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Matthias Schoenaerts, Il cercatore d’oro

18 martedì Dic 2018

Posted by cristianaallievi in arte, cinema, Mostra d'arte cinematografica di Venezia, Personaggi

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attori, Close Enemies, Cristiana Allievi, giardinaggio, GQ Italia, interviste illuminanti, journalism, Julian Schoenaerts, Matthias Schoenaerts, Mustang, Radegund, Star

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L’attore belga Matthias Schoenaerts fotografato per GQ Italia da Max Vadukul.

DAL PADRE, UOMO DALLA VITA COMPLICATA, HA EREDITATO IL TITOLO DI “MARLON BRANDO FIAMMINGO”. E BASTA: PERCHE’ A MATTHIAS l’ETICHETTA DI ATTORE TORMENTATO NON INTERESSA. PREFERISCE DIPINGERE, CURARE LE SUE PIANTE, PRENDERSI CURA DI SE’. E SFORZARSI DI VEDERE, NELLE PERSONE, SEMPRE IL MEGLIO

«È facile vedere il peggio nelle persone. Io preferisco essere quello che trova l’oro. Non è altrettanto facile, ma è un intento nobile, uno scopo per cui vale la pena fare quello che faccio». Se c’è un’abilità indiscussa in Mattias Schoenaherts è quella di incarnare animali feriti, maschi che vivono tempi duri con se stessi e con gli altri. Lo ha dimostrato sin dagli esordi, da gangstar invischiato nel commercio illegale di carni rinforzate dagli ormoni in quel Bullhead-La vincente ascesa di Jacky che è stato candidato agli Oscar facendo parlare di lui. E di nuovo nei panni di un pugile con un figlio piccolo, in Un sapore di ruggine e ossa: è stato quell’uomo che combatteva per sopravvivere a lanciarlo a livello internazionale e ad assicurargli ruoli di spessore a un ritmo inarrestabile, dal 2012 in poi. Faccia a metà fra Bjorn Borg e Bob Sinclair, all’ultima Mostra di Venezia, dove ha presentato Close Enemies di David Oelhoffen, inizia una conversazione in due tempi proseguita a Parigi, dove è stato scattato il servizio di queste pagine. In entrambe le situazioni arriva in ritardo, e menziona spesso due parole, spontaneità e libertà, che raccontano molto di lui. E che evocano anche quel cocktail esplosivo di eccentricità, disagi psicologici e talento del padre, Julien, star soprattutto del teatro belga, che non ha mai sposato la madre di Matthias, la costume designer Dominique Wiche, mancata due anni fa: cresciuto un po’ da lei ad Anversa, e un po’ dalla nonna a Bruxelles, non meraviglia che a 41 anni declini l’invito a parlare della sua storia famigliare. «Mio padre è morto 12 anni fa, ho fatto pace con una certa parte del mio passato, con cui ho dovuto confrontarmi mentre crescevo».

Aveva nove anni quando recitò sul palcoscenico nel Piccolo principe di Saint-Exupery, di cui Julien era regista e interprete. E nel 1992 il suo esordio sul grande schermo è stato sempre accanto a lui in Padre Daens, di Stijn Coninx, anche se non condividevano alcuna scena.  Un legame fortissimo, giocato sulle affinità. Basti pensare che Julien era noto come “il Marlon Brando fiammingo” e che in seguito il Telegraph descrisse Matthias come “il Marlon Brando belga”. «Non penso al passato, né al futuro, ho bisogno di stare collegato al momento presente. Se vogliamo è una filosofia molto buddista, vivo così anche quando sono su un set. Funziona, semplifica la vita». E considerata la mole vertiginosa di film che lo vede impegnato, gli serve. Attualmente sul set di The Laundromat, di Steven Soderbergh, nel 2019 lo vedremo in quattro pellicole.  Di nuovo diretto da Thomas Vintenberg in Kursk, tragica vicenda del sottomarino russo  affondato 18 anni fa durante un’esercitazione. «Stare con 25 persone in uno spazio ristrettissimo per sei settimane è un’esperienza radicale. Diventi matto, però aiuta a capire chi sei quando esci dalla zona di comfort». In Mustang, di Laure de Clermont-Tonnerre, sarà Roman, un criminale in prigione da 15 anni. «Il film è ambientato in un carcere e racconta un programma di riabilitazione davvero esistente che utilizza i cavalli selvaggi per far tornare in contatto con se stessi». Poi c’è Radegund, di Terrence Malick, in cui indagherà le motivazioni di Franz Jagestatter, un austriaco che decide di non unirsi ai nazisti per combattere con loro la Seconda Guerra mondiale. «In carcere ha scritto molte lettere alla moglie, ed è stato dopo averle lette che Mohammed Alì ha deciso di non andare in Vietnam a uccidere innocenti». Da marzo tornerà al cinema diretto da Oelhoffen, con quel genere banlieue movie in cui esercita al meglio la sua capacità di trovare una luce anche nell’oscurità. È da qui che parte la conversazione.

(continua…)

Storia di copertina di GQ di dicembre 2018

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Kossakovsky da brividi

14 mercoledì Nov 2018

Posted by cristianaallievi in cinema, Cultura, Miti, Personaggi, Zurigo Film Festival

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Acqua, Aquarela, Cristiana Allievi, Festival di Zurigo, Ghiaccio, GQ Italia, interviste illuminanti, journalism, Kossakovsky

L’ultimo lavoro, che il regista ha presentato prima al Festival di Cannes e poi a quello di  Zurigo, racconta la potenza dell’acqua in tutte le sue forme. Liquide e no

 

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Un’immagine del docu film Aquarela, di Kossakovsky (Courtesy of Mymovies).

 

Si vedono 500 metri di iceberg che si staccano in Groenlandia, spostando una massa d’acqua immensa tale da scatenare piccoli maremoti circostanti. Si passa alle superfici ghiacciate del lago Baykal, in Russia, poi sull’isola Bornholm, dove si resta senza fiato davanti al colore dell’acqua del Mar Baltico che cambia col passare delle ore: rossa, verde, grigia, poi completamente nera.  Arriva la strabiliante visione frontale delle Angel Falls in Venezuela, mille metri di cascate in cui l’acqua non arriva mai a terra, polverizzandosi a metà percorso. «Mi ha chiamato un produttore scozzese chiedendomi se volevo girare un film sull’acqua», racconta il pluripremiato documentarista russo Victor Kossakovsky, incontrato al Festival di Zurigo. «Ho detto subito di no, quelli che avevo visto raggruppavano vari tipi di persone, dai politici agli scienziati agli attivisti. Tutti parlavano di clima, di inquinamento, di leggi, ma non si vedeva mai l’acqua. Finchè un giorno, ricontattandomi, ha detto “e se lo chiamassi Aquarela?”. Mi sono visto con un pennello in mano, e ho accettato». Così è iniziato un viaggio incredibile, anche per cercare i finanziamenti di un film senza esseri umani,  senza una storia, solo acqua in diverse forme e tre momenti di musica degli Apocalyptica, un gruppo symphonic metal finlandese. «Nel 2011 stavo girando Viva gli antipodi!, e il personaggio all’improvviso ha detto una cosa strana: “nella prossima vita vorrei non essere una persone, ma acqua”. Quando si è presentata l’opportunità ho deciso di partire da lì: ho messo la macchina nello stesso posto, sul lago Baycal, per riprendere quel ghiaccio spesso solo un metro, trasparente, sotto cui riuscivi a vedere i pesci… Ma è accaduto qualcosa di orribile, e  ho preso una direzione diversa». Conosciuto come il Rembrandt dei documentari (“perché metto le immagini al primo posto, prima ancora delle storie”), ha presentato questi 90 minuti mozzafiato in anteprima mondiale a Cannes. Girato a 96 fotogrammi al secondo, con un suono creato grazie al lavoro di 120 canali, è una chiamata viscerale all’umanità sotto forma d’arte, perché si svegli davanti al bene più prezioso che abbiamo. Un lavoro immane, incominciando lontano dal set. «Ogni mattina col mio team facevamo disegni, chiedendoci come regalare immagini che non si erano mai viste prima. Siamo stati dentro una tempesta  per tre settimane nell’oceano Atlantico, con onde di 20 metri, ci voleva un giorno per spostare la macchina da una parte all’altra della barca». Considerato che a Hollywood film come I Pirati del Caraibi sono girati in piscina, i segreti dietro ogni ripresa di questo lavoro hanno suscitato immediatamente l’interesse di Participant Media.  «I produttori americani mi hanno chiesto di smettere di parlare di come abbiamo lavorato perché volevano farne un libro. Ho appena incominciato a lavorarci, oltre alle parole ci saranno molti disegni».

Articolo pubblicato su GQ numero di Novembre 2018 

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Everybody knows, il quarto film che Javier Bardem e Penelope Cruz fanno assieme

10 giovedì Mag 2018

Posted by cristianaallievi in Cannes, Cultura, Festival di Cannes, Miti

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cinema, Cristiana Allievi, Everybody Knows, Festival di Cannes, interviews, Javier Bardem, journalism, Penelope Cruz

 

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I due attori premi Oscar Penelope Cruz e Javier Bardem nel film che ha aperto ieri il 71° Festival di Cannes, Everybody Knows. 

Non è facile essere il film che apre un festival pieno di polemiche. Non è facile nemmeno fare da apripista a cambiamenti che puntano al futuro ma che, per qualche verso, hanno un non so che di reazionario. Con queste premesse ieri sera Everybody Knows di Asghar Farhadi ha inaugurato il 71mo festival di Cannes. Sul red carpet abbiamo visto sfilare i due divi del film, i premi Oscar Penelope Cruz e Javier Bardem, seguiti dai  membri della giuria della sezione in competizione, con in testa (la divina) Cate Blanchett.

Il film è scritto e diretto da un regista iraniano, ma che non potrebbe essere più spagnolo. Girato poco fuori Madrid, racconta la storia di una donna, Laura (la Cruz) che dall’Argentina torna a casa con i suoi due figli, nel cuore di un vigneto iberico, per il matrimonio della sorella. Il marito è rimasto a casa per questioni di lavoro, e lei qui rincontra parenti e vecchi amori. La sera del matrimonio la luce se ne va. In quel momento scompare nel nulla anche la figlia Irene, mandando Laura in mille pezzi.
Sarà costretta ad affrontare un passato troppo frettolosamente seppellito, o almeno che credeva tale: perché il titolo, “tutti sanno”, ricorda che in un paesino, di segreti, ce ne sono ben pochi.

Il regista è quello che ha vinto l’Oscar con Una separazione, e che con film come Il passato e Il cliente  ci ha abituati a mistero e tensione, oltre che a un’ottima recitazione. In Everybody knowsresta solo quest’ultima, e svaniscono mistero e ritmo, a ricordare quanto sia difficile fare un buon film anche per un rinomato artista come lui. Il passato era stata la sua prima esperienza all’estero con un cast occidentale, questa è la seconda, che vanta anche un grosso budget e una coproduzione che affianca Spagna, Francia e Italia. «Lavoro focalizzandomi sulle cose che la mia cultura ha in comune con le altre», ha raccontato il regista in conferenza stampa. «Al contrario di quello che dicono i media, gli esseri umani non sono diversi per quello che riguarda sentimenti come paura, odio, rabbia, ed è importante insistere su quello che ci accomuna. L’idea del film mi è venuta dopo un viaggio in Spagna di 15 anni fa, ma ci sono voluti quattro anni a svilupparlo e a trasformarlo in una sceneggiatura. Volevo che il mondo nel film fosse più ampio di quello di un piccolo villaggio, ho pensato a personaggi che venivano anche dall’Argentina e dalla Catalogna, e che parlano con accenti diversi».

Questo è il quarto film che vede i Bardem insieme. Si sono conosciuti 25 anni fa sul set di  Prosciutto, prosciutto!, ma si sono sposati solo nel 2010 e oggi hanno due figli. «Ho incontrato Javier a Los Angeles molto tempo fa, mentre Penelope anni dopo, in Spagna, ed è stato chiaro da subito che avremmo fatto questo film insieme».  «In cinque anni ci siamo incontrati spesso il regista», ricorda la Cruz, «e negli ultimi due anni Asghar è venuto addirittura a vivere in Spagna. Ha un modo di lavorare così particolare, ha preso lezione di spagnolo, non dormiva la notte per imparare i nostri dialoghi. Ho un profondo rispetto per lui, è molto umile, fa domande agli attori e li ascolta, per questo è il più grande detector di menzogne, perché comprende le cose». Le fa eco il marito. «Un regista iraniano che non parla spagnolo e gira un film più spagnolo di quelli dei registi spagnoli è una cosa fuori dall’ordinario, vedere qualcuno di un altro paese fare una cosa simile è bellissimo, dimostra che ciò che conta è di cosa si parla, non chi ne parla». Il film tocca il tema della paternità molto da vicino. «Il film è un thriller ma questa è solo una scusa per parlare di certi argomenti e chiedersi cosa farei io al posto del protagonista», continua Farhadi. «La relazione centrale padre-figlia ricorda quella nel Re Lear ma anche quella che c’è in tante famiglie. La domanda che ci si fa è chi è un genitore, colui che tira su una figlia o colui che la concepisce biologicamente?».

Bardem nel film è Paco, vecchio amore di Laura, e diversamente da quanto accade spesso con i personaggi di Farhadi, che agiscono mossi dal senso dell’onore, a muoverlo sono i sentimenti. «L’onore ci fa fare errori, molti crimini oggi vengono commessi per questo. Il mio personaggio è diverso, è bloccato in mille emozioni, vuole fare la cosa migliore per gli altri, non per un senso di orgoglio». Com’è lavorare insieme, da sposati? «Succede di rado, non lo pianifichiamo e non ci portiamo i personaggi a casa», spiega la Cruz. «Quando avevo 20 anni credevo che torturarmi per mesi, restando nel personaggio, servisse. Poi è cambiato l’approccio, ho imparato quanto sia indispensabile salvare alcune cose della vita privata». E Farhadi interviene raccontando la sua ammirazione per i coniugi, soprattutto lontani dai riflettori. «Javier e Penelope hanno un mondo meraviglioso e confini chiarissimi fra set e vita reale. Hanno una famiglia molto semplice, e figli meravigliosi». Qualcuno chiede come costruisce i finali dei suoi film, che hanno tutti la stessa filosofia. «Mi piacciono le storie aperte, voglio che lo spettatore lasci la sala con l’idea che si aprono altri scenari. Non è una strategia cinematografica, mi viene dal cuore, involontariamente finisco con certe conclusioni. E tengo a precisare che questo film ha anche un cuore iraniano, ed è tipico dell’arte orientale e persiana che il creatore sparisca. Accade anche con Kiarostami, non si deve ammirare chi crea la cosa, ma l’opera creata».

Il film è appena stato venduto film in Usa, alla Focus team, ieri è uscito in Francia e ha già registrato un buon successo.  Uscirà in molti paesi e in Italia lo vedremo in autunno, distribuito da Lucky Red.

 

Articolo pubblicato su GQ Italia

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La forza di The Post nelle voci di Streep, Hanks e Spielberg

30 martedì Gen 2018

Posted by cristianaallievi in cinema, Cultura, Golden Globes, Miti

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Cristiana Allievi, freepress, giornalismo, GQ Italia, journalism, libertà di stampa, Meryl Streep, Steven Spielberg, The post, Tom Hanks

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Nessuno può introdurre meglio di loro questo titolo, candidato all’Oscar 2018 per il migliore film e la migliore protagonista, ma anche tutto il suo valore storico, politico e simbolico

1971. Siamo alle prime avvisaglie di interferenza politica in quella che è la libertà chiave nella vita di una democrazia. Steven Spielberg pesca, non a caso, un evento che ha minato la libertà di stampa, e lo sceglie proprio in un momento in cui l’America soffoca sotto i colpi della xenofobia e di un presidente intenzionato a infamare chi non la pensa come lui.

La storia di The post, che sarà nelle sale dall’1 febbraio grazie a 01 Distribution, ruota intono alla figura di Katharine Graham, la prima donna che finisce al comando, da editore, del Washington Post, secondo giornale locale dopo il Washington Star.

Meryl Streep, che ha ottenuto la ventunesima nomination agli Oscar per questa interpretazione, racconta una donna impreparata al ruolo che si ritrova a coprire in una società fortemente maschilista. Grazie al suo straordinario coraggio darà una grande scossa alla storia dell’informazione, decidendo di pubblicare segreti governativi che riguardano la guerra in Vietnam.
«La prima versione della sceneggiatura è stata scritta da Liz Hannah e acquistata da Amy Pascal sei giorni prima delle elezioni presidenziali», racconta la Streep.

«Tutti noi pensavamo si sarebbe trattato di uno sguardo nostalgico al passato, riflettendo su quanta strada avevano fatto le donne fino a oggi, soprattuto in vista di un presidente donna che davamo per scontato. Invece, con le elezioni, sono aumentate le ostilità verso la stampa e gli attacchi alle donne, dall’apice del nostro governo. Così  il film si trasforma, suo malgrado, in una riflessione su quanta strada non abbiamo ancora fatto».

Le vicende ruotano intorno alle Pentagon papers, un rapporto segreto di 7000 pagine stilato nel 1967 per l’allora segretario della difesa Robert Mcnamara. In pratica quei documenti raccontavano una verità a lungo nascosta: per quattro amministrazioni, quelle di Truman, Eisenhower, Kennedy e Johnson, il governo americano aveva mentito ai suoi cittadini e al mondo sulla guerra in Vietnam.
Mentre i politici sostenevano di volere la pace, la Cia e e i militari incrementavano il conflitto sapendo in partenza che non avrebbero avuto la meglio. In pratica, mandando a morte sicura quei 58.220 soldati che hanno perso la vita sul campo.

Il regista di Schindler’s List, Munich, Lincoln e Il ponte delle spieracconta, in un crescendo di tensione, come un brillante analista militare, Daniel Ellsberg, ex soldato dei Marines e poi del Vietnam, abbia deciso di fotocopiare e nascondere tutte quelle pagine, per poi consegnarle al New York Times.

Il 13 giugno 1971 appare in prima pagina un lungo articolo che fa scoppiare un inferno, e l’amministrazione Nixon chiede alla Corte Federale di bloccare la pubblicazione dei documenti da parte della testata, con la motivazione che quelle informazioni avrebbero messo in pericolo la sicurezza nazionale.

Da qui in avanti la storia si fa ancora più rovente perché gli altri quotidiani iniziano a darsi da fare per pubblicare i documenti, approfittando dello stop dato al New York Times.

«La libertà di stampa è un diritto che consente ai giornalisti di essere i guardiani della democrazia, una verità incontrovertibile», racconta il tre volte premio Oscar Steven Spielberg che segna un altro punto a suo favore per quanto riguarda il filone storico dei suoi lavori. «Nel 1971, il tentativo di Nixon di negare il diritto di pubblicare i Pentagon papers fu un atto inaudito. Era la prima volta che succedeva qualcosa del genere dalla Guerra Civile americana. Oggi ci troviamo ancora una volta a osservare questa minaccia, e questo rende quei fatti tremendamente attuali».

Il due volte premio Oscar Tom Hanks interpreta Dan Bradlee, direttore del quotidiano locale, per niente spaventato dalla competizione con un colosso: «Ben Bradlee era molto competitivo, una vera bestia», racconta. «Aveva passione, era il tipo di uomo che voleva trovare non una grande storia, ma “La” storia. Nel giugno del 1971 il Washington Post era in competizione con il Washington Star, che era il quotidiano principale della capitale: il fatto che il Times avesse una storia che il Post non aveva, era un fatto che teneva sveglio Bradley la notte. Lo faceva impazzire. C’è una scena, in cui sono tutti riuniti nella sala di consiglio e stanno leggendo il giornale avversario, in cui Bradlee dice “siamo gli ultimi a casa nostra!”. È fantastica, racchiude il senso della sfida che guiderà tutto il resto del film».

Bradlee ha la vista lunga, se si pensa che il suo modo di ragionare aprirà la strada a inchieste come quella del Watergate, che porterà alle dimissioni di Nixon. Ma niente sarebbe successo senza di lei, Katharine Graham. «Era una donna che aveva la sensazione che il posto in cui era non le competesse», continua Meryl Streep. «La rappresentazione della redazione del giornale, come era nel 1971, è molto fedele: c’erano solo uomini ed erano tutti bianchi, le donne erano solo segretarie. In un simile contesto, questa donna sfida Nixon, senza sapere che un giorno sarebbe finita a capo di una delle società di Fortune 500, qualcosa di inconcepibile all’epoca, come vincere un Pulitzer con la propria autobiografia. Ma tutto accade grazie all’enorme fiducia fra lei, l’editore, e Ben Bradlee, direttore del suo giornale, uno degli uomini più coraggiosi che abbia incrociato in vita mia, di quel genere disposto a rischiare tutto».

Articolo pubblicato su GQ.it il 29 gennaio 2017

© RIPRODUZIONE RISERVATA

 

 

 

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