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Cristiana Allievi

~ Interviste illuminanti

Cristiana Allievi

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A tu per tu con Charlotte Gainsbourg

18 lunedì Apr 2022

Posted by cristianaallievi in arte, Attulità, cinema, Cultura, Festival di Berlino, Festival di Cannes, Miti

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Antichrist, Charlotte Gainsbourg, Cristiana Allievi, GLi amori di Suzanna Andler, interviste illuminanti, Jane Birkin, Jane by Charlotte, Lars Von Trier, Nymphomaniac, Serge Gainsbourg, Yvan Attal

UN PADRE, SERGE GAINSBOURG, MAI DIMENTICATO. UNA MADRE, JANE BIRKIN, SPESSO ALLONTANATA, ORA, A 50 ANNI, L’ATTRICE FRANCESE FA PACE CON I “FANTASMI” DEL PASSATO. GRAZIE A UN MUSEO E A UN FILM

di Cristiana Allievi

(… continua)

Intervista integrale pubblicata su Donna Moderna del 14 aprile 2022

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Prime Visioni. Le donne del cinema conquistano visibilità

24 domenica Mar 2019

Posted by cristianaallievi in arte, cinema, Cultura, Festival di Berlino, Festival di Cannes, Sundance

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cinema, Cinema Italiano, cinema tedesco, cinema Uk, cinema Usa, D La repubblica, donne, interviste illuminanti, Isabelle Giordano, Keri Putnam, Mariette Rissenbeek, Piera Detassis, Sundance, Tricia Tuttle

FORTI, PREPARATE, INNOVATRICI: LE DONNE DEL CINEMA CONQUISTANO VISIBILITA’, A PARTIRE DALLE STANZE DEI BOTTONI. COSI’, GUIDANDO FESTIVAL E KERMESSE INTERNAZIONALI, PUNTANO A UNA MAGGIOR PRESENZA FEMMINILE ANCHE NEI FILM

Le donne del BFI London Film Festival (courtesy D la Repubblica).

La fata dei cavoli. Un titolo che sembra un presagio, per il primo film girato dalla prima regista donna, nel 1896. Alice Guy, francese, fu poi l’autrice di altri seicento lavori, arrivando persino a dirigere studi cinematografici d’Oltreoceano. Ma finì dimenticata e in disgrazia, lasciando ai Lumiere tutti i meriti dell’invenzione del cinema.

Oggi le femministe francesi stanno lavorando perché Alice abbia il riconoscimento che merita e una strada intitolata a suo nome. Così, a mezzo secolo dalla scomparsa di Guy, l’occasione è giusta per fare il punto sulle donne (del cinema) con poteri e visioni forti. Per capire a che punto siamo sulla strada verso la parità fra sessi nel mondo di celluloide.  

«La Francia è il paese con la maggiore presenza di registi donne rispetto agli uomini, abbiamo anche molte produttrici e agenti di vendita», racconta Isabelle Giordano, ex madame del cinema di Canal+ dal 2013 direttrice generale di UniFrance, organismo che promuove il cinema d0Oltralpe all’estero. Con 300 film all’anno, e più di 60 coproduzioni internazionali: il primo in Europa. «Un dato strano, se si pensa che i francesi non hanno mai amato avere donne al potere. Ne parlavamo già 15 anni fa quando lavoravo in tv», aggiunge. «Abbiamo registe note in tutto il mondo, come Rebecca Zlotowski e Claire Denis, che però non hanno mai vinto una Palma d’Oro. Penso che occorre andare oltre il #metoo: la domanda da porsi non è più quante donne ci sono, piuttosto com’è la qualità del loro lavoro? E quanti film facciamo su di loro? Anche Bercot, Satrapi e la stessa Maiwenn girano film tosti, coraggiosi, ed è questo che occorre far capire a chi finanzia il cinema». Nel complesso  la Francia nel 2018 ha avuto un calo dello 0,5 di presenze nelle sale. «Il nuovo trend è avere tanta scelta, veloce e da casa, ma il cinema deve continuare a offrire spunti e richiedere tempo per riflettere. E dovrà lavorare accanto alle piattaforme, invece di far loro la guerra. Ci aspettiamo novità dal Festival di Cannes alle porte». L’unico box office europeo ad aver registrato un +0,6 per cento nel 2018 è quello inglese. «Negli anni Settanta in casa mia si andava al cinema almeno una volta alla settimana, se non due», ricorda Tricia Tuttle, nuovo direttore permanente del BFI London Film Festival, l’ente governativo che distribuisce i fondi per il cinema. «Oggi i costumi sono cambiati, ma invece di aumentare il costo dei biglietti abbiamo attuato una politica di flessibilità dei prezzi e ha funzionato». Laurea alla University of North Carolina, ha lavorato prima con Sandra Hepron, direttrice del London Film Fest, poi con Amanda Berry, amministratore delegato dei Bafta, e Claire Stewart, ex direttrice del BFI. «Sono tutte donne forti che puntano sull’avere intorno a sé persone creative a cui lasciar fare il proprio lavoro, dando molta importanza al contributo di ciascuno». Da Keira Knightley a Emma Thomson, da Helen Mirren ad Olivia Colman, da Rachel Weistz, Carey Mulligan ed Emma Watson, «le nostre sono professioniste versatili e dal forte appeal, non figurine messe lì per essere guardate. E fra le registe, l’anno scorso il 38 per cento erano donne, contro il 24 dell’anno precedente. Numero che precipita però quando si parla di grandi budget: dei 200 film ai vertici del box office nel 2018  solo 15 erano diretti da una donna», precisa Tuttle.

(continua…)

Articolo pubblicato su D la Repubblica del 23 marzo 2019

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«New York ha ancora bisogno di me», Cynthia Nixon

19 martedì Giu 2018

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A quiet passion, Cristiana Allievi, Cynthia Nixon, Emily Dickinson, Grazia, LGBT, Politica, primarie 2018, Sex and the City, Usa

VENT’ANNI FA NELLA SERIE CULTO SEX AND THE CITY ERA UNA DONNA LIBERA E CONTROCORRENTE, E OGGI CONSERVA ANCORA QUESTA QUALITA’. AL CINEMA, DOVE INTERPRETA UNA POETESSA EMANCIPATA, E FUORI DAL SET, DOVE SI È CANDIDATA GOVERNATORE DELLO STATO CHE LE HA PERMESSO DI SPOSARE LA DONNA DELLA SUA VITA

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«Cynthia Nixon è superba in questo ruolo»,  ha scritto il quotidiano britannico The Guardian. Ma non si riferiva solo alla decisione di candidarsi Governatore dello stato di New York (le primarie sono il 13 settembre), perché l’attrice lanciata dalla serie tv Sex and the City lascia senza parole anche nel film A quiet passion (nelle sale), in cui interpreta la poetessa Emily Dickinson. Ci sono, comunque, molti punti in comune fra l’attivismo politico di Nixon e la nuova eroina ultra contemporanea che interpreta sullo schermo,  ovvero una donna che ha lottato contro l’intera società, quando tutti pensavano che la professione di scrittrice fosse inappropriata per una ragazza. Una donna modernissima che ha preso forza dalle sue simili, come le sorelle Brönte e Elizabeth Browning e ha combattuto per essere presa sul serio. Lo stesso che, passando dal set alla politica, dovrà fare la Nixon. A dire il vero, per le 40enni Cynthia era un tipo controcorrente già nella serie tv che l’ha resa celebre: nei panni di Miranda Hobbes era il personaggio più progressista, femminista, impegnato e anticonvenzionale di Sex & the city. Fuori dal set ha saputo essere anche più sorprendente: dopo anni con il suo partner, Danny Mozes, con cui ha avuto due figli (Samantha e Charles, 21 e 15 anni), Nixon ha sposato Christine Marinoni, attivista del movimento per i diritti di lesbiche, gay, bisessuali e transgender, e con lei ha avuto Max, 7 anni. Nel mezzo è riuscita a superare anche un cancro al seno, affrontando pubblicamente la sua malattia. Nel frattempo l’abbiamo vista in prima fila a tutti gli appuntamenti che contano, compresa la Women’s March del 2017, la marcia delle donne che ha sancito la nascita del movimento trasversale per la rivendicazione dei diritti femminili.

Lei è un’attrice attivista e newyorkese di oggi. Che cosa sente di avere in comune con una scrittrice dell’Ottocento come Emily Dickinson? «Quando ero una bambina, ero molto timida. Non riuscivo ad essere per gli altri la ragazza che si aspettavano che fossi. Credo di assomigliare a Emily in questo».

Fra i tanti misteri che riguardano la scrittrice c’è quello della sessualità. Pensa che fosse lesbica? «Se devo dare un parere, credo fosse molto innamorata di sua cognata, Susan Gilbert, e alla fine si è sentita tradita da lei. La definirei bisessuale, ma di fondo era una persona talmente appassionata e così desiderosa di instaurare rapporti da andare oltre i luoghi comuni».

Chi è più femminista fra voi? «Dickinson era molto interessata all’uguaglianza delle donne, aveva idee chiare contro la schiavitù e la guerra civile, ma non ha messo molto nel movimento politico. Io ho più fiducia in quella direzione di quanta non ne abbia avuta lei, so che bisogna impegnarsi in prima persona per concretizzare le idee».

Così ha deciso di candidarsi alle primarie democratiche del prossimo 13 settembre sfidando l’attuale governatore Andrew Cuomo. Perché questa decisione? «I nostri leader ci stanno deludendo, siamo lo stato con le più marcate diseguaglianze nell’intero Paese, con ricchezza incredibile e povertà estrema. Siamo stanchi di politici che si preoccupano di titoli e potere e non di noi. Io vivo a New York da sempre, è la mia casa».

(continua…)

 

Intervista pubblicata su Grazia del 13/6/2018 

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The happy prince, Rupert Everett è Oscar Wilde

23 venerdì Feb 2018

Posted by cristianaallievi in Berlinale, Cultura, Festival di Berlino, Miti, Personaggi

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Berlino 2018, esordio alla regia, Film, Oscar Wilde, Rupert Everett, The happy prince

Come l’uomo che ha prestato il volto a Dylan Dog (anche in un doppio gioco di specchi tra fumetto e cinema) si cala ora nei panni del suo mito in un film, di lunga genesi, che lo vede regista e interprete

«Era affascinato da Cristo e dal Cristianesimo, il suo è stato un sacrificio. Avrebbe avuto l’opportunità di scappare dall’Inghilterra e di non finire in prigione, ma ha deciso diversamente: si è sacrificato per tornare a vivere. Per me Oscar Wilde è una figura ‘cristica’». Parola di Rupert Everett.

Ci sono film preceduti dalla loro stessa fama, per svariati motivi. A causa del soggetto che trattano, o del regista che lo affronta, oppure per il momento storico particolarmente favorevole a riceverlo. Nel caso di The happy prince si tratta di un vero e proprio corto circuito di tutti questi elementi.
È l’esordio alla regia di Rupert Everett, 58 anni, e racconta la storia molto poco conosciuta degli ultimi tre anni di vita di Oscar Wilde. E, cosa non di poco conto, a interpretare il celebre scrittore irlandese dell’epoca vittoriana, che ha dato scandalo ante litteram in fatto di omosessualità, è Everett stesso, che sembra nato per questo ruolo, lui che ha pagato caro in termini di carriera l’aver fatto coming out con largo anticipo sui tempi. Non ha caso il discendente della famiglia reale di Carlo II Stuart, re d’Inghilterra e Scozia, ha impiegato più di un decennio per trovare i fondi per portare a termine il film presentato in anteprima mondiale all’ultima Berlinale, probabilmente il più importante della sua vita.

The Happy Prince

La storia propone il “sacrificio” di un artista acclamatissimo, l’uomo che è stato il più famoso personaggio di Londra e che finisce i suoi giorni crocifisso dalla stessa società che lo ha acclamato.

Imprigionato con l’accusa di indecenza a causa di una liason scandalosa con Lord Alfred “Bosie” Douglas, e per questo amore sbeffeggiato e oltraggiato, Oscar Wilde passa l’ultimo anno di vita in tour per l’Europa, in incognito, fra sensi di colpa, dolori dovuti all’ascesso a un orecchio e giovani pagati a poco prezzo.
Everett si è presentato a Berlino con cappotto blu e cappellino alla The Edge, che non ha tolto nemmeno in sala stampa. E nonostante nel film sia chiaro che abbia messo tutto se stesso (e soprattutto tutto il suo cuore), nel parlarne non perde la sua inconfondibile compostezza british.

«Abbiamo faticato molto a raccogliere i soldi», ha raccontato ai giornalisti di tutto il mondo parlando del film che vede come altri protagonisti anche Emily Watson, Colin Morgan, Colin Firth ed Edwin Thomas. «A un certo punto ho deciso di fare una tournée teatrale per risvegliare l’interesse nei confronti di Wilde, e grazie a The Judas Kiss le cose si sono sbloccate ed è arrivata la BBC».

Al centro del racconto di Everett, la forza autodistruttiva di Wilde. «Era un uomo che la gente non capiva, perché non è facile comprendere il fascino dell’autodistruzione. Ma lui ha percorso strade con largo anticipo rispetto a Freud stesso».

Uscito di prigione, Wilde scandalizza i suoi amici tornando fra le braccia di Bosie, ma Everett se lo immagina mentre legge la favola The happy prince a due giovani parigini, e molto tempo prima ai suoi figli, insegnando loro con una grande metafora che “l’amore è tutto”.

The Happy Prince

A proposito di sacrificio, non è da trascurare quello della moglie di Wilde, Constance, che viene letteralmente distrutta dal marito. «Era quasi impossibile non amare quell’uomo, aveva molto fuoco dentro di sé ed era molto attraente », racconta l’attrice nominata due volte agli Oscar Emily Watson, che interpreta la malcapitata. «Per costruire il mio personaggio ho letto Very tragic and scandalous life of Mrs Oscar Wilde e ho scoperto che era una donna piena di vita e agli inizi faceva parte del movimento artistico. Ma ha dovuto pagare un prezzo altissimo per le scelte del marito: è morta triste e sola, la sua vita è stata letteralmente divorata dall’ipocrisia».

Il film è una coproduzione anglo-franco-tedesco-italiana ed è girato per metà in Germania.
«Abbiamo trovato un vecchio castello in Bavaria che ha funzionato perfettamente», ricorda Everett, «in pratica abbiamo lavorato dove Wilde non ha mai messo piede e non siamo mai stati a Parigi dove invece è ambientato il film».
Alla domanda se è stato difficile scriversi il copione, recitarlo e dirigere se stessi, risponde senza esitazioni. «Adoro lavorare con me stesso come regista, anche se è stato molto impegnativo e metà delle mie performance di attore ne hanno risentito. Ma ho sistemato tutto durante l’editing».

La vita di Rupert Everett, la sua vena polemica, il narcisismo e l’eleganza dei suoi modi lo hanno reso una miscela esplosiva, un vero idolo, al punto da spingere Tiziano Sclavi a creare a sua immagine il protagonista del suo Dylan Dog.
Non stupisce che un uomo così sia stato stregato da Wilde, vero iniziatore del movimento di liberazione dei gay.

«Prima di Oscar la parola “omosessuale” non esisteva nemmeno, la comunità LGTB di oggi deve sapere che è stato assassinato un uomo per difendere la sua sessualità, e che gli dobbiamo il cambiamento che stiamo vivendo oggi».

The Happy Prince

Autore di due romanzi e di due autobiografie, come di articoli pubblicati dall’Observer, The Times, Vogue, Harper’s Bazaar e Vanity Fair, Everett al momento è in Italia e sta girando Il nome della rosa. Vedremo The happy prince nelle nostre sale dal 25 aprile, distribuito da Vision Distribution.

Articolo pubblicato su GQ.it

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Central Airport THF, il crocevia dei cieli che diventò centro di accoglienza

21 mercoledì Feb 2018

Posted by cristianaallievi in Berlinale, Cultura, Festival di Berlino

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aeroporti, architettura, Berlino2018, Central Airport THF, Cristiana Allievi, Germania, GQ Italia, Karim Ainouz, Tempelhof

Un pezzo di storia di Berlino, un non luogo che accoglie chi non ha più patria e gli effetti positivi del condividere gli spazi migliori con chi sta ancora cercando uno spazio sicuro nel mondo

«Sono partito dall’idea di fare un documentario su Tegel, l’aeroporto di Berlino che avrebbe dovuto chiudere. Ma non è successo, così ho pensato di fare un lavoro sui quattro aeroporti della città, restituendo una specie di sua storia.
Ho iniziato a fare ricerche su diversi fronti, BER – il nuovo aeroporto che di fatto non è mai stato aperto-, quello che avrebbe dovuto chiudere e non è mai stato chiuso, e quello che ha effettivamente chiuso, Tempelhof ». A parlare è Karim Ainouz, autore del documentario Central Airport THF presentato in anteprima mondiale alla sessantottesima Berlinale. Il regista e artista visivo brasiliano, che è anche un architetto, ha scelto di raccontare un luogo simbolo della città, che riflette moltissimo della recente storia tedesca.

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Il film apre con un tour guidato di turisti che illustra le idee su questo luogo da Hitler in avanti. Disegnato nel 1923, è stato parzialmente ricostruito dai Nazisti negli anni trenta come simbolo di magnificenza, poi è stato usato per testare i primi aeroplani, come casa per i prigionieri della Seconda guerra mondiale, quindi come base militare americana.Dopo la caduta del Muro di Berlino, e la costruzione di Tegel nella Berlino ovest, ha iniziato a operare i voli domestici. «Nel 2010 hanno chiuso l’aerodromo e Tempelhof è diventato il più grande parco pubblico della città. Mi è sembrato un grande esercizio di civiltà, per questo volevo già girare un documentario che ne parlasse. Ma poi le cose sono cambiate, e nel novembre del 2015 hanno iniziato ad arrivare rifugiati. C’erano delle tende, stavano cercando di capire cosa fare in quell’emergenza, finché dalla sera alla mattina hanno deciso di diventare un centro di accoglienza, e hanno messo la sicurezza».

Da architetto Arouz non poteva che essere interessato a documentare un simile spazio, e da artista si è accorto della sua frustrazione per come i media stavano coprendo la questione dei rifugiati, lì gli è scattato qualcosa dentro. «L’unica immagine che abbiamo tutti dei rifugiati è quella di gente che salta dalle navi, e che arriva in Grecia, ma non sappiamo mai niente di chi sono queste persone. Così ho messo le due cose insieme, documentando un luogo di guerra che si trasformava in un punto di speranza».

È così che vediamo 97 minuti di immagini del luogo che è stato usato anche come set per The Hunger games, The bourne Supremacy e Il ponte delle spie, e che oggi ospita tremila rifugiati provenienti dalla Siria e dall’Iraq. «All’improvviso erano arrivati tutti i media a coprire l’evento, la gente non voleva più vedere una telecamera. Sono andato avanti e indietro per sei mesi, senza avere un’autorizzazione, ma mi sono detto che non importava: se non avessi potuto girare un film avrei scritto un articolo».

Per mesi ha osservato ossessivamente molte cose, soprattutto il modo di negoziare la vita di queste persone e la burocrazia. E mostra allo spettatore la storia di una comunità che vive in piccoli box all’interno dell’aeroporto, che si è creata i tavoli da ping pong come il negozio del barbiere, fino al centro che somministra vaccinazioni. «Ho seguito molte storie, finché mi è stato chiaro che dovevo focalizzarmi su due vite, e in questo c’entrava la mia storia personale». Arrivato dal Brasile a Parigi per vivere col padre algerino, a causa del nome, Karim, la sua esperienza si è trasformata in un incubo: nessuno credeva che fosse anche brasiliano, tutti pensavano si dovesse comportare come un immigrato algerino.
Dopo un anno, la cosa era diventata insopportabile. «Il problema è che mi hanno scambiato per un arabo e non è la cosa più semplice in Francia. A 17 anni non sapevo come difendermi, ero molto arrabbiato e frustrato».
Per questo nel film ha scelto di focalizzarsi su un arabo, per contribuire a mostrare un’angolazione differente da quella con cui ce ne parlano da dieci anni a questa parte. Ha trovato un ragazzo siriano di 17 anni, Ibrahim Al Hussein (oggi 18 anni), diventato il narratore del film. Ed essendo interessato a due generazioni, ha scelto anche un iracheno di 35 enne, Qutaiba Nafea (oggi 40 anni). Due uomini provenienti da diversi background e con diverse prospettive di vita.

«Ricordo il momento in cui ho deciso di lasciare il mio paese», racconta Ibrahim, che oggi lavora in un cinema. «Non avevo possibilità di restare a Manbij (Aleppo, ndr), sono stato chiuso in casa per sei mesi a non fare niente, non potevo finire gli studi all’Università a causa della guerra. Volevo un’altra vita, e come ogni altro rifugiato proveniente dalla Siria ho fatto il viaggio passando dalla Turchia, poi dalla Grecia, per arrivare a Berlino. Ci sono voluti sei giorni non stop, fra treni e autobus. Mia sorella è venuta con me, abbiamo cugini in Germania. Ho iniziato a imparare il tedesco, per fare le carte, e dopo due anni ho ottenuto la residenza come rifugiato. Dopo 15 mesi passati a Tempelhof mi sono cercato una casa mia».
Qutaiba Nafea è arrivato qui allo stesso modo, a causa della guerra dopo che la sua città, Ramadhi è stata invasa dai terroristi. «Ho perso mio fratello più giovane, e poco dopo il mio compagno di casa: qualcuno è arrivata nell’edificio e lo ha ucciso. Sono molto grato al mio professore dell’Università, capo del dipartimento di Psichiatria. Mi ha incontrato a un esame e ha capito che non dormivo da tempo, ero paralizzato. Il giorno dopo mi ha convocato da lui, mi ha fatto molte domande e poi mi ha chiesto se avevo il passaporto. Quando gli ho risposto di sì, mi ha detto “domani lasci questo paese”. Mi sono fidato, lui mi ha salvato», continua, «io trovavo sempre scuse per aspettare, mi dicevo che avrei perso i miei studi da medico, e poi che non sapevo dove andare. Ma ho visto così tanta gente morire, che se non fossi sparito subito sarebbe successo anche a me». A differenza di Ibrahim ci ha messo 19 notti ad raggiungere Berlino, perché le cose nel frattempo si erano fatte più difficile. Dopo tre mesi a Tempelhof ha continuato a lavorare al centro medico che ha lasciato recentemente per iniziare a lavorare con un’altra compagnia. Oggi quando è in giro per la città con la moglie, scappata con lui, sono in molti a riconoscerlo e a salutarlo. «In un anno e mezzo ho fatto più di cinquemila vaccinazioni, ognuna aveva tre richiami. Le persone erano diventate delle specie di clienti che venivano a trovarmi un negozio».

La chiave di Central Airport THF sta mettere l’accento sul positivo, sul buono che può succedere ai rifugiati. E non solo. Oggi lo spazio intorno a Tempelhof è stato reclamato dal pubblico come oasi per ciclisti e amanti dei pic nic. Il messaggio implicito, quindi, è che i tedeschi sono stati così generosi da dividere i loro spazi migliori con i rifugiati. Un merito indiscusso, a cui il film rende un dovuto omaggio.

 

Articolo pubblicato su GQ.it 

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Wes Anderson scalda Berlino con L’Isola dei cani (e un cast stellare)

16 venerdì Feb 2018

Posted by cristianaallievi in Berlinale, cinema, Cultura, Festival di Berlino

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20th Century Fox, Berlinale 2018, Cristiana Allievi, Festival di Berlino, Isle of dogs, L'isola dei cani, Wes Anderson

Il regista texano torna lì dove ha lanciato il suo The Grand Budapest Hotel e, al solito, incanta tutti. Con una storia semplice ma visionaria e piena di magia (vera) del cinema

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Dal film L’isola dei cani di Wes Anderson, che ha aperto la 68esima Berlinale (© 2018 Twentieth Century Fox)

«Volevamo raccontare una storia di cani. Si trattava di partire da loro, e di vedere dove ci avrebbero portati. Quando racconto certe storie non ho subito tutto chiaro in mente: parto da un’idea che cresce strada facendo». Con queste parole il visionario regista texano Wes Anderson ha aperto stamattina la sessantottesima Berlinale.
In una sala stampa gremitissima, con il cast che si è messo addirittura a cantare, ha presentato il suo film animato L’isola dei cani, a quattro anni di distanza da The grand Budapest Hotel che aveva dato il via all’edizione del 2014. E fa di nuovo centro, con la brillante fantasia che lo caratterizza e uno stuolo di superstar che hanno prestato la propria voce.

Siamo in un arcipelago in Giappone, fra 20 anni. A causa di una “saturazione canina”, e di un tipo di influenza che rischia di oltrepassare la soglia della specie e colpire anche gli umani, il sindaco della città di Magasaki emette un decreto esecutivo: tutti i cani devono essere esiliati su un’isola di immondizia. È così che Trash Island diventa una colonia di esilio di animali sia randagi sia addomesticati. Ognuno arriva chiuso nella propria gabbia, e viene abbandonato a un destino di solitudine, mancanza di cibo e di cure. Finché un ragazzino di 12 anni, Atari Kobayashi, decide di disubbidire al sindaco e vola con il suo Junior-Turbo Prop sull’isola per andare a cercare il suo animale. Con cinque amici speciali a quattro zampe (Chief, Rex, King, Duke, Boss, tutti nomi che servono a ricordare quanto agli animali manchino la casa e la famiglia di umani da cui provengono) scoprirà una cospirazione per sterminare per sempre tutti i cani della città. Ma il team porterà a termine una missione che cambierà il destino di tutti.

Il nono film di Anderson, e il secondo dopo Fantastic Mr. Fox a essere stato creato con la tecnica stop-motion, racconta la fantasiosa storia di un’isteria nei confronti dei cani, con una grande dose di ironia, dettagli e umorismo. «In origine erano due idee che poi sono diventate una. C’erano i cani, anche quelli Alfa, l’immondizia e i bambini. Poi è arrivata la location, e ha catalizzato la storia», racconta il regista sei volte candidato agli Oscar, che ha scritto questa versione fantasy del Giappone con gli storici collaboratori Roman Coppola, Jason Schwartzman e Kunichi Nomura. «Volevamo rendere omaggio al cinema giapponese di Akira Kurosawa e Hayao Miyazaki». Del primo regista sono film come L’angelo ubriaco, Cane randagio, Anatomia di un rapimento e I cattivi dormono in pace ad averlo ispirato, con quelle storie che ruotano intorno a temi come criminalità e corruzione e in cui si trascende il male grazie a personaggi dalla grande umanità e onestà. La stessa umanità che ritroviamo nei cani, che hanno sentimenti forti e versano lacrime di empatia. «I dettagli e i silenzi sono importantissimi e hanno un ritmo tutto loro, e per questi mi sono rifatto invece a Miyazaki. Anche la scelta di Alexander Desplat di stare un passo indietro con la musica in certi momenti, viene da quel tipo di ispirazione». Il regista ha lavorato vecchio stile, usando miniature di cani fatti a mano. «C’è una certa parte dello stop motion che usa modellini, e se lavori così, abbracci il vecchio metodo combinandolo con i processi digitali. Abbiamo ripreso miniature, e si vede, ed è un modo di lavorare che mi piace perché mi ricorda la storia del cinema». Un’idea di fantasia che, in anni di lavoro, si è plasmata sui fatti che, nel frattempo, accadevano nel mondo. «Temi come il futuro, la spazzatura e le avventure dei bambini valgono in ogni luogo e ogni tempo».

Le voci degli animali e dei protagonisti umani appartengono a un pool di superstar, da Bryan Cranston a Edward Norton, passando per Bill Murray, Jeff Goldblum, Tilda Swinton, Greta Gerwig e Scarlett Johansson. «Sono persone che amo e con cui ho lavorato nel corso degli anni. Il bello è che una proposta di prestare le voci a un film animato non si può rifiutare, è un lavoro che puoi fare quando vuoi, anche a casa tua», conclude il regista.

Il film sarà distribuito in Italia dalla 20th Century Fox nel mese di maggio.

Articolo pubblicato su GQ.it 

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Kristin Scott Thomas: «Resisto a tutto, tranne che alle sfide».

09 venerdì Feb 2018

Posted by cristianaallievi in cinema, Festival di Berlino, Personaggi, Teatro

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Cristiana Allievi, Donna Moderna, Gosford Park, Il paziente inglese, Kristin Scott Thomas, L'ora più buia, Sally Potter, The party, Wiston Churchill

DOPO QUATTRO ANNI DI LONTANANZA DAL SET, RECITA IN DUE FILM DI CARATTERE. IL CULT THE PARTY, GIRATO IN SOLI 15 GIORNI. E IL CANDIDATO ALL’OSCAR L’ORA PIU’ BUIA, IN CUI VESTE I PANNI DELLA MOGLIE DI WISTON CHURCHILL. UN RUOLO CHE ALL’INIZIO NON VOLEVA, TANTO CHE PER CONVINCERLA IL REGISTA HA RISCRITTO TUTTI I SUOI DIALOGHI

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L’attrice Kristin Scott Thomas, 57 anni (courtesy of The Sidney Morning Herald):

«Odio guardarmi sullo schermo. Vedo qualcuno che finge di essere qualcun altro, e non ci credo». Fa un certo effetto sentir pronunciare una frase così dissacrante da un’icona del cinema come lei. L’unica spiegazione a tanta audacia da parte dell’interprete di Gosford Park e Il paziente inglese viene forse dal suo Dna. Kristin Scott Thomas, 57 anni, nata in Cornovaglia ma trapiantata a Parigi dall’età di 19 anni, è la pronipote del capitano Scott, l’esploratore che ha perso la vita durante la competizione per raggiungere il Polo Sud. E suo padre, mancato quando aveva solo cinque anni, era un pilota della componente aerea della Marina Militare del Regno Unito. Non stupisce, quindi, che qualche tempo fa abbia dichiarato che non avrebbe mai più accettato ruoli da spalla: per convincerla a calarsi nei panni della moglie di Churchill, Joe Wright ha dovuto riscrivere tutti i suoi dialoghi. Non stupisce nemmeno la proverbiale riservatezza, se si pensa che dal divorzio dal marito François Olivennes nel 2008, un famoso medico francese con cui ha a vuto tre figli, non ha mai parlato di nuove relazioni sentimentali. E ad ascoltare cosa racconta di The party, film accettato dopo quattro anni di assenza dai set, risulta chiaro che le sfide sono l’unica cosa a cui non sa resistere. Questa è una pirotecnica girandola di incontri con un cast stellare, scritta e diretta da Sally Potter e nelle sale dall’8 febbraio.

In The party è una politica in carriera che organizza una cena fra amici. In pochi minuti la festa si trasformerà in un disastro, a causa delle dinamiche profonde che si scatenano fra i partecipanti. «Ero terrorizzata sapendo che avevamo solo una settimana di prove e due per girare, temevo che non mi sarei ricordata i dialoghi. È stata un’esperienza intensissima, in cui noi attori siamo costantemente esposti. Avevo deciso di smettere di recitare per il cinema e fare solo teatro, ma è stata l’esperienza più piacevole avuta su un set».

Merito della regista di Lezioni di tango? «È una delle poche donne a dirigire su questo pianeta, sa scrivere sceneggiature che sembrano scolpite e ti costringe a diventare il personaggio che crea per te».

Nel suo caso, una politica spudoratamente diretta. «Nella vita vera sono molto più idealista di Janet: sono nata e cresciuta a Redruth, lì anche se si pensano certe cose, non si dicono! È stato liberatorio calarmi in una donna piena di brutale verità, viviamo un momento storico di disintegrazione, è arrivata l’ora di fare qualcosa, di diventare più politici».

Cosa intende dire? «Mia madre Deborah (Hurlbatt, ndr) era una politica, conosco bene quella vita, è brutale, non perdona. Per me è triste vedere che abbiamo perso fede e rispetto per le persone che cercano di combattere per il bene comune, e credo sia successo da quando abbiamo perso Hilary Clinton».

Sua madre ha cambiato la sua attitudine verso la politica? «Lei agiva a livello locale, ma mentre era a New Orleans ha attraversato la tragedia Katrina. Io sono arrivata lì quattro giorni dopo, ho visto quanto bene può fare una persona in una città distrutta. Sono onorata di avere una madre che ha combattuto per cambiare, non a livello nazionale ma nei piccoli centri, quelli in cui si può ottenere o distruggere di più. E comunque spero ancora di vedere una donna alla Casa Bianca».

(…continua)

Intervista integrale pubblicata su Donna Moderna del 5 febbraio

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The Bomb, 70 anni di nucleare in 50 minuti di immagini e musica

15 mercoledì Feb 2017

Posted by cristianaallievi in Cultura, Festival di Berlino

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67Berlinale, armi nucleari, Eric Schlosser, GQitalia, Kevin Ford, Radiohead, Smriti Keshari, The bomb

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The bomb, diretto da Kevin Ford, Smriti Keshari e Eric Schlosser (photo by  Stanley Donwood & Teh Kindom of Ludd).

Un giornalista, due registi indipendenti e il grafico che ha dato un’immagine forte ai Radiohead uniti a raccontare l’orrore e insieme il fascino inquietante (e tutto maschile) delle armi nucleari

Sul palco ci sono sintetizzatori, computer, chitarre. Sullo schermo iniziano a scorrere immagini che, da un satellite, volano su tutta la superficie terrestre. È il momento in cui parte la musica live dei The acid, quattro musicisti guidati dal dj inglese Adam Freeland. Il ritmo incalza, sullo schermo passano memorabili immagini di marce militari in diverse parti del globo, seguite da parate di carrarmati. Ed ecco che, in pochi minuti, partono missili da ogni dove, da terra, dal mare, dal cielo. E uno solo di quei missili sottomarini, si scoprirà, è in grado di radere la suolo più di cento città.

La 67ma Berlinale ha appena aperto la sua sezione Berlinale Special con The bomb, un progetto multimediale creato da Smriti Keshari, Eric Schlosser e Kevin Ford che immerge lo spettatore in uno scenario intenso, spiazzante e disperato: quello delle armi nucleari. Per raccontare questo viaggio di 50 minuti tra musica, immagini di repertorio, animazione e testi che illustrano i settant’anni passati da quando l’ultima città è stata rasa al suolo grazie al nucleare, i creatori hanno passato in rassegna tonnelate di materiale d’archivio.

«Per almeno quindici anni sono stati girati filmati che sono stati tenuti nascosti, ma alla fine della guerra fredda tutto questo materiale è stato declassificato», racconta Eric Schlosser, scrittore e giornalista candidato al Pulitzer, autore di quel Command and control da cui è stato tratto il documentario di Robert Kenner candidato agli Oscar di quest’anno.

«Dal 1991, con la dissoluzione dell’Unione Sovietica, nessuno si è più curato delle armi nucleari. All’epoca stavo scrivendo il mio libro e collezionavo immagini e informazioni su tutto, ricordo che delle varie categorie in cui mi sono imbattuto la mia preferita era la “cosmic top secrets”: l’ho interpretata pensando che non dovevo parlarne con gli alieni», scherza.

«I documentari erano così ricchi di informazioni che abbiamo deciso di riportarli in vita», prosegue Smriti Keshari, regista indiana americana nota per le sue storie capaci di ispirare un cambiamento sociale. «A quel punto abbiamo pensato a Stanley, perché viene da un lavoro “politico”. Il tocco moderno a questo mare di informazioni è suo».

Stanley Donwood è uno degli artisti grafici più famosi d’Inghilterra, colui che ha dato un’immagine forte ai Radiohead (con cui lavora da 20 anni) e noto per le sue campagne contro il nucleare. «È incredibile pensare che dietro le armi che mostriamo allo spettatore ci sia qualcuno che le ha concepite, disegnate e poi progettate. Lungo tutto il processo costruttivo coloro che hanno disegnato la prima atomica erano consapevoli che avrebbe ucciso qualsiasi essere vivente sulla terra, ma sono andati avanti e hanno testato i dispositivi lo stesso».

Nel viaggio dal Trinity Test del 1945 allo stato del nucleare nel 2017, in cui sul pianeta nove nazioni possiedono quindicimila armi nucleari, di cui quelle americane sono 20 volte più potenti della bomba sganciata su Hiroshima, la musica di The acid gioca un ruolo emotivamente centrale: rende lo scenario molto affascinante, al punto da chiedersi se l’effetto non sia contrario a quello che dovrebbe suscitare.

«Sarebbe stato troppo semplicistico mostrare solo cadaveri e distruzione», crede Schlosser. «La tecnologia e le esplosioni hanno un fascino reale, c’è qualcosa di maschile e meraviglioso nelle forme di queste armi e credo che per capirle davvero si debba sentire quel sentimento di attrazione. Poi si spera che quando le cose prendono un’altra piega si capisca che non si tratta di fuochi d’artificio, ma di gente che sta sta facendo esperimenti terrificanti».

Del progetto fa parte anche Kevin Ford, scrittore e regista di vari film indipendenti. Ha girato anche un corto sul libro di Schlosser con musiche dei Radiohead. «A un certo punto del film è stato molto importante lasciare un silenzio assoluto. Lo spettatore fa un’esperienza intossicante con la musica, poi quando arriva allo sgancio dell’atomica sul Giappone, sparisce tutto. Alcuni sopravissuti di Hiroshima e Nagasaki hanno dichiarato di aver sentito un silenzio assoluto e terrificante, all’improvviso».

Gli Usa e la Russia possiedono più del 90% delle armi nucleari, e oggi in quattro minuti il mondo potrebbe finire grazie a queste macchine mostruose.
Dov’è il pericolo più caldo, secondo i creatori di The bomb?
«India e Pakistan stanno ricreando uno scenario preoccupante. Usa e Urss si odiano, ma a una distanza di migliaia di chilometri; l’odio tra vicini è più intenso e insopportabile».

Ford recupera una speranza dal passato. «Una delle frasi più forti del film, non a caso, è di Ronald Regan, quando dice “spero nel giorno del totale disarmo”. Questa è l’unica conseguenza logica, fa parte della nostra evoluzione umana andare oltre questo orrore».

Articolo pubblicato su GQ.it

© Riproduzione riservata 

Natalie Portman: «La perfezione non esiste»

18 venerdì Nov 2016

Posted by cristianaallievi in cinema, Festival di Berlino, Mostra d'arte cinematografica di Venezia

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Benjamin Millepied, Christian Bale, Eating animals, Jackie, Luc Besson, Natalie Portman, Planetarium, Safran Foer, Terrence Malick, The knight of cups, Weightless

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L’attrice israeliana naturalizzata statunitense Natalie Portman, 35 anni. 

«Avevo 19 anni e stavo recitando in Il gabbiano di Chekhov, al Delacorte Theatre in Central Park. Dopo la premiere sono uscite le prime critiche e ho fatto l’errore di leggerle. Sono andata in panico, ero quasi isterica. Mi sono precipitata nel camerino di Phil Semyour Hoffman, che era nel cast, urlando“non posso farcela, sono totalmente paralizzata!”. Lui, con una calma assoluta, mi ha detto: “Tutti quelli che sono sul palco con te, da Meryl Streep a Christopher Walken, a me, hanno fatto un sacco di casini quando erano alla scuola di teatro. Abbiamo sbagliato mentre non ci guardava nessuno, tu lo stai facendo là fuori, è normale avere paura!”. Mi stava autorizzando a sbagliare, e i quel momento ho capito che se un attore della sua portata, il migliore di tutti, è inciampato, allora potevo sbagliare anch’io». Il fatto che a pronunciare queste parole sia una delle attrici più pacate che ci siano in circolazione ha dell’incredibile. Indossa un abito Valentino Red color crema con disegni di pappagallini, e mi dice che oggi non commette più l’errore di leggere quello che scrivono di lei. L’incarnato del viso è perfetto, come ci si aspetta dal volto di Dior Parfums. Natalie Portman mi ha sempre dato l’idea di essere la prima della classe. A 13 anni era già sul set di Leon, e Luc Besson l’ha catapultata nel mondo del cinema che era una bambina. Ma a 18 anni, nonostante fosse già un’attrice sulla rampa di lancio, è tornata all’Università a studiare Psicologia. Cose che capitano, nelle famiglie borghesi, e Natalie è nata a Gerusalemme dal medico Avner Hershlag, ebreo di origine polacca, e da Shelley Stevens, casalinga di origini americane che poi è diventata la sua agente. Non bastasse, negli anni ha studiato giapponese, francese, tedesco e arabo, lingue che si aggiungono a quelle materne, l’ebraico e l’inglese. Insomma, se si pensa che ha anche sposato l’ex direttore del balletto dell’Opera di Parigi, Benjamin Millepied, e che è diventata produttrice e regista, sembra il ritratto della perfezione. Quando le elenco tutti i motivi per cui sarebbe facile etichettarla come “secchiona”, con l’aggravante di aver anche vinto il premio più ambito da un attore, l’Oscar, grazie a Il cigno nero, mi fa capire che mi sbaglio: «Quello è un falso idolo, e bisogna stare attenti a credere troppo alle statuette d’oro… ll consiglio che darei per avere successo? Non temere di fare casini! Non siamo sergenti, nessuno morirà per un nostro errore, la peggior cosa che può succedere a un attore è impegnarsi in qualcosa che non funziona: sbaglia quanto vuoi, va benissimo. Ancora meglio se accetti le conseguenze». Ora è al cinema con Knight of cups di Terrence Malick, e nel 2017 la vedremo in almeno tre film: Jackie, del regista cileno Pablo Larrain, presentato all’ultima Mostra d’arte cinematografica di Venezia, e sono in molti a scommettere che nei panni della moglie di Kennedy vincerà il secondo Oscar. Poi verrà Planetarium, della regista francese Rebecca Zlotowski quindi Annihilation, di Alex Garland. E nei panni di produttrice promuoverà il il documentario Eating animals, dalle memorie di Jonathan Safran Foer.

Lavorare con Terrence Malick dev’essere molto affascinante, si è ispirata a lui per diventare regista? «Ho preso molto da Terrence, soprattutto il suo abbracciare le cose difficili del percorso. Se piove di solito i set si fermano, mentre con lui si gira con la pioggia. C’è vento? Lui riprende il vento… Il mondo ha bisogno dei suoi film, pieni di bellezza, spirito ed energia positiva».

L’ha voluta anche per il suo Weightless, in cui si trova al centro di un triangolo amoroso con Christian Bale e Michael Fassbender. «Il mio personaggio è molto diverso dal precedente, sarò bionda. Ma non le dirò di più, il rischio che si corre quando si gira con Terrence è di non ritrovarsi nemmeno in una scena del film».

Con A tale of love and darkness ha esordito alla regia. Essere sceneggiatrice, attrice e dirigere un film l’ha cambiata? «È stata una sfida enorme, trovare persone che credono in te, recitare in ebraico, scrivere una sceneggiatura che rispetti la realtà delle cose ed essere madre allo stesso tempo… Coinvolgerti in una cosa tutta tua, e per lungo tempo, da una soddisfazione enorme, ti prendi i meriti e le critiche. Da attore lavori per qualche settimana e poi ti presenti alla premiere un anno dopo. E se il film non va bene, è sempre colpa del regista».

 Com’è arrivata a impegnarsi in un film dalla storia particolare come Planetarium? «Conosco Rebecca da una decina d’anni, la make up artist dei suoi film, Saraï Fiszel, è un’amica comune che vive a Los Angeles. Mi ha chiamata per dirmi che voleva interpretassi un’americana trasferitasi in Francia, era proprio il periodo in cui ero andata a vivere a Parigi con mio marito».

Nel film lei ha il dono di parlare con i fantasmi e insieme a sua sorella vi esibite in giro per la Francia, finché un produttore non vi lancia nel mondo del cinema. Cosa ha a che fare tutto questo con lei? «L’idea di collegare lo spiritismo al cinema mi affascina molto. Il desiderio di “catturare” i morti, da una parte, e il fatto che tra cento anni si vedranno film che trasmettono ancora qualcosa nonostante gli attori siano defunti, è una nuova prospettiva sul cinema a cui non avevo mai pensato».

Con chi cercherebbe di mettersi in contatto, del suo passato? «Mi affascinerebbe sapere qualcosa di alcuni membri della mia famiglia di varie generazioni fa, di cui non so nulla».

Si dice che abbia coinvolto lei Lily Rose Depp nel film. «Rebecca faticava a trovare una brava attrice che parlasse francese e inglese e che potesse sembrare mia sorella, Lily Rose mi somiglia molto. È più matura per la sua età, mentre io sono molto immatura per la mia, ci incontriamo a metà strada (ride, ndr)».

Questo film e Jackie non sono diretti da hollywoodiani. «Li ho girati mentre vivevo a Parigi e mi interessava lavorare con registi con cui non avrei potuto collaborare negli Usa, perché appartengono a una tipologia che non pensa a un attore americano per i propri film. Pablo e Rebecca sono stati un dono per me».

L’anno scorso mi ha detto “vivendo in Europa mi sono accorta di quanto abbiamo perso noi americani senza accorgercene. A Parigi c’è una libreria ogni tre passi, a Los Angeles ce ne saranno due in tutta la città…”. Oggi  che è tornata a vivere in Usa con la sua famiglia, cosa dice? «In Europa ho imparato molto di me stessa, ho capito quanto sono americana (ride, ndr). Voglio sempre che le persone siano a loro agio, che stiano bene e siano felici, a Parigi non sorridono molto. Amo Los Angeles, è un posto incredibile e al momento è una specie di luogo dei sogni. Siamo circondati da arte, musica e alberi!».

A proposito di positività, lei è di nuovo in dolce attesa: oggi pensa che per una donna sia fondamentale essere madre, per sentirsi totalmente appagata? «Le persone sono diverse, c’è chi si sente davvero realizzato con i figli e chi senza. Questa ossessione dei media sulla maternità è assurda, soprattutto se si tratta di attrici. Per me un figlio è stata una svolta meravigliosa, mi ha cambiato la vita, ma sono sicura che altre donne possano sentirsi realizzate anche senza».

 

Storia di copertina pubblicata su F del 23 novembre 2016

© RIPRODUZIONE RISERVATA

 

Christian Bale, l’uomo senza vanità

07 lunedì Nov 2016

Posted by cristianaallievi in cinema, Festival di Berlino

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Batman Begins, Christian Bale, Christopher Nolan, Cristiana Allievi, Emmaline, L'impero del sole, Leonardo DiCaprio, Sibi Blazic, Stephen Spielberg, Terrence Malick, The knight of cups, Warner Herzog

IN KNIGHT OF CUPS DI TERRENCE MALICK SI PERDE TRA I LUSTRINI DI HOLLYWOOD. NELLA REALTA’ L’ATTORE TORNATO DA BATMAN AL CINEMA D’AUTORE CONSIDERA LA CELEBRITA’ “UNA BEFFA”.

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Christian Bale, 42 anni, attore gallese.

Cammina, stordito, in una landa desolata dalla bellezza ipnotica. Poco dopo attraversa luoghi polverosi, per approdare a feste in cui scorrono fiumi di champagne e splendide donne pendono dalle sue labbra. Mentre una voce fuori campo, che si scoprirà essere di suo padre, evoca la favola che gli raccontava da bambino, in cui un re spediva il proprio figlio in Egitto a cercare una perla e questi, dopo aver bevuto da una coppa, cadeva in un sonno profondo  dimenticandosi chi era. Christian Bale è perfetto nei panni di Rick, scrittore errante tra le luci di Los Angeles e Las Vegas alla ricerca di amore e di se stesso. È la trama di Knight of cups, scritto e diretto da Terrence Malick e presentato al festival di Berlino (al cinema dal 9 novembre), una grande metafora della vanità del mondo contemporaneo. Bale è perfetto perché recita da quando aveva 12 anni e se gli chiedi cosa pensa di tutto il contorno di star e luccichii ti risponde che il suo lavoro “non è sostanziale e non merita troppa attenzione”, che non gli piace parlarne e preferisce focalizzarsi sulle persone e le loro storie. Nato in Galles 42 anni fa e cresciuto tra l’Inghilterra e gli Usa in un contesto bohemienne, figlio di un’artista circense e di un pilota civile diventato in seguito famoso attivista, ha debuttato sullo schermo grazie a L’impero del sole di Steven Spielberg, sul cui set è stato paragonato al giovane Steve McQueen dal regista stesso e si è preso una cotta per Drew Barrymore. Di lì a poco ha pensato di smettere di recitare, mal sopportando l’attenzione che la fama gli ha subito portato. «Nel mio mondo ideale», racconta, «il cinema è gratis per tutti e io non promuovo i miei film. In quello reale ho deciso che il mio motto è “ricordati di non prenderti mai troppo sul serio”». È così che si è adattato alla scomodità della fama e ha tirato avanti. Negli anni Novanta ha lavorato moltissimo, finchè è arrivato American Psyco, nel 2000, in cui ha preso il posto di Leonardo DiCaprio, e grazie a cui è diventato un attore di culto, che per lui equivale a una beffa. Il passo successivo, con l’arrivo della rete, è stato diventare uno dei personaggi più noti nel web. Indossa una camicia nera su cargo color verde petrolio e sta molto bene con i capelli tirati indietro. Gli occhi brillano di un colore tra l’azzurro e il grigio, mentre racconta che le trasformazioni fisiche gli sono sempre piaciute. Il modo in cui Bale “abita” i personaggi è il suo tratto distintivo e a volte implica mutazioni clamorose, se si pensa a L’uomo senza sonno e ai 26 chili persi, fino al ruolo in Batman Begins di Christopher Nolan, un successo straordinario, come i due episodi successivi della saga. «Se mi chiede il primo ricordo che mi viene in mente, pensando a quel film, è di me seduto con addosso quella tuta, in un corridoio. Nelle pause delle riprese non potevo nemmeno uscire a prendere una boccata d’aria, non volevano rischiare che qualcuno mi fotografasse. Sono stato seduto lì per ore, tremendamente a disagio, pregavo solo dio che mi chiamassero sul set il prima possibile… Quel lavoro si è preso molto della mia stamina e della mia passione». Paradosso vuole che, nonostante trasformi il fisico secondo copione, Christian odi la palestra. «È tremendamente noiosa, sono inglese e preferisco andare al pub. E poi sono convinto che più ti si ingrossano i muscoli più perdi cellule del cervello. La cosa che mi piace davvero fare è dormire, è un meraviglioso lusso».

Considerato che con Batman ha sbancato il botteghino in modalità multi milionaria, avrebbe potuto farlo per un bel po’. Invece ha optato per il cinema indie (The new World- Il nuovo mondo, di Malick, L’Alba della libertà, di Warner Erzog e The prestige, di Christopher Nolan). L’Oscar gli arriva per un’altra trasformazione fisica, in The fighter, in cui allena il fratello “Irish” Micky Ward interpretato da Mark Wahlberg. Knight of cups è il secondo lavoro con Terrence Malick e nel 2017 vedremo il terzo, Weightless, un doppio triangolo amoroso. «Malick non ti chiede mai di fare qualcosa di specifico o di raggiungere un punto in particolare, accetta quello che riceve, anziché domandare cose alle persone. Gli interessa vedere cosa succede, per questo ottiene ottime performance dagli attori. Può capitarti di fare qualcosa in un modo eccellente, ti volti verso di lui e vedi che stava riprendendo una tenda mossa dal vento! Lì capisci che non puoi ripetere niente, e che essere vanitosi non ha senso, è molto liberatorio. Terrence in un certo senso ti toglie dalle spalle quella fatica di voler piacere a tutti costi alle persone, a lui per primo. Accanto a Bale ci sono Cate Blanchett, Natalie Portman e Freida Pinto, e insieme evocano il fatiscente mondo hollywoodiano, nonostante il film ricordi La dolce vita di Fellini, ma anche il cinema di Antonioni. «Ho partecipato ai party ridicoli che si vedono sullo schermo, e sono cresciuto per la strada, facendomi le canne, non avevo idea che la gente potesse vivere così. Ma ho capito presto che non era cosa per me, io non appartengo a quel genere di persone. Ma il film va molto oltre il mondo di Hollywood, parla di sogni, desideri e raggiungimenti. Tutti possiamo relazionarci a quel senso di mancanza di appagamento, una volta raggiunto il successo che credevi te lo avrebbe dato. Da bambino hai un sentire che ti dice che nella vita c’è molto di più, ma da adulto ti accorgi che ti è sfuggito dalle mani, in un modo che non avresti mai pensato». Grazie a Winona Ryder, Bale ha conosciuto la sua attuale moglie, Sibi Blazic con cui hanno due figli, Emmaline, 11 anni, e Joseph, 2 anni. Non ama parlare della sua famiglia, “per un attore è sempre meglio che certi aspetti della vita privata restino tali, altrimenti la capacità di raccontare altro da sé si offusca”, ma qualcosa concede. «La mia famiglia è un’ancora perché rappresenta una vita diversa. Non investo tutto nel lavoro, c’è sempre qualcosa di più importante che mi aspetta. Quello che adoro fare con mia figlia? Correre, arrampicarmi, giocare a nascondino, sono le cose che apprezzo quando torno a casa». Non bastasse questo, c’è un particolare che dice tutto sulla sua idea di normalità. «Guido il mio pick up vecchio di 12 anni perché mi piace molto, e non mi interessa cosa dicono gli altri. È chi sono io, da dove vengo. Sono solo una persona tremendamente fortunata».

Articolo pubblicato su D LaRepubblica il 29 ottobre 2016

© Riproduzione riservata

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