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Cristiana Allievi

~ Interviste illuminanti

Cristiana Allievi

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Emma Thompson, «La mia prima volta nuda».

10 giovedì Nov 2022

Posted by cristianaallievi in arte, Attulità, Berlinale, cinema, Cultura

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Casa Howard, Emma Thompson, Il piacere è tutto mio, interviste illuminanti, Orgasmo, piacere, Ragione e sentimento, Sesso, Sesso dopo i sessanta

IN IL PIACERE È TUTTO MIO L’ATTRICE INGLESE CI REGALA, A 63 ANNI, UN’INTERPRETAZIONE EMOZIONANTE E CORAGGIOSA. E UNA GRANDE LEZIONE DI LIBERTA’: «GUARDIAMOCI SENZA GIUDICARCI»

di Cristiana Allievi

L’attrice Emma Thompson, 63 anni e due premi Oscar (Courtesy Donna Moderna) intervistata da Cristiana Allievi per il film Il piacere è tutto mio, di Sophie Hyde.

Non ha mai avuto un orgasmo vero in trent’anni di matrimonio. Adesso che il marito è morto, però, Nancy è determinatissima a recuperare. Assolda Leo, sex worker di professione, e da brava ex insegnante, si presenta ai loro incontri con un elenco di “cose da fare”: in cima, il sesso orale.  Leo, uomo piacente e di un pezzo più giovane di lei, ha ampie vedute su molti argomenti, e questo la spiazza.  I loro appuntamenti, sempre nella stessa stanza d’albergo, all’inizio fanno emergere la sua frustrazione, poi la spingono ad accettare e includere una visione nuova del piacere.

A 63 anni Emma Thompson, che amiamo da oltre trenta per la bravura e la profondità, ci regala una delle sue interpretazioni migliori.  Figlia di due attori, laurea in Lettere a Cambridge, sposata in seconde nozze con l’attore Greg Wise (con cui è diventata cittadina onoraria di Venezia), dal 10 novembre la due volte premio Oscar sarà protagonista di Il piacere è tutto mio di Sophie Hyde. Un “percorso” che parte come un’esplorazione dell’intimità per diventare una riflessione sulla liberazione, grazie all’altro, dei nostri limiti.

Come ha reagito quando le hanno proposto questo film? «Katy Brand, la sceneggiatrice, è un’amica da molti anni. Mi ha mandato il copione dicendomi “l’ho scritto con te in mente, cosa ne pensi?”. La mia risposta alla lettura è stata viscerale, era la storia più bella che avessi mai letto. “Amo i temi, amo queste due persone, facciamo il film”, le ho risposto. Così abbiamo cercato insieme Daryl, l’attore che interpreta personaggio di Leo, il viaggio si è costruito giorno dopo giorno».

Questo ruolo la espone molto a livello fisico. «”Espone”, che verbo interessante! Qualsiasi cosa faccia come attrice, uso il mio corpo, ma non sono mai io: recito qualcuno, che in questo caso è piuttosto diverso da me. È vero che nel film c’è un momento di grande esposizione fisica, il mio nudo integrale, ma arriva alla fine ed è molto ben gestito. Tutto di quel momento è significativo, e io mi sentivo nelle mani sicure di Sophie. Abbiamo parlato molto di quella scena, prima di girarla».

Per esempio come posizionare le luci, considerato che è stata così audace da farsi riprendere in piedi, davanti allo specchio? «Esatto, volevo che tutto fosse autentico e onesto, perché in quel momento corpo ed emozioni sono un tutt’uno. Però è vero, la maggior parte di noi di solito non si espone in quel modo, nemmeno nella vita vera».

Come la fa sentire essere nuda? «Mi sento più esposta nella scena in cui piango perché non riesco a fare sesso orale a Leo. Oppure quando gli racconto di quell’unico momento della vita con mio marito in cui mi sono avvicinata all’idea di un piacere sessuale:  quelle emozioni sono molto più delicate da restituire, rispetto a mostrare il mio corpo. La cosa importante è che finalmente alla fine del film Nancy guarda il suo corpo senza giudicarlo più. È forse il primo vero momento di agio e di piacere».

È vero che nella storia originale non c’erano scene di nudo? «È vero, ma lavorando al film è cresciuta quell’esigenza. C’era l’idea che potevamo arrivare fino a lì, e che se mi fossi sentita a disagio non l’avrei girata».

Quando riesce ad essere aperta sui suoi bisogni sessuali nella vita vera? «Io e mio marito ne parliamo molto esplicitamente, ma il sesso non è mai come la nostra mente ci dice che dovrebbe essere. Siamo cresciuti con un sacco di spazzatura in testa su questo argomento».

Ad esempio? «L’idealismo romantico ci fa favoleggiare su tutto. Il sesso in realtà è spesso qualcosa di abbastanza strano e di profondamente non romantico. Ma non siamo onesti su questo punto, e facciamo esperienza di molta vergogna su quali sono gli aspetti che possono darci piacere e quali no. Credo che sarebbe molto meglio essere onesti, nei discorsi pubblici sul sesso e nel parlarne in genere.  Perchè è un campo molto sottile e complicato, fatto di tentativi e di esperienze, e questo film cerca di portarci in un territorio sconosciuto».

Ci racconta che la ricerca d’intimità e di connessione è potente, coraggiosa e necessaria. «I due personaggi non si innamorano, è la parte della storia che preferisco. Fra loro c’è intimità, e questa non ha niente a che vedere con l’amore romantico. Qui si parla di amore per se stessi, da mettere al primo posto, prima dell’amore di due persone una per l’altra.  Anche se i due sono molto vicini, lo sono in un modo molto particolare. Si “sbloccano” a vicenda, Leo vive la relazione imparando ad amarsi di più,  Nancy, trasforma la sua visione del piacere».

Tornare a se stessi sembra un messaggio fondamentale. «Avere una buona relazione con se stessi è il minimo per poter provare empatia verso chiunque altro». 

Cosa la aiuta a volersi bene? «La terapia costante, anni di terapia! Scherzo, ma non tanto in realtà… Pensare a me nel modo classico mi aiuta molto, capire come funziono mi da una chiave di comprensione del genere umano, perché io ne sono un esempio. Non c’è niente di speciale in me, sono un semplice essere umano, ma ciò che accade intorno a me mi da così tante comprensioni  su quello che provo io, esamino e comprendo le emozioni che provo. E questo processo mi regala pazienza verso me stessa, oltre alla la capacità di mettermi nei panni dell’altro, che  poi è anche ciò che faccio di lavoro».

C’è bisogno di un partner, per vivere l’amore verso se stessi? «Si può sperimentare anche senza gli altri, certo. Ma le relazioni migliori sono quelle che ci danno l’opportunità di provare compassione e che ci rimandano la nostra unicità. William Blake dice “abbiamo creato un piccolo spazio sulla terra per imparare a sopportare i raggi dell’amore…”». Io dico, meno bene, che cercare di amarci uno con l’altra è l’origine della vera saggezza».

Storia di copertina pubblicata su Donna Moderna del 27 ottobre

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Dario Argento: «Mi sono sempre ispirato ai miei pensieri»

15 martedì Mar 2022

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Asia Argento, Berlinale 2022, Dario Argento, Ilenia Pastorelli, Occhiali scuri

di Cristiana Allievi

Qui l’intervista al regista maestro del brivido e a sua figli Asia Argento per Vanity Fair

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Isabelle Huppert: «Quella escort sono io».

20 venerdì Apr 2018

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Biancaneve, Cristiana Allievi, Eva, Gaspard Ulliel, interviste illuminanti, Isabelle Huppert, prostituta al cinema, Teodora film

È AL SUO ENNESIMO RUOLO AMBIGUO E SCANDALOSO. TRA POCHI GIORNI ISABELLE HUPPERT SARA’ AL CINEMA PER INTERPRETARE UNA PROSTITUTA CHE FA PERDERE LA TESTA A UN IUOMO MOLTO PIU’ GIOVANE. A GRAZIA CONFIDA DI INTERPRETARE DONNE DIVERSE DA LEI CON IL SOLO USO DELL’ISTINTO. E QUELLA VOGLIA DI OSARE CHE NON L’ABBANDONA MAI

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L’attrice francese Isabelle Huppert, 65 anni, fotografata da Sabine Villard (courtesy of Grazia)

«Mi piacciono l’ambiguità e la complessità senza limiti, le persone che non afferri del tutto e che puoi addirittura scambiare per immaginazioni. Mi piace anche indagare il nostro senso di identità, al di là dei comportamenti che abbiamo. La verità è che non siamo mai sicuri né di chi siamo né di come ci percepiscono gli altri…». Pantaloni neri a sigaretta e pullover rosa cipria, Isabelle Huppert è seduta davanti a me, in un hotel di lusso nel cuore di Berlino. La scusa del nostro incontro è il film Eva, in cui Benoit Jaquot la dirige per la sesta volta e che dopo essere stato presentato all’ultima Berlinale sarà al cinema dal 3 maggio distribuito da Teodora. Non potrei avere argomento di conversazione migliore, visto che nel film Eva è una donna molto misteriosa che diventa l’oggetto del desiderio di Bertrand (Gaspard Ulliel), un ragazzo molto più giovane di lei che afferma di essere uno scrittore. Ma è un’identità che ha rubato e in cui resterà intrappolato, come del resto Eva, che ha una famiglia e allo stesso tempo fa la escort d’alto bordo. «Sono stata più volte una prostituta sullo schermo, e in ognuno di quei film c’è una persona differente dietro. Ricordo per esempio in Silvia oltre il fiume, di Oliver Dahan, ero una donna con i capelli tinti di  biondo, le unghie blu e il rossetto rosa, su tacchi altissimi. In Si salvi chi può, di Jean Luc Godard, ero una donna opposta: senza alcun dettaglio esterno che indicasse la mia professione, a parte l’uniforme, fatta di stivali, minigonna, e modo di fumare. E questa Eva è una prostituta senza maschere, indossa solo una parrucca». Ha girato 150 film, fra cinema e tv, una quindicina dei quali da quando ha vinto il Golden Globe per Elle, di Paul Verhoeven, che le è valso anche la candidatura agli Oscar. 65 anni, fisico molto asciutto nonostante abbia avuto tre figli, Lolita, Lorenzo e Angelo, con Ronald Chammah, è già sul set del prossimo film di Anne Fontaine, una nuova versione di Biancaneve. «Io non sono Biancaneve», butta lì come provocazione, «ma potrei esserlo! Vedrete una versione contemporanea con una sceneggiatura straordinaria». E visto che i contrasti sono il suo forte, ci lasciamo la favola alle spalle e torniamo a Eva, il nuovo adattamento del romanzo di James Hadley Chase già portato sul grande schermo da Joseph Losey nel 1961, con Jeanne Moreau come interprete.

Ha capito perché la donna che interpreta fa la prostituta? «Buona domanda. Benoit aveva bisogno di qualcosa di forte, per far riflettere.  Leggendo la sceneggiatura non ero sicura di chi fosse Eva, se una donna divisa, triste o felice, e questo aspetto mi piace molto. Non si sa nemmeno se è una prostituta occasionale o temporanea, non lo sappiamo e non vogliamo saperlo».

È un film perfetto per questo momento di rivendicazione femminile che stiamo vivendo: Eva ha un uomo molto più giovane di lei, che addirittura la paga, è quasi una nuova icona di indipendenza. «Tutti rileggono il contenuto in quella direzione a causa del momento in cui viviamo. Mi va bene, purché non limiti l’immaginazione degli spettatori».

Cos’ha questa donna di diverso da tutte quelle in cui si è calata fin qui? «È vista attraverso gli occhi di un uomo, e ha svariate facce. Non l’ho percepita come una persona doppia, che significherebbe consapevole e manipolatoria, piuttosto come una donna divisa, quindi una figura fragile».

Questo look dark è molto interessante… «Abbiamo cercato qualcosa che funzionasse, avrei potuto avere anche i capelli biondi, ma per qualche motivo il caschetto nero si è rivelato perfetto».

Temeva il confronto con la  Jeanne Moreau di Il diario di una cameriera, di Luis Bunuel? «Non ho visto il film, non ne ho sentito il bisogno, ma ho sentito dire che ha un contesto molto diverso. A volte le cose accadono, altre no, e forse non volevo esserne influenzata, non volevo copiare qualcosa».

Lei si cura di come la percepiscono gli altri? «No, ma a volte quando  sento la gente dire cose belle su di me mi chiedo se me le merito davvero. Ma poi ci pensano i miei figli a sistemare le cose».

Cosa intende? «Mio figlio mi prende in giro, quando legge belle cose su di me mi guarda con la faccia da spaccone come per dire “mamma, a me no la racconti…”, un gioco che mi diverte molto».

Poco tempo fa ho incontrato sua figlia Lolita, attrice, mi è sembrato che il confronto con lei sia un tema delicato. «Non ama essere scocciata con la fama della madre, lo trovo un fatto comprensibile».

Lei trova più facile confrontarsi con l’ammirazione o con le critiche? «L’ammirazione la gestisci, le critiche devi comprenderle. Ho capito che ci sono cose che le persone faticano a descrivere».

Ad esempio? «Per La pianista, o lo stesso Elle, in cui le protagoniste superano un certo limite, si sono usati aggettivi come “perverso”, o “sadomaso”, che indicano le difficoltà che quei film sollevano nello spettatore. Poi però diventano un successo mondiale, e capisci che se si trattasse solo di perversione la gente non andrebbe a vederli. Insomma, capisco che le persone ne sono toccate, a un certo livello, motivo per cui vado avanti».

(continua…)

Intervista pubblicata su Grazia del 19 Aprile 2018

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Rupert Everett: «La mia magnifica ossessione».

12 giovedì Apr 2018

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cinema, Cristiana Allievi, GQ Italia, Il nome della rosa, Oscar Wilde, Rupert Everett, The happy prince

 

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L’attore inglese Rupert Everett, 58 anni, è lo scrittore Oscar Wilde in The Happy Prince, di cui firma anche sceneggiatura e regia. 

PER DIECI ANNI NON HA PENSATO AD ALTRO. ORA CHE IL SUO FILM SU OSCAR WILDE ESCE NELEL SALE. RUPERT EVERETT SI LIBERA. QUESTA È LA GENESI DI UN’OPERA MOLTO INTIMA, RACCONTATA PASSO A PASSO, MENTRE PRENDEVA FORMA

«Ho scritto la prima sceneggiatura nel 2007,  le riprese sono iniziate solo nel 2016. È stata una lotta dura, i finanziamenti non arrivavano mai. È diventata una questione di vita e di morte, il personaggio si è impossessato di me e mi ha preso un senso di disperazione: temevo che alla fine non sarei riuscito a fare niente». È evidente che per Rupert Everett The Happy Prince – in cui ripercorre gli ultimi anni di vita di Oscar Wilde, è molto più di un film: è una passione che lo ha rapito per dieci anni. Finalmente l’attore inglese ha potuto presentare il suo film in anteprima mondiale all’ultimo Sundance e poi alla Berlinale, è nelle sale dal 12 aprile. Everett, 58 anni di fascino, si porta addosso il marchio dell’upper class da cui proviene, da discendente della famiglia reale di Carlo II Stuart, re d’Inghilterra e Scozia. Per lui questo è un esordio alla regia, ma anche l’interpretazione per cui è nato, visto che racconta gli scandali, gli eccessi, le ribellioni e l’anticonformismo di un gigante la cui vita assomiglia per molti aspetti alla sua: cresciuto a Norfolk, Inghilterra, l’attore ha dato scandalo dai tempi della scuola. Finchè nel 1989 ha fatto coming out, distruggendo le sue possibilità di diventare un’icona a Hollywood. «Gli anni 70, 80 e 90 sono stati fortemente eterosessuali e dominati da un certo tipo di maschio», racconta. «E il cinema è come il calcio, stessa cultura: quando ho iniziato a recitare io, per un gay era come nuotare contro corrente». Però lui, invece di nascondere l’omosessualità dietro il suo fascino alla Cary Grant, è stato guidato dalla convinzione che essere se stesso valesse più del resto. Un tema presente in The Happy Prince, che parte dall’incarcerazione del poeta e scrittore, tra il 1895 e il 1897, per “indecenza con gli uomini” a causa della relazione con Lord Alfred “Bosie” Douglas) e lo segue quando, scontata la pena, trascorre l’ultimo anno di vita in esilio fra Napoli e la Francia, impoverito e debole, in incognito e senza un soldo, fra sensi di colpa e i dolori per un ascesso a un orecchio. Morirà a 46 anni e verrà sepolto a Parigi.  «I film su di lui finiscono sempre con la galera e, a parte il fatto che ne ho già visti tre, ho sempre trovato più interessante la parte dell’esilio». Everett ha trascorso gli ultimi due mesi in Italia, impegnato nelle riprese del Nome della Rosa, una serie tv in otto episodi ispirata al best seller di Eco in cui, riassume con la sua solita schiettezza, «sono l’Inquisitore Bernard Gui e uccido tutti!». Come spesso gli capita nelle interviste, spende poche parole sul progetto del momento, poi la sua attenzione va altrove. Perché raccontare la vita di un uomo che prima tutti osannano e poi trattano da reietto è per lui il punto d’arrivo di una carriera e anche un percorso personale, che necessita di una ricostruzione. 

PARIGI , 2011.

Siamo in un caffè a pochi passi dal cimitero di Perè Lachaise. Insieme a Merlin Holland, l’unico nipote di Wilde, Everett è appena stato protagonista della cerimonia che ha restituito la tomba dello scrittore ai cittadini. «È stata ripulita dai baci dei rossetti e protetta tutt’intorno con il vetro. Sarebbe stato felice di sapere che migliaia di ferventi ammiratori sono venuti a baciare la sua lapide, Oscar amava essere al centro delle attenzioni. E poi indossava abiti perfetti e viveva in case impeccabili, sono certo che anche lui avrebbe preferito una tomba linda». Sul suo film ha brutte notizie, «sono molto affaticato, non trovo finanziatori, si sta rivelando un viaggio lunghissimo». Everett non ha un carattere facile.  A sette anni è finito in collegio all’Ampleforth, un istituto dei monaci Benedettini. Questo, unito al fatto che il padre era un ufficiale militare, spiega come abbia sviluppato una certa allergia alle imposizioni. «Sono stato un bambino molto solitario e riflessivo, mi hanno cresciuto secondo il vecchio stile, senza la tv e con poche cose. Ero curioso di sottigliezze come la polvere colpita da un raggio di sole, poi il collegio mi ha trasformato: sono diventato esibizionista, urlavo e mi facevo notare». Finchè a 15 anni si iscrive alla Central School of Speech and Drama di Londra. «La mia famiglia avrebbe voluto qualcosa di più convenzionale, ma la vita vagabonda mi piaceva, era perfetta per scappare da quel mondo gelido». Il dio dell’arte è dalla sua: all’esordio nei panni dello studente omosessuale di Another Country, nel 1982, ha un successo sfacciato.

(…continua)

Intervista pubblicata su GQ di Aprile 

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The happy prince, Rupert Everett è Oscar Wilde

23 venerdì Feb 2018

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Berlino 2018, esordio alla regia, Film, Oscar Wilde, Rupert Everett, The happy prince

Come l’uomo che ha prestato il volto a Dylan Dog (anche in un doppio gioco di specchi tra fumetto e cinema) si cala ora nei panni del suo mito in un film, di lunga genesi, che lo vede regista e interprete

«Era affascinato da Cristo e dal Cristianesimo, il suo è stato un sacrificio. Avrebbe avuto l’opportunità di scappare dall’Inghilterra e di non finire in prigione, ma ha deciso diversamente: si è sacrificato per tornare a vivere. Per me Oscar Wilde è una figura ‘cristica’». Parola di Rupert Everett.

Ci sono film preceduti dalla loro stessa fama, per svariati motivi. A causa del soggetto che trattano, o del regista che lo affronta, oppure per il momento storico particolarmente favorevole a riceverlo. Nel caso di The happy prince si tratta di un vero e proprio corto circuito di tutti questi elementi.
È l’esordio alla regia di Rupert Everett, 58 anni, e racconta la storia molto poco conosciuta degli ultimi tre anni di vita di Oscar Wilde. E, cosa non di poco conto, a interpretare il celebre scrittore irlandese dell’epoca vittoriana, che ha dato scandalo ante litteram in fatto di omosessualità, è Everett stesso, che sembra nato per questo ruolo, lui che ha pagato caro in termini di carriera l’aver fatto coming out con largo anticipo sui tempi. Non ha caso il discendente della famiglia reale di Carlo II Stuart, re d’Inghilterra e Scozia, ha impiegato più di un decennio per trovare i fondi per portare a termine il film presentato in anteprima mondiale all’ultima Berlinale, probabilmente il più importante della sua vita.

The Happy Prince

La storia propone il “sacrificio” di un artista acclamatissimo, l’uomo che è stato il più famoso personaggio di Londra e che finisce i suoi giorni crocifisso dalla stessa società che lo ha acclamato.

Imprigionato con l’accusa di indecenza a causa di una liason scandalosa con Lord Alfred “Bosie” Douglas, e per questo amore sbeffeggiato e oltraggiato, Oscar Wilde passa l’ultimo anno di vita in tour per l’Europa, in incognito, fra sensi di colpa, dolori dovuti all’ascesso a un orecchio e giovani pagati a poco prezzo.
Everett si è presentato a Berlino con cappotto blu e cappellino alla The Edge, che non ha tolto nemmeno in sala stampa. E nonostante nel film sia chiaro che abbia messo tutto se stesso (e soprattutto tutto il suo cuore), nel parlarne non perde la sua inconfondibile compostezza british.

«Abbiamo faticato molto a raccogliere i soldi», ha raccontato ai giornalisti di tutto il mondo parlando del film che vede come altri protagonisti anche Emily Watson, Colin Morgan, Colin Firth ed Edwin Thomas. «A un certo punto ho deciso di fare una tournée teatrale per risvegliare l’interesse nei confronti di Wilde, e grazie a The Judas Kiss le cose si sono sbloccate ed è arrivata la BBC».

Al centro del racconto di Everett, la forza autodistruttiva di Wilde. «Era un uomo che la gente non capiva, perché non è facile comprendere il fascino dell’autodistruzione. Ma lui ha percorso strade con largo anticipo rispetto a Freud stesso».

Uscito di prigione, Wilde scandalizza i suoi amici tornando fra le braccia di Bosie, ma Everett se lo immagina mentre legge la favola The happy prince a due giovani parigini, e molto tempo prima ai suoi figli, insegnando loro con una grande metafora che “l’amore è tutto”.

The Happy Prince

A proposito di sacrificio, non è da trascurare quello della moglie di Wilde, Constance, che viene letteralmente distrutta dal marito. «Era quasi impossibile non amare quell’uomo, aveva molto fuoco dentro di sé ed era molto attraente », racconta l’attrice nominata due volte agli Oscar Emily Watson, che interpreta la malcapitata. «Per costruire il mio personaggio ho letto Very tragic and scandalous life of Mrs Oscar Wilde e ho scoperto che era una donna piena di vita e agli inizi faceva parte del movimento artistico. Ma ha dovuto pagare un prezzo altissimo per le scelte del marito: è morta triste e sola, la sua vita è stata letteralmente divorata dall’ipocrisia».

Il film è una coproduzione anglo-franco-tedesco-italiana ed è girato per metà in Germania.
«Abbiamo trovato un vecchio castello in Bavaria che ha funzionato perfettamente», ricorda Everett, «in pratica abbiamo lavorato dove Wilde non ha mai messo piede e non siamo mai stati a Parigi dove invece è ambientato il film».
Alla domanda se è stato difficile scriversi il copione, recitarlo e dirigere se stessi, risponde senza esitazioni. «Adoro lavorare con me stesso come regista, anche se è stato molto impegnativo e metà delle mie performance di attore ne hanno risentito. Ma ho sistemato tutto durante l’editing».

La vita di Rupert Everett, la sua vena polemica, il narcisismo e l’eleganza dei suoi modi lo hanno reso una miscela esplosiva, un vero idolo, al punto da spingere Tiziano Sclavi a creare a sua immagine il protagonista del suo Dylan Dog.
Non stupisce che un uomo così sia stato stregato da Wilde, vero iniziatore del movimento di liberazione dei gay.

«Prima di Oscar la parola “omosessuale” non esisteva nemmeno, la comunità LGTB di oggi deve sapere che è stato assassinato un uomo per difendere la sua sessualità, e che gli dobbiamo il cambiamento che stiamo vivendo oggi».

The Happy Prince

Autore di due romanzi e di due autobiografie, come di articoli pubblicati dall’Observer, The Times, Vogue, Harper’s Bazaar e Vanity Fair, Everett al momento è in Italia e sta girando Il nome della rosa. Vedremo The happy prince nelle nostre sale dal 25 aprile, distribuito da Vision Distribution.

Articolo pubblicato su GQ.it

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Central Airport THF, il crocevia dei cieli che diventò centro di accoglienza

21 mercoledì Feb 2018

Posted by cristianaallievi in Berlinale, Cultura, Festival di Berlino

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aeroporti, architettura, Berlino2018, Central Airport THF, Cristiana Allievi, Germania, GQ Italia, Karim Ainouz, Tempelhof

Un pezzo di storia di Berlino, un non luogo che accoglie chi non ha più patria e gli effetti positivi del condividere gli spazi migliori con chi sta ancora cercando uno spazio sicuro nel mondo

«Sono partito dall’idea di fare un documentario su Tegel, l’aeroporto di Berlino che avrebbe dovuto chiudere. Ma non è successo, così ho pensato di fare un lavoro sui quattro aeroporti della città, restituendo una specie di sua storia.
Ho iniziato a fare ricerche su diversi fronti, BER – il nuovo aeroporto che di fatto non è mai stato aperto-, quello che avrebbe dovuto chiudere e non è mai stato chiuso, e quello che ha effettivamente chiuso, Tempelhof ». A parlare è Karim Ainouz, autore del documentario Central Airport THF presentato in anteprima mondiale alla sessantottesima Berlinale. Il regista e artista visivo brasiliano, che è anche un architetto, ha scelto di raccontare un luogo simbolo della città, che riflette moltissimo della recente storia tedesca.

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Il film apre con un tour guidato di turisti che illustra le idee su questo luogo da Hitler in avanti. Disegnato nel 1923, è stato parzialmente ricostruito dai Nazisti negli anni trenta come simbolo di magnificenza, poi è stato usato per testare i primi aeroplani, come casa per i prigionieri della Seconda guerra mondiale, quindi come base militare americana.Dopo la caduta del Muro di Berlino, e la costruzione di Tegel nella Berlino ovest, ha iniziato a operare i voli domestici. «Nel 2010 hanno chiuso l’aerodromo e Tempelhof è diventato il più grande parco pubblico della città. Mi è sembrato un grande esercizio di civiltà, per questo volevo già girare un documentario che ne parlasse. Ma poi le cose sono cambiate, e nel novembre del 2015 hanno iniziato ad arrivare rifugiati. C’erano delle tende, stavano cercando di capire cosa fare in quell’emergenza, finché dalla sera alla mattina hanno deciso di diventare un centro di accoglienza, e hanno messo la sicurezza».

Da architetto Arouz non poteva che essere interessato a documentare un simile spazio, e da artista si è accorto della sua frustrazione per come i media stavano coprendo la questione dei rifugiati, lì gli è scattato qualcosa dentro. «L’unica immagine che abbiamo tutti dei rifugiati è quella di gente che salta dalle navi, e che arriva in Grecia, ma non sappiamo mai niente di chi sono queste persone. Così ho messo le due cose insieme, documentando un luogo di guerra che si trasformava in un punto di speranza».

È così che vediamo 97 minuti di immagini del luogo che è stato usato anche come set per The Hunger games, The bourne Supremacy e Il ponte delle spie, e che oggi ospita tremila rifugiati provenienti dalla Siria e dall’Iraq. «All’improvviso erano arrivati tutti i media a coprire l’evento, la gente non voleva più vedere una telecamera. Sono andato avanti e indietro per sei mesi, senza avere un’autorizzazione, ma mi sono detto che non importava: se non avessi potuto girare un film avrei scritto un articolo».

Per mesi ha osservato ossessivamente molte cose, soprattutto il modo di negoziare la vita di queste persone e la burocrazia. E mostra allo spettatore la storia di una comunità che vive in piccoli box all’interno dell’aeroporto, che si è creata i tavoli da ping pong come il negozio del barbiere, fino al centro che somministra vaccinazioni. «Ho seguito molte storie, finché mi è stato chiaro che dovevo focalizzarmi su due vite, e in questo c’entrava la mia storia personale». Arrivato dal Brasile a Parigi per vivere col padre algerino, a causa del nome, Karim, la sua esperienza si è trasformata in un incubo: nessuno credeva che fosse anche brasiliano, tutti pensavano si dovesse comportare come un immigrato algerino.
Dopo un anno, la cosa era diventata insopportabile. «Il problema è che mi hanno scambiato per un arabo e non è la cosa più semplice in Francia. A 17 anni non sapevo come difendermi, ero molto arrabbiato e frustrato».
Per questo nel film ha scelto di focalizzarsi su un arabo, per contribuire a mostrare un’angolazione differente da quella con cui ce ne parlano da dieci anni a questa parte. Ha trovato un ragazzo siriano di 17 anni, Ibrahim Al Hussein (oggi 18 anni), diventato il narratore del film. Ed essendo interessato a due generazioni, ha scelto anche un iracheno di 35 enne, Qutaiba Nafea (oggi 40 anni). Due uomini provenienti da diversi background e con diverse prospettive di vita.

«Ricordo il momento in cui ho deciso di lasciare il mio paese», racconta Ibrahim, che oggi lavora in un cinema. «Non avevo possibilità di restare a Manbij (Aleppo, ndr), sono stato chiuso in casa per sei mesi a non fare niente, non potevo finire gli studi all’Università a causa della guerra. Volevo un’altra vita, e come ogni altro rifugiato proveniente dalla Siria ho fatto il viaggio passando dalla Turchia, poi dalla Grecia, per arrivare a Berlino. Ci sono voluti sei giorni non stop, fra treni e autobus. Mia sorella è venuta con me, abbiamo cugini in Germania. Ho iniziato a imparare il tedesco, per fare le carte, e dopo due anni ho ottenuto la residenza come rifugiato. Dopo 15 mesi passati a Tempelhof mi sono cercato una casa mia».
Qutaiba Nafea è arrivato qui allo stesso modo, a causa della guerra dopo che la sua città, Ramadhi è stata invasa dai terroristi. «Ho perso mio fratello più giovane, e poco dopo il mio compagno di casa: qualcuno è arrivata nell’edificio e lo ha ucciso. Sono molto grato al mio professore dell’Università, capo del dipartimento di Psichiatria. Mi ha incontrato a un esame e ha capito che non dormivo da tempo, ero paralizzato. Il giorno dopo mi ha convocato da lui, mi ha fatto molte domande e poi mi ha chiesto se avevo il passaporto. Quando gli ho risposto di sì, mi ha detto “domani lasci questo paese”. Mi sono fidato, lui mi ha salvato», continua, «io trovavo sempre scuse per aspettare, mi dicevo che avrei perso i miei studi da medico, e poi che non sapevo dove andare. Ma ho visto così tanta gente morire, che se non fossi sparito subito sarebbe successo anche a me». A differenza di Ibrahim ci ha messo 19 notti ad raggiungere Berlino, perché le cose nel frattempo si erano fatte più difficile. Dopo tre mesi a Tempelhof ha continuato a lavorare al centro medico che ha lasciato recentemente per iniziare a lavorare con un’altra compagnia. Oggi quando è in giro per la città con la moglie, scappata con lui, sono in molti a riconoscerlo e a salutarlo. «In un anno e mezzo ho fatto più di cinquemila vaccinazioni, ognuna aveva tre richiami. Le persone erano diventate delle specie di clienti che venivano a trovarmi un negozio».

La chiave di Central Airport THF sta mettere l’accento sul positivo, sul buono che può succedere ai rifugiati. E non solo. Oggi lo spazio intorno a Tempelhof è stato reclamato dal pubblico come oasi per ciclisti e amanti dei pic nic. Il messaggio implicito, quindi, è che i tedeschi sono stati così generosi da dividere i loro spazi migliori con i rifugiati. Un merito indiscusso, a cui il film rende un dovuto omaggio.

 

Articolo pubblicato su GQ.it 

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Wes Anderson scalda Berlino con L’Isola dei cani (e un cast stellare)

16 venerdì Feb 2018

Posted by cristianaallievi in Berlinale, cinema, Cultura, Festival di Berlino

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20th Century Fox, Berlinale 2018, Cristiana Allievi, Festival di Berlino, Isle of dogs, L'isola dei cani, Wes Anderson

Il regista texano torna lì dove ha lanciato il suo The Grand Budapest Hotel e, al solito, incanta tutti. Con una storia semplice ma visionaria e piena di magia (vera) del cinema

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Dal film L’isola dei cani di Wes Anderson, che ha aperto la 68esima Berlinale (© 2018 Twentieth Century Fox)

«Volevamo raccontare una storia di cani. Si trattava di partire da loro, e di vedere dove ci avrebbero portati. Quando racconto certe storie non ho subito tutto chiaro in mente: parto da un’idea che cresce strada facendo». Con queste parole il visionario regista texano Wes Anderson ha aperto stamattina la sessantottesima Berlinale.
In una sala stampa gremitissima, con il cast che si è messo addirittura a cantare, ha presentato il suo film animato L’isola dei cani, a quattro anni di distanza da The grand Budapest Hotel che aveva dato il via all’edizione del 2014. E fa di nuovo centro, con la brillante fantasia che lo caratterizza e uno stuolo di superstar che hanno prestato la propria voce.

Siamo in un arcipelago in Giappone, fra 20 anni. A causa di una “saturazione canina”, e di un tipo di influenza che rischia di oltrepassare la soglia della specie e colpire anche gli umani, il sindaco della città di Magasaki emette un decreto esecutivo: tutti i cani devono essere esiliati su un’isola di immondizia. È così che Trash Island diventa una colonia di esilio di animali sia randagi sia addomesticati. Ognuno arriva chiuso nella propria gabbia, e viene abbandonato a un destino di solitudine, mancanza di cibo e di cure. Finché un ragazzino di 12 anni, Atari Kobayashi, decide di disubbidire al sindaco e vola con il suo Junior-Turbo Prop sull’isola per andare a cercare il suo animale. Con cinque amici speciali a quattro zampe (Chief, Rex, King, Duke, Boss, tutti nomi che servono a ricordare quanto agli animali manchino la casa e la famiglia di umani da cui provengono) scoprirà una cospirazione per sterminare per sempre tutti i cani della città. Ma il team porterà a termine una missione che cambierà il destino di tutti.

Il nono film di Anderson, e il secondo dopo Fantastic Mr. Fox a essere stato creato con la tecnica stop-motion, racconta la fantasiosa storia di un’isteria nei confronti dei cani, con una grande dose di ironia, dettagli e umorismo. «In origine erano due idee che poi sono diventate una. C’erano i cani, anche quelli Alfa, l’immondizia e i bambini. Poi è arrivata la location, e ha catalizzato la storia», racconta il regista sei volte candidato agli Oscar, che ha scritto questa versione fantasy del Giappone con gli storici collaboratori Roman Coppola, Jason Schwartzman e Kunichi Nomura. «Volevamo rendere omaggio al cinema giapponese di Akira Kurosawa e Hayao Miyazaki». Del primo regista sono film come L’angelo ubriaco, Cane randagio, Anatomia di un rapimento e I cattivi dormono in pace ad averlo ispirato, con quelle storie che ruotano intorno a temi come criminalità e corruzione e in cui si trascende il male grazie a personaggi dalla grande umanità e onestà. La stessa umanità che ritroviamo nei cani, che hanno sentimenti forti e versano lacrime di empatia. «I dettagli e i silenzi sono importantissimi e hanno un ritmo tutto loro, e per questi mi sono rifatto invece a Miyazaki. Anche la scelta di Alexander Desplat di stare un passo indietro con la musica in certi momenti, viene da quel tipo di ispirazione». Il regista ha lavorato vecchio stile, usando miniature di cani fatti a mano. «C’è una certa parte dello stop motion che usa modellini, e se lavori così, abbracci il vecchio metodo combinandolo con i processi digitali. Abbiamo ripreso miniature, e si vede, ed è un modo di lavorare che mi piace perché mi ricorda la storia del cinema». Un’idea di fantasia che, in anni di lavoro, si è plasmata sui fatti che, nel frattempo, accadevano nel mondo. «Temi come il futuro, la spazzatura e le avventure dei bambini valgono in ogni luogo e ogni tempo».

Le voci degli animali e dei protagonisti umani appartengono a un pool di superstar, da Bryan Cranston a Edward Norton, passando per Bill Murray, Jeff Goldblum, Tilda Swinton, Greta Gerwig e Scarlett Johansson. «Sono persone che amo e con cui ho lavorato nel corso degli anni. Il bello è che una proposta di prestare le voci a un film animato non si può rifiutare, è un lavoro che puoi fare quando vuoi, anche a casa tua», conclude il regista.

Il film sarà distribuito in Italia dalla 20th Century Fox nel mese di maggio.

Articolo pubblicato su GQ.it 

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Rebecca Hall «So essere una moglie atroce».

11 sabato Mar 2017

Posted by cristianaallievi in Berlinale, cinema, Personaggi

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Berlinale 2017, Christine, Cristiana Allievi, GGG-Il grande gigante gentile, Herman Koch, Katharine Hepburn, Nella Larsen, Oren Moverman, Passing, Rebecca Hall, Regali da uno sconosciuto - The gift, Richard Gere, The dinner

HA STREGATO BEN AFFLECK, WOODY ALLEN E PATRICE LECONTE. È STATA ANCHE LA MOGLIE DI RICHARD GERE, UNA DONNA CHE HA DETESTATO. ED È CONVINTA CHE OGNI FAMIGLIA ABBIA UNA STORIA DA RACCONTARE, A PARTIRE DALLA SUA. E PRESTO SI METTERA’ DIETRO LA MACCHINA DA PRESA PER SCOPRIRLA MEGLIO

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L’attrice Rebecca Hall, 35 anni, esordirà presto dietro la macchina da presa.

«Come mi definirei? Una donna atroce». Ha due occhi grandi e una bocca molto carnosa, Rebecca Hall. Alta, magra, indossa un tubino color crema e accavalla le gambe accanto al tavolino di fronte a noi. «Il mio personaggio non era presente nel romanzo di Herman Koch, ma funziona bene per la storia. Sono quella che si può definire la moglie di un politico», racconta divertita riferendosi al suo personaggio in The dinner, il film di Oren Moverman appena passato in concorso all’ultima Berlinale, in cui Hall lavora accanto a Richard Gere, Steve Coogan e Laura Linney.

Nonostante l’accento very british, che sullo schermo la rende spesso sofisticata, non è né fredda né distaccata. Cerrto, ha un aplomb per cui sembra che stia per ad andare a parlare con la regina, ma Il Grande Gigante Gentile  di Speven Spielberg (film in cui lo faceva per copione) non c’entra: essere figlia di Peter, il regista teatrale inglese che ha fondato la Royal Shakespeare Company e di una cantante d’opera americana che è stata Carmen e Salomè lascia il segno. In una manciata di anni abbiamo ammirato Rebecca Hall in tutti i generi cinematografici possibili, dai blockbusters (Iron Men 3) alle science-fiction (Transcendence), fino ai thriller ad alta tensione (Regali da uno sconosciuto – The gift). E soprattutto a dirigerla sono stati i migliori registi su piazza, da Woody Allen a Ben Affleck.

Per The dinner, lo scuro thriller psicologico su un feroce scontro tra due coppie a cena in un ristorante di lusso- basato sull’omonimo bestseller di Koch venduto in 37 paesi- ha cambiato radicalmente ritmi lavorativi. «Lo abbiamo girato tutto di notte. Andavo sul set alle sette di sera e tornavo alle 8 di mattina, dopo tre settimane così diventi matta», racconta ridendo. «Gere è Stan, un membro del Congresso popolare candidato a governatore. È un calcolatore che pensa tutto il tempo e io sono la donna di potere che gli sta accanto. Diplomatica e molto ambiziosa, è una specie di centrale elettrica dietro le quinte». Il film si svolge quasi del tutto a tavola. Stan invita a cena il fratello minore e travagliato che ha smesso di frequentare quando erano ragazzi. «I loro figli sedicenni però sono amici, hanno appena commesso un crimine terribile per cui non verranno mai scoperti, ma i genitori devono decidere che azione intraprendere. È un film sulla diplomazia, mostra come quattro membri di una famiglia sono in grado di manipolarsi a vicenda». Proprio parlando di famiglia si capisce che è un tema centrale anche nella sua vita vera. «Nelle famiglie tutti hanno una storia interessante da raccontare, e le storie mi piacciono moltissimo». Menzionando il padre, un colosso del teatro, non nasconde quanto abbia aiutato la sua carriera. «Ho avuto una vita facile in termini di conoscenze per il mio lavoro, non posso certo lamentarmi. Ma per tutto c’è il rovescio della medaglia, e io sono sempre entrata in stanze in cui le persone davano per scontato di conoscermi. All’inizio la cosa mi spiazzava, poi ho imparato a lasciar credere alle persone ciò che vogliono: inutile andare a dire in giro che anche tu soffri e non ti senti perfetta». C’è un punto in cui il tema famiglia si incrocia con la vita di attrice, e riguarda nientemeno che suo marito. Sul set di Christine (per cui si è trasformata nella Chubbuck, la giornalista malata di depressione che ha trovato notorietà suicidandosi in diretta tv), ha incontrato Morgan Spector, che poco dopo è diventato suo marito. «Sono cresciuta nel caos più totale della mia famiglia, credevo che la stabilità non facesse per me, figuriamoci con un attore. Ma mi sbagliavo, la vita matrimoniale mi fa stare molto bene». Insieme hanno faticato non poco, ma Christine è stato un grande successo sia al Sundance sia a Toronto. «Quando ho letto la sceneggiatura mi ha molto disturbata e l’ho chiusa in un cassetto. Poi ho pensato fosse un ottimo motivo per accettare il ruolo. La Chubbuck era una giornalista in una piccolissima stazione tv della Florida, nel 1974, e il solo motivo per cui la gente la conosce è il suo gesto estremo. L’unico materiale che avevo per farmi un’idea di chi era sono 20 minuti di riprese di una sua trasmissione, in cui parlava con degli ospiti di argomenti assolutamente non importanti». «Per raccontare le due settimane prima del tragico evento. Ho dovuto immaginare come dev’essere stato non “funzionare” come gli altri, come ci si sente all’idea che il mondo esterno si accorga che sei malata. La medicina non aveva ancora scoperto cure, il litio è uscito l’anno dopo la sua morte. È stato un lavoro molto difficile ma necessario». Le ha fatto scoprire cose di sé che non conosceva. «Prendendo in mano una pistola finta e simulando di farmi fuori si è alzata l’adrenalina e ho iniziato a tremare come una foglia. Ho scoperto che il corpo reagisce come se lo stessi facessi davvero». A Hollywood, di personaggi “sgradevoli” come la Chubbuck se ne vedono pochi. «Non so perché succeda, ma come attrice mi sono presa l’impegno di far riflettere e sollevare certe domande». Ma è anche vero che non perde ocasione per dichiarare di non vedere l’ora di recitare in una commedia, «intelligente, come piacciono a me. Sono cresciuta guardando Barbara Stanwyck, Bette Davis e Myrna Loy e adoro i film che giravano Katharine Hepburn o Carole Lombard, ma al momento ruoli così non esistono». La rivelazione della conversazione arriva adesso: la Hall, che scrive da quando aveva 13 anni, sta pensando di dirigere se stessa, e sta cercando i soldi per il suo primo film: sarà tratto dalla storia che ha scritto chiuso in cassetto un decennio fa. È tratta da Passing, il romanzo di Nella Larsen del 1929 in cui due donne nere in Olanda sembrano abbastanza bianche da fingere di esserlo. «Mio nonno era nero e intorno alla sua vita ci sono fatti molto misteriosi. Su alcuni formulari scriveva “nero”, su altri “bianco”. È morto quando mia madre aveva 16 anni, scoprire la verità sulla sua storia mi intriga. Più ampiamente il racconto riguarda il sentirsi intrappolati da un’identità che ci creiamo e che poi dobbiamo sostenere». Se teme di presentarsi al mondo nella veste di regista? «In passato non ero pronta a espormi, mi è difficile ammettere che posso essere brava a fare più di una cosa, credo sia un problema di noi donne. Ma adesso tutti mi incoraggiano, e credo davvero di poter fare un bellissimo film».

Articolo pubblicato su D La Repubblica del 25 febbraio 2017 

© Riproduzione riservata 

 

 

 

 

 

Call me by your name, eros e magnifica confusione by Luca Guadagnino

18 sabato Feb 2017

Posted by cristianaallievi in Berlinale, cinema, Cultura, Mostra d'arte cinematografica di Venezia, Senza categoria

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Armie Hammer, Berlinale, Call me by your name, Cristiana Allievi, Esther Garrel, Luca Guadagnino, Michael Stuhlbarg, Timothée Chalamet

Il nuovo film del regista siciliano celebra il desiderio dei vent’anni, quando, come disse una volta Truman Capote, “l’amore, non avendo una mappa, non conosce confini”

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Da sinistra Michael Stuhlbarg, Timothée Chalamet e Armie Hammer in una scena di Call me by your name (courtesy Sony Pictures Classics).

Con Luca Guadagnino l’Italia ha trionfato alla Berlinale. E con lui, ha vinto l’universalità dell’amore. È successo nonostante Call me by your name, settimo film del produttore e regista palermitano, fosse proiettato nella sezione Panorama, e non in Concorso, perché l’anteprima mondiale è avvenuta un mese prima al Sundance, festival Usa che ha parecchio gradito l’opera. Scritta dallo stesso Guadagnino insieme a James Ivory e Walter Fasano a partire dall’omonimo romanzo dell’americano André Aciman, la pellicola che sarà distribuita in Italia da Sony Picture Classics è un inno alla passione e all’eros che non mostra nemmeno una scena di sesso esplicita e riesce a includere una storia di famiglia. Un successo, va detto, da attribuirsi anche alla scelta di un magnifico cast. Elio Perlman, interpretato dall’astro nascente Timothée Chalamet, è il figlio diciassettenne di una coppia ebrea molto abbiente in cui il padre (Michael Stuhlbarg) è un professore d’inglese specialista dell’epoca greco romana. Siamo in estate, nei dintorni di Crema, e il ragazzo è una specie di genio della musica. Parla tre lingue, trascorre la giornata ascoltando e trascrivendo note di Bach e Berlioz e flirtando con l’amica Marzia (Esther Garrel). Finchè nella meravigliosa villa seicentesca di famiglia – a pochi chilometri dalla vera casa di Guadagnino – arriva Oliver, un giovane ricercatore americano, interpretato da un Armie Hammer al massimo del suo splendore: ha 24 anni ed è una miscela esplosiva di cultura e fascino. A poco a poco tra lui ed Elio si fa strada un sentimento dalla forza inesorabile, che include anche la confusione di Elio tra la ragazza che lo ama e l’attrazione per Oliver, confusione resa dal regista in modo terribilmente empatico.

E pensare che Guadagnino ha fatto di tutto per non dirigere questo film, avrebbe voluto restarne solo il produttore e proporlo ad altri colleghi. Ma da Taylor Wood a Ozpetek, passando per Gabriele Muccino, tutti gli dicevano “perché non lo fai tu?”. Così,  si è convinto. «Mi piace pensare che Call me by your name chiuda una trilogia di film sul desiderio, con Io sono l’amore e A bigger Splash», racconta. «Ma nei film precedenti il desiderio spingeva al possesso, al rimpianto e al bisogno di liberazione. Mentre qui volevamo esplorare l’idillio della giovinezza. Elio, Oliver e Marzia sono irretiti in una confusione che una volta Truman Capote ha descritto dicendo “l’amore, non avendo una mappa, non conosce confini”».
Come i suoi protagonisti, anche lo spettatore si trova catapultato in un universo idilliaco e passionale, guardando questi 130 minuti di immagini sulle note dei pezzi per pianoforte di John Adams ma anche di Lady, Lady, Lady di Joe Esposito (chi si ricorda di Flashdance?), oltre alla musica creata apposta per il film da Sufjan Stevens. «Io e Armie abbiamo trascorso molto tempo insieme prima delle riprese», racconta Timothée, «per tre settimane ci siamo fatti il caffè, abbiamo guardato film e ascoltato musica. Eravamo sempre insieme». E Hammer, che alla Berlinale era presente anche con il film di Stanley Tucci Final Portrait, rincara la dose. «Abbiamo fatto tutto quello che si vede nel film», provoca, per poi aggiungere un «beh, non proprio tutto. Di sicuro mi sento in sintonia con il modo in cui Luca è stato capace di far emergere il desiderio umano, questa brama che si sente fra i due personaggi. Sono emozioni primarie di desiderio che le persone sentono, e spero che questo aspetto aiuterà il film ad andare oltre ogni barriera».

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Il regista Luca Guadagnino, 46 anni (pic by Alessio Bolzoni).

Mentre si viene trasportati per mano nell’atmosfera ovattata in cui sboccia l’amore, tra bagni al fiume, sguardi e silenzi che dicono più di mille parole, fuori da questa bolla c’è un mondo che sfiorisce. Siamo negli anni Ottanta, nell’Italia di Licio Gelli e Bettino Craxi, delle piazze con i cartelloni elettorali di PCI e PSI. E mentre in questa famiglia molto internazionale, con madre francese e padre inglese, si parla di resti archeologici e di bellezza ellenica, dalla tv sbuca un giovanissimo Beppe Grillo, ancora solo comico. «È l’epoca in cui abbiamo assistito alla fine degli straordinari anni Settanta e all’inizio del conformismo degli Ottanta, con il pensiero di massa che ne è seguito», ricorda Guadagnino. «Mi piaceva mostrare un gruppo di persone che resta intoccato da tutto questo». In questa decadenza si avverte che un’estate molto fuori dal comune sta per finire, anche se nessuno lo vorrebbe. In un tessuto emotivo che non molla lo spettatore nemmeno per un istante, con la fine dell’estate per Elio arrivano i dialoghi illuminanti con il padre, dalla cui bocca escono parole che molti figli sognerebbero di sentirsi dire. E non è un caso, a sentire il regista. «Call me by your name è un omaggio ai padri della mia vita, il mio vero padre e i padri cinematografici, Renoir, Rivette, Rohmer e Bertolucci».

 Articolo pubblicato su GQ Italia
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Staley Tucci racconta l’artista Alberto Giacometti

16 giovedì Feb 2017

Posted by cristianaallievi in Berlinale, cinema, Cultura

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Alberto Giacometti, Armie Hammer, Clemence Poesy, cristianaallievi, Final Portrait, Geoffrey Rush, GQitalia, Stanley Tucci

Geoffrey Rush interpreta il geniale scultore svizzero in un film che, lontano dal classico biopic, sa essere folle e rock quanto il suo soggetto

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Armie Hammer e Geoffrey Rush in Final Portrait, di Stanley Tucci, in competizione alla 67 Berlinale (© Parisa Taghizadeh)

Ci sono lunghi minuti in cui il volto di Armie Hammer viene scrutato, scavato, quasi vivisezionato. A posarsi su di lui con una focalizzazzione assoluta è l’occhio di un artista che sembra vedere il mondo in modo diverso da come lo vediamo tutti noi. È questo il cuore di Final portrait, il quindo film che vede Stanley Tucci di nuovo dietro la macchina da presa, a 21 anni da Big Night. Nella pellicola, in concorso alla Berlinale, il regista e attore si focalizza sugli ultimi due anni di vita di Alberto Giacometti, scultore e pittore svizzero interpretato da un pirotecnico Geoffrey Rush, e ancor più precisamente sul suo incontro con l’amico scrittore e amante dell’arte James Lord, interpretato da un affascinante Armie Hammer (che a è presente al festival anche in Call me by your name di Luca Guadagnino, nella sezione Panorama). Non si tratta quindi di un classico biopic, ma della cronaca di un incontro tra due amici scandito in 18 giornate: tante ce ne sono volute perché James Lord potesse finalmente portare a casa un ritratto che Giacometti aveva promesso di eseguire in pochi giorni.

La storia è stata scritta da Tucci stesso, ispirandosi a un libro che aveva letto molti anni prima, ed è ambientata nella Parigi del 1964, quando Giacometti ha 64 anni e il suo amico Lord ne ha appena compiuti 40. Quest’ultimo si trova di passaggio nella città durante un viaggio, quando il pittore e scultore di fama mondiale gli chiede di posare per un ritratto, e lui accetta. James è un osservatore, ed è quindi un tipo più passivo. Vuole scrivere si Giacometti, farsi fare un ritratto da lui ma più di tutto è un amico che vuole passare tempo assieme, per conoscersi meglio. Quello di cui parlano in questi 18 giorni finirà nella biogarfia del pittore. Lo spettatore godrà delle nuanche di una particolarissima amicizia, ma soprattutto riceverà molte informazioni sulla frustrazione, la profondità e il chaos del processo creativo dell’artista.

«Il lavoro di Giacometti mi piace moltissimo, è antico e moderno insieme, e soprattutto è vero», racconta Tucci, che ha fatto riprodurre le sculture e i dipinti che si sarebbero trovati nello studio del maestro da un team di quattro artisti. «Una delle cose che amo di lui è lo spazio che crea, intorno alle figure, nel caso delle sculture, dentro la tela se si tratta di quadri. La posizione in cui le persone si collocano nello spazio dice moltissimo delle loro relazioni, del loro comportamento». Le immagini sono splendide, la saturazione del colore varia durante il film. «Lo avrei girato in bianco e nero, ma sarebbe stato più difficile da distribuire, così ho optato per una palette vicina ai colori dei lavori di Giacometti. Siccome è un film ambientato negli anni Sessanta, non volevo che Parigi diventasse troppo romantica e nostalgica, volevo fosse reale. Con Danny Cohen, direttore della fotografia, abbiamo girato con due macchine da presa in simultanea, per questo il tono del film è molto naturalistico». E, per dirla con le parole della sua protagonista femminile, Clemence Poesy, «è molto più rock and roll dei film d’epoca».

Tucci ha pensato a Geoffrey Rush molto prima di iniziare a lavorare al film, perché il suo volto è molto vicino a quello di Giacometti. Ma ha dovuto accorciarne e rafforzarne l’esile figura attraverso un accorto uso dei costumi. Mentre per affiancarlo ha avuto gioco facile con il californiano Armie Hammer, perfetto per calarsi nei panni dell’americano affabile e lievemente stiff. Unico dubbio, che fosse troppo bello per il ruolo. «Com’è stato lavorare con Geoffry? A parte il suo senso dell’umorismo, che non ha smesso di colpirmi ogni giorno, è stato come giocare una partita di tennis con qualcuno che è talmente più bravo di te da elevare il tuo stessogioco. Tutto quello che dovevo fare era sedermi e veder recitare uno dei miei idoli, niente male direi, ricomincerei subito (risata, ndr)».

Il padre di Armie è stato un collezionista d’arte, c’è da chiedersi se la cosa lo abbia influenzato. «Mi piace considerarmi un artista, la mia relazione con l’arte forse è più diretta».  Il finale di Final portrait ha un ritmo veloce. Dopo aver cambiato per tre volte la data del suo rientro, James Lord decide di dare una scadenza definitiva a Giacometti per tornare negli States. «Il ritratto finale è un compromesso, i due amici non si sono mai più rivisti», conclude Tucci. «Ma questo non conta. La sensazione che volevo lasciare nello spettatore – in un’epoca in cui grazie ai social pensiamo di dover mostrare sempre tutto per avere successo – è che Giacometti avrebbe rifatto tutto daccapo, era il suo modo di lavorare. E nonostante non fosse mai soddisfatto del proprio lavoro, questo ritratto “incompiuto” l’anno scorso è stato venduto per 20 milioni di dollari. Non male, direi»

Pubblicato su GQ.it

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