NELL’ARCO DI UN MESE PASSERA’ DALL’ESSERE UNA DONNA DISPERATA AL RUOLO DELLA BOND GIRL. MA SEMPRE LEA SEYDOUX SA COME CATTURARE LO SGUARDO DEL PUBBLICO. L’ATTRICE FRANCESE HA POSATO IN ESCLUSIVA PER GRAZIA E HA SPIEGATO CHE PER VINCERE, IN AMORE E IN CARRIERA, BISOGNA SEMPRE DETTARE LE REGOLE DEL GIOCO
di Cristiana Allievi
L’intervista di copertina a Lea Seydoux è accompagnata dalle foto di Eric Guillemain (courtesy of Grazia).
Se si dovesse scegliere una frase che la rappresenta bene sarebbe “amo scomparire”. Parole, quelle dell’attrice Lea Seydoux, che non si riferiscono solo alla vita sotto i riflettori di un personaggio pubblico. Lea è una donna che ama nascondersi dietro i personaggi che interpreta. E fuori dallo schermo è estremamente riservata, oltre che timida. Essere cresciuta con due genitori che si sono separati quando aveva tre anni, età che oggi ha suo figlio George, avuto con il compagno, André Meyer, ha lasciato un’impronta. L’attrice, però, ha imparato a mettere questo aspetto del carattere al servizio del suo carisma. In Francia di lei si parla anche per le radici del suo successo, ovvero l’appartenere alla più importante famiglia del cinema nel Paese. Una madre attrice diventata poi filantropa, Valerie Schlumberger, e un padre, Henri Seydoux, magnate delle telecomunicazioni. Ma soprattutto un nonno che è stato il fondatore della Pathé, e un prozio che ha creato Gaumont: parliamo delle due più grandi e antiche case di produzione cinematografica di Francia. Cresciuta vicino ai giardini Luxembourg, in Saint-Germain-des-Prés, con sei fratelli, in realtà Lea avrebbe voluto fare tutt’altro nella vita. Sognava di diventare una cantante d’Opera, ma il grande amore le ha fatto cambiare idea. È stato quel “lui” attore che non viene mai nominato, a farla invaghire del cinema. Ed è stata una fortuna per tutti, se pensiamo al suo viso, che ammiriamo nel servizio esclusivo delle pagine di Grazia, realizzato sui tetti di Parigi, in cui Lea veste Louis Vuitton, maison di cui è amica da quattro anni. Seydoux ha brillato in tanti film, da Bastardi senza gloria, di Quentin Tarantino, a Robin Hood di Ridley Scott, passando per La vita di Adele, con cui ha vinto la Palma d’Oro a Cannes nel 2013. Da lì in avanti, Seydoux ha continuato a miscelare film d’autore con grandi blockbuster. Una formula che si ripresenta adesso: dall’1 ottobre arriva Roubaix, une Lumiere di Arnaud Desplechin, film d’autore in Competizione a Cannes nel 2019, e di seguito l’attrice sarà per la seconda volta la Bond Girl nel nuovo James Bond di No Time to Die.Occorre tempo, per entrare in sintonia con lei. «Non sono una persona che spinge le situazioni, preferisco attrarle. È il mio modo di essere educata», racconta descrivendo la propria timidezza. Mentre colpisce subito vederla povera, alcolizzata e senza trucco, amante di un’altra donna, nel thriller che la vede accusata di omicidio in un paesino sperduto nel Nord della Francia.
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L’intervista di copertina è su Grazia del 24 settembre 2020
E’ UNA STAR GLOBALE DELLA MUSICA COUNTRY, MA ANCORA MOLTI CONSIDERANO KEITH URBAN L’UOMO CHE VIVE ALL’OMBRA DELLA DIVA NICOLE KIDMAN. ALLA VIGILIA DEL NUOVO ALBUM IL CANTANTE RACCONTA A GRAZIA IL SEGRETO DELLA LORO UNIONE: «OGNI GIORNO LEI RIESCE A FARMI SENTIRE INVINCIBILE»
di Cristiana Allievi
Sono molto grato per questo viaggio. Mi sorprende giorno dopo giorno con questo fenomeno surreale chiamato vita. Vedo il sole sorgere, e visto che siamo fortunati lo continua a fare, girono dopo giorno. Non vorrei sembrarle sdolcinato, ma per me tutto è un regalo straordinario, un’opportunità di esplorare, imparare, creare, osservare, assorbire. La mia vita funziona così, sono pieno di gratitudine». A chiamare al telefono è direttamente lui, dall’Australia. Con una voce decisa ma pacata, e la sua energia mi arriva forte e chiara, come un’iniezione di vitamine. Superstar della musica country, con una famiglia di musicisti alle spalle, Keith ha all’attivo hit finite ai vertici delle classifiche inglesi, tour negli Usa e un successo per nulla scontato se nasci in Nuova Zelanda come lui (che è naturalizzato australiano). Non bastasse, sua moglie è una diva globale come Nicole Kidman: i due si sono conosciuti a un concerto nel 2005 e l’anno dopo erano già sposati. Hanno due figlie, Sunday Rose, 11 anni, e Faith Margaret, nove (Kidman ha altri due figli che condivide con l’ex marito Tom Cruise, Isabella e Connor). Passano molto temo a Nashville, la capitale del country, dove hanno una grande tenuta in campagna. Il 18 settembre Keith ha festeggiato l’uscita in tutto il mondo del suo nuovo album, il dodicesimo, intitolato The speed of now, che tradotto suona più o meno “la velocità del momento presente”.
Partiamo dal titolo, che è già un manifesto. «L’ho deciso a ottobre dello scorso anno. Allora avevo la sensazione che il mondo si stesse muovendo così velocemente che anche l’adesso, il presente, stava andando troppo velocemente! Con quel titolo ho fatto una specie di affermazione sociologica. Poi è arrivato il Covid-19, che ha dato tutt’altro senso al titolo. Le dirò, mi sembra ancora più adeguato al momento che viviamo».
Lei è il simbolo della ripartenza. Lo scorso maggio ha fatto un concerto vicino a Nashville, il primo dopo il lockdown, che ha registrato il tutto esaurito. «Avrei voluto non dover vivere questa pandemia. Però ho fiducia che da qui emerga un mondo migliore e più forte. Sento che la revisione delle nostre vite ci sta facendo bene, credo che stiano cambiando le priorità. La pandemia ha messo in risalto quanto si lavora, quanto tempo si passa in famiglia, quanto sono importanti la comunità e la rete di relazioni in cui viviamo. Tutto stava andando troppo velocemente, così ci si perde la vita. Per me è importante ricordare che siamo esseri umani e funzioniamo a una velocità diversa da quella dei computer. E non è così scontato ripeterselo».
Cosa le piace della musica del genere country, il suo cavallo di battaglia? «Sono cresciuto con la collezione di mio padre, fondamentalmente la country music americana, che è molto contemporanea. Johnny Cash, Glen Campbel, questa è la prima musica che ho ascoltato a casa. Da teenager nelle band in cui suonavamo facevamo le cover, e ascoltando alla radio le Top 40, mixavamo già allora il country con il pop».
Nel suo album canta icambiamenti, le sfide, le svolte della vita. Quali menzionerebbe, a 53 anni? «Direi che la sfida più grande per tutti è riuscire a bilanciare le cose. La crescita interiore, quella spirituale, emozionale, la famiglia, spostarsi in un altro paese come l’America da così giovane, viaggiare in tour… Sono state tutte sfide, in modi diversi. E continuano ad esserlo, le sfide non finiscono mai».
Ieri sera ha vinto un Emmy Award come miglior protagonista di Euphoria. È la più giovane attrice di sempre ad aggiudicarsi, a sorpresa, il prestigioso riconoscimento. Quando l’abbiamo incontrata la prima volta debuttava con Spider-Man ed era bastato un colpo d’occhio per capire che sarebbe diventata un’icona fashion, e così è stato. Il successo non ha cambiato questa eroina della Disney, che a Grazia aveva confidato in anteprima qual è il suo vero super potere…
Ero tremendamente nervosa, ma nessuno se n’è accorto, perché mi sforzo sempre di apparire controllata. Del resto, quando ho letto la sceneggiatura ho pensato: “Ma chi non vorrebbe interpretare un film stupendo come questo, e avere compagni di viaggio simili”?». Non mi aspettavo che dal vivo Zendaya fosse così alta e magra, e soprattutto che fosse così matura. Mentre la ascolto parlare del suo debutto sul grande schermo, in Spider-Man: Homecoming, nelle sale dal 6 luglio, la mia attenzione si divide in due: una parte segue il filo del suo discorso, l’altra cerca un indizio del fatto che la ragazza che ho davanti abbia davvero solo 20 anni.
Occhi scuri profondissimi, pelle perfetta, l’attrice e cantante ha quella bellezza tipica di chi nasce da un crogiolo di etnie: suo padre è afroamericano, la sua mamma ha origini tedesche, scozzesi e irlandesi. Il suo nome completo è Zendaya Maree Stoermer Coleman e si presenta all’intervista, a Barcellona, con pantaloni in seta verde brillante, stiletti altissimi bianchi e una maglia che aggiunge un tocco di rosso e lascia scoperte le spalle.
Zendaya è una star della Disney, un vivaio che sforna professionisti capaci di cantare, ballare e recitare. E lei, nata sulla baia di San Francisco, ha iniziato come modella per poi approdare alla serie tv A tutto ritmo, la prima di tanti successi. Poi è arrivato l’esordio musicale, quindi le collaborazioni con le popstar Selena Gomez, Beyoncé e Taylor Swift, e la firma di un contratto con la Hollywood Records.
E adesso è l’ora del salto sul grande schermo: sarà Michelle in una nuova versione del fumetto in cui Spider-Man è interpretato da Tom Holland. E a testimoniare che per Zendaya non sarà un atto unico, subito dopo sarà in The Greatest Showman, accanto a Hugh Jackman e Zac Efron.
Perché era così emozionata ai provini per Spider-Man? «Temevo di non poter dare il massimo. Dopo 12 anni di tv non vedevo l’ora di interpretare un film, e questo è il primo, capisce? Ho superato l’ansia concentrandomi su quello che dovevo fare: recitare».
Michelle, il suo personaggio, è piuttosto misteriosa. «L’ho trovata molto interessante proprio perché di lei sappiamo poco: è molto intelligente, una intellettuale che legge tanti libri. Proprio per queste qualità, fatica a frequentare le persone della sua età, un po’ perché non sa stringere amicizia, un po’ perché ama stare da sola ed essere indipendente. Comunque, mi sono divertita a interpretarla».
Spider-Man ha fatto parte della sua infanzia? «Da bambina non ho letto i fumetti del supereroe, nessuno mi ha introdotta in quel mondo. Eppure ricordo il primo film della serie che ho visto: avevo 16 anni e mi è piaciuto moltissimo. Spider-Man è un eroe. E quello interpretato da Tom Holland sarà ancora più coinvolgente, perché è una persona reale».
In che senso? «Non è un ragazzo cresciuto tra gli agi e, per quelli che, come me, sanno che cosa significhi, è una suggestione potentissima: “Anche io posso avere una seconda identità straordinaria, come lui”».
Mi parli della prima vita di Zendaya, quella di tutti i giorni. «Sono cresciuta a Oakland, non la comunità più facile in cui vivere. Da un certo punto di vista è una zona meravigliosa, ricca di cultura, di storia, di attivismo: sono successe lì molte cose importanti nella musica e nella lotta per i diritti civili. Però, per lo stesso motivo, è un luogo difficile, oltre alla creatività c’è tanta violenza. Ma è da posti così che arrivano le persone migliori».
Poi c’è la sua dimensione da star. «Questa è la mia vita da supereroe, in cui posso fare qualsiasi cosa, soprattutto giocare con personalità diverse: sono ancora io, ma in una versione migliore. Sembra di avere i poteri speciali, proprio come Spider-Man».
E come usa queste doti? «Il protagonista del film ha sviluppato le sue facoltà all’età di 15 anni, a me è successo tutto tra i 13 e 15, per cui ho dovuto imparare a usare la popolarità in modo responsabile, facendo sempre la scelta giusta e impegnandomi. Normalmente non mento, dico sempre quello che penso».
star del cinema e, adesso, anche un’icona della moda? «Credo che la mia dote principale sia la capacità di entrare in connessione con molte persone nel mondo. La gente sa chi sono e io ho questa abilità di dire ai giovani: “Mi piace questo, e siccome piace a me potrebbe piacere anche a te”».
Si chiama empatia. «È un potere, e mi chiedo ogni volta come usarlo per fare la cosa giusta. Voglio essere una fonte di ispirazione positiva, visto che molti mi guardano e vogliono imitarmi. Sono sempre concentrata nel regalare la versione migliore di me stessa in modo che anche i ragazzi facciano le scelte più giuste. Essere un modello per i giovani, nella parte più delicata della loro vita, quando stanno sviluppando un’identità, è una grande responsabilità».
Che cosa non sappiamo di lei? «Sono contenta di avere un carattere dolce. In più non mi piace uscire di sera, e questo mi tiene lontana dai guai».
I suoi genitori come l’hanno aiuta a diventare quello che è? «Sono entrambi insegnanti, hanno influenzato molto la mia crescita. I docenti sono le figure meno pagate e meno comprese della nostra società e, invece, mi chiedo che cosa ci sia di più importante del loro lavoro, che è dedicare tempo ai giovani e insegnare loro a diventare il più consapevoli possibile. Non è forse l’unico modo per avere un mondo migliore? Far crescere ragazzi maturi significa avere in futuro leader bravi che sapranno guidare il mondo. Ecco perché sono così fortunata ad avere loro come insegnanti e genitori. Se non avessi fatto l’attrice avrei seguito la loro strada».
È anche un peso? «Lo diventa se lo guardi in questo modo. Passi tutto il tempo a chiederti: “Che cosa diranno se mi muovo così?”. Ma a me piace considerarlo un dono. Sono grata di essere stata messa in una posizione per cui i genitori si fidano di me sulla cosa più importante della loro vita, i loro figli. Se accendi la tv e permetti ai ragazzi di guardarmi, mi lasci spazio per entrare nella loro mente, far parte della loro vita e avere i poster con il mio volto sui muri delle loro stanze. Per me è un regalo e non un pretesto per esaltarmi. Sono davvero quella che sembro, una tipa che non combina pasticci».
E come hanno reagito quando ha detto che voleva diventare un’attrice? «Mi hanno chiesto: “È davvero quello che vuoi fare? Allora va bene, crediamo in te e siamo con te”. Mi hanno aiutata, lasciando che seguissi il mio istinto».
Devono aver sostenuto anche molti sacrifici, lei ha iniziato che era ancora quasi una bambina. «È così, e avevo bisogno di loro. Oakland è a sei ore di auto dagli studi di Los Angeles, non ha idea di quante volte alla settimana abbiamo fatto avanti e indietro, per anni. Era impegnativo, soprattutto per il magro stipendio di due insegnanti, ma ne è valsa la pena». Ma avere i propri genitori come insegnanti non è strano? «Non posso dire che sia stato pesante, anzi. Ci sono vantaggi, per esempio posso entrare nell’ufficio di mio padre tutte le volte che voglio e usare il suo microonde».
Che cosa vorrebbe fare in futuro? «Ho tanti desideri, ma in cima alla lista metto la felicità. Quello che faccio, che siano film, moda o musica, voglio godermelo. E se un giorno mi accorgessi di non divertirmi più e di non essere soddisfatta, mi dedicherei ad altro. Forse diventerei anch’io un’insegnante».
Ci salutiamo e sono ancora più ammirata di quando è iniziata la nostra conversazione. Zendaya è molto più grande dell’età che ha e, soprattutto, può far imparare ai ragazzi che cosa sia un vero super potere: credere in se stessi.
«A LEO HO DATO LO STESSO TRATTAMENTO CHE HO RICEVUTO IO», CONFESSA L’ATTORE E REGISTA, CHE A VENEZIA PRESENTA NON ODIARE. UN FILM CHE TOCCA TEMI IMPORTANTI: LA VIOLENZA CHE CIRCOLA SUL WEB E CHE HA PRESA SUI PIU’ GIOVANI
Fra i suoi film più belli ci sono Il bagno turco e Caos calmo. Ma nonostante il cinema d’autore gli stia a pennello, sono i ruoli sul piccolo schermo ad aver fatto di Alessandro Gassmann uno dei volti più amati del cinema italiano. Come quello di Giuseppe Lojacono in I bastardi di Pizzoflacone 3, la serie di Rai 1 di cui sono iniziate le riprese interrotte per il Covid. A 55 anni il suo fascino non è diminuito, anzi: da quando, vent’anni fa, conquistò le dodici pose del calendario di Max in versione dio greco, si è approfondito. E ora lo vedremo in un ruolo maturo che fa già discutere. Non odiare, dal 10 settembre al cinema, esordio alla regia di Mauro Mancini proiettato in anteprima mondiale alla Mostra di Venezia. Prodotto da Mario Mazzarotto per Movimento film, con Rai Cinema e Notorious Pictures, lo vede nel ruolo di un chirurgo ebreo che si tira indietro dal soccorrere un uomo coinvolto in un incidente stradale. Il motivo è la svastica tatuata sul suo petto. Un film forte, che si ispira a fatti realmente accaduti alcuni anni fa in una sala operatoria tedesca.
Non odiare tocca temi delicati come Soah ed estremismo di destra: una scelta rischiosa anche per un attore. «Lo spunto è proprio il motivo per cui ho accettato il film, mi ha colpito. È la prima volta che mi viene offerta una storia equilibrata sull’argomento, che cerca di capire come nasce un fenomeno e come potrebbe tornare. Perché l’unico modo per evitarlo è lavorare alle sue origini, che sono paura, ignoranza e smarrimento. Per questo Non odiare è un film importante».
C’è anche un legame con tuo padre Vittorio, che aveva una madre ebrea. «La nonna era di Pisa, e come tutti all’epoca ha dovuto italianizzare il suo cognome da Ambron in Ambrosi. Mio padre salvò la famiglia perché era un giocatore di pallacanestro di serie A, e il regime fascista idolatrava gli atleti».
Oggi la violenza dove si scatena di più? «È molto trainata dai media. Di colpo la generazione di mio figlio ha smesso di seguire la tv e ha iniziato a informarsi solo con la rete. Ma mentre la tv è fatta da persone che hanno studiato e sono dei professionisti, in rete tutti dicono tutto e soprattutto tutti valgono uno. La confusione è totale, chi non ha i mezzi per discernere è perduto».
Su Twitter hai più di 275mila follower. «Trovo doveroso per un personaggio pubblico far sentire la propria voce, soprattutto se ha seguito. Lo faccio con grande coscienza e senso di responsabilità».
(… continua)
Intervista integrale su Donna Moderna – 3 settembre 2020