militari incrementavano il conflitto sapendo in partenza che non avrebbero avuto la meglio. In pratica, mandando a morte sicura quei 58.220 soldati che hanno perso la vita sul campo.

Il regista di Schindler’s List, Munich, Lincoln e Il ponte delle spieracconta, in un crescendo di tensione, come un brillante analista militare, Daniel Ellsberg, ex soldato dei Marines e poi del Vietnam, abbia deciso di fotocopiare e nascondere tutte quelle pagine, per poi consegnarle al New York Times.

Il 13 giugno 1971 appare in prima pagina un lungo articolo che fa scoppiare un inferno, e l’amministrazione Nixon chiede alla Corte Federale di bloccare la pubblicazione dei documenti da parte della testata, con la motivazione che quelle informazioni avrebbero messo in pericolo la sicurezza nazionale.

Da qui in avanti la storia si fa ancora più rovente perché gli altri quotidiani iniziano a darsi da fare per pubblicare i documenti, approfittando dello stop dato al New York Times.

«La libertà di stampa è un diritto che consente ai giornalisti di essere i guardiani della democrazia, una verità incontrovertibile», racconta il tre volte premio Oscar Steven Spielberg che segna un altro punto a suo favore per quanto riguarda il filone storico dei suoi lavori. «Nel 1971, il tentativo di Nixon di negare il diritto di pubblicare i Pentagon papers fu un atto inaudito. Era la prima volta che succedeva qualcosa del genere dalla Guerra Civile americana. Oggi ci troviamo ancora una volta a osservare questa minaccia, e questo rende quei fatti tremendamente attuali».

Il due volte premio Oscar Tom Hanks interpreta Dan Bradlee, direttore del quotidiano locale, per niente spaventato dalla competizione con un colosso: «Ben Bradlee era molto competitivo, una vera bestia», racconta. «Aveva passione, era il tipo di uomo che voleva trovare non una grande storia, ma “La” storia. Nel giugno del 1971 il Washington Post era in competizione con il Washington Star, che era il quotidiano principale della capitale: il fatto che il Times avesse una storia che il Post non aveva, era un fatto che teneva sveglio Bradley la notte. Lo faceva impazzire. C’è una scena, in cui sono tutti riuniti nella sala di consiglio e stanno leggendo il giornale avversario, in cui Bradlee dice “siamo gli ultimi a casa nostra!”. È fantastica, racchiude il senso della sfida che guiderà tutto il resto del film».

Bradlee ha la vista lunga, se si pensa che il suo modo di ragionare aprirà la strada a inchieste come quella del Watergate, che porterà alle dimissioni di Nixon. Ma niente sarebbe successo senza di lei, Katharine Graham. «Era una donna che aveva la sensazione che il posto in cui era non le competesse», continua Meryl Streep. «La rappresentazione della redazione del giornale, come era nel 1971, è molto fedele: c’erano solo uomini ed erano tutti bianchi, le donne erano solo segretarie. In un simile contesto, questa donna sfida Nixon, senza sapere che un giorno sarebbe finita a capo di una delle società di Fortune 500, qualcosa di inconcepibile all’epoca, come vincere un Pulitzer con la propria autobiografia. Ma tutto accade grazie all’enorme fiducia fra lei, l’editore, e Ben Bradlee, direttore del suo giornale, uno degli uomini più coraggiosi che abbia incrociato in vita mia, di quel genere disposto a rischiare tutto».

Articolo pubblicato su GQ.it il 29 gennaio 2017

© RIPRODUZIONE RISERVATA

 

 

 

Martin McDonagh: «Le parole sono pietre (tombali)»

08 lunedì Gen 2018

Posted by cristianaallievi in cinema, Golden Globes, Mostra d'arte cinematografica di Venezia, Personaggi

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Tag

Cristiana Allievi, Golden Globes, Martin McDonagh, parole, registi, sceneggiatore, scrittura, Tre manifesti a Ebbing, verso gli Oscar

A VENEZIA LO AVEVANO PREMIATO PER LA SCENEGGIATURA. IN SALA VINCERANNO I DIALOGHI. E NEL FRATTEMPO IL REGISTA E SCENEGGIATORE IRLANDESE SI AGGIUDICA QUATTRO GOLDEN GLOBES

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Martin McDonagh, regista e sceneggiatore (courtesy The Hollywood reporter).

Secondo il New York Times è uno dei più grandi commediografi irlandesi viventi. Martin McDonagh, anche sceneggiatore e regista, ha vinto ben tre Laurence Oliver Awards per il teatro e un Oscar al cinema per il corto Six Shooter, e i suoi lavori teatrali sono stati messi in scena in oltre quaranta paesi. E sono tutti ambientati in Irlanda, nonostante sia un britannico di origini irlandesi, con doppia cittadinanza. All’ultima Mostra di Venezia ha presentato il suo terzo lungometraggio, Tre manifesti Ebbing– Missouri, nelle sale dall’11 gennaio, che ha scritto e diretto e che ha vinto il premio per la miglior sceneggiatura. Come lo descrive Frances McDormand, la sua attrice protagonista, lo stile, di McDonagh è “una forma di realismo magico che si fonde con il gotico americano e si basa sull’idea che la gente di provincia non è prosaica ma poetica”. Perfetto, per un mago della parola che viene dalla working class. La storia del film, ambientata nella provincia americana è quella di Mildred, una donna esasperata dall’omicidio insoluto di sua figlia che porta scompiglio nelle dinamiche relazionali della cittadina. E solleva un bel polverone nei confronti dei poliziotti locali, gli ottimi Woody Harrelson e Sam Rockwell.

La sua commedia dark regala articolati dialoghi fra i personaggi, dove ha imparato questo uso della parola? «Ho sempre ascoltato quello che si dicevano le persone, sui pullman, nei caffè. Cercavo di farlo senza giudizio, anche se mi risultava difficile restare neutrale verso le classi sociali più alte. Ma ho sempre saputo che il mio lavoro è vedere l’umanità delle persone, al di là delle idee politiche».

E una certa raffinatezza, da dove viene? «Dal background teatrale, credo anche se il mio primo amore è stato il cinema e agli inizi odiavo il teatro: quello che andavo a vedere in Inghilterra era terribilmente politico e non aveva storia, non succedeva niente per tre ore! È stata la mia fortuna, la spinta a fare qualcosa di diverso».

I primi passi? «Leggendo libri di sceneggiature in biblioteca. Poi a 14 anni ho visto Al Pacino in American Buffalo, e quel linguaggio così forte mi ha colpito molto. Era il 1984 , ho pensato, “allora non è obbligatorio scrivere schifezze…”».

Il suo metodo? «Scrivo tre ore al giorno, e siccome lo faccio a mano, mi regolo sul portare a termine almeno tre pagine».

 Prossimi lavori? «Ho scritto A very, very, very dark matter. Viaggia in profondità negli abissi dell’immaginazione, andrà in scena a Londra nel 2018».

(… continua)

Intervista pubblicata su GQ Italia, dicembre 2017

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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