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Cristiana Allievi

~ Interviste illuminanti

Cristiana Allievi

Archivi tag: Casa Howard

Emma Thompson, «La mia prima volta nuda».

10 giovedì Nov 2022

Posted by cristianaallievi in arte, Attulità, Berlinale, cinema, Cultura

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Casa Howard, Emma Thompson, Il piacere è tutto mio, interviste illuminanti, Orgasmo, piacere, Ragione e sentimento, Sesso, Sesso dopo i sessanta

IN IL PIACERE È TUTTO MIO L’ATTRICE INGLESE CI REGALA, A 63 ANNI, UN’INTERPRETAZIONE EMOZIONANTE E CORAGGIOSA. E UNA GRANDE LEZIONE DI LIBERTA’: «GUARDIAMOCI SENZA GIUDICARCI»

di Cristiana Allievi

L’attrice Emma Thompson, 63 anni e due premi Oscar (Courtesy Donna Moderna) intervistata da Cristiana Allievi per il film Il piacere è tutto mio, di Sophie Hyde.

Non ha mai avuto un orgasmo vero in trent’anni di matrimonio. Adesso che il marito è morto, però, Nancy è determinatissima a recuperare. Assolda Leo, sex worker di professione, e da brava ex insegnante, si presenta ai loro incontri con un elenco di “cose da fare”: in cima, il sesso orale.  Leo, uomo piacente e di un pezzo più giovane di lei, ha ampie vedute su molti argomenti, e questo la spiazza.  I loro appuntamenti, sempre nella stessa stanza d’albergo, all’inizio fanno emergere la sua frustrazione, poi la spingono ad accettare e includere una visione nuova del piacere.

A 63 anni Emma Thompson, che amiamo da oltre trenta per la bravura e la profondità, ci regala una delle sue interpretazioni migliori.  Figlia di due attori, laurea in Lettere a Cambridge, sposata in seconde nozze con l’attore Greg Wise (con cui è diventata cittadina onoraria di Venezia), dal 10 novembre la due volte premio Oscar sarà protagonista di Il piacere è tutto mio di Sophie Hyde. Un “percorso” che parte come un’esplorazione dell’intimità per diventare una riflessione sulla liberazione, grazie all’altro, dei nostri limiti.

Come ha reagito quando le hanno proposto questo film? «Katy Brand, la sceneggiatrice, è un’amica da molti anni. Mi ha mandato il copione dicendomi “l’ho scritto con te in mente, cosa ne pensi?”. La mia risposta alla lettura è stata viscerale, era la storia più bella che avessi mai letto. “Amo i temi, amo queste due persone, facciamo il film”, le ho risposto. Così abbiamo cercato insieme Daryl, l’attore che interpreta personaggio di Leo, il viaggio si è costruito giorno dopo giorno».

Questo ruolo la espone molto a livello fisico. «”Espone”, che verbo interessante! Qualsiasi cosa faccia come attrice, uso il mio corpo, ma non sono mai io: recito qualcuno, che in questo caso è piuttosto diverso da me. È vero che nel film c’è un momento di grande esposizione fisica, il mio nudo integrale, ma arriva alla fine ed è molto ben gestito. Tutto di quel momento è significativo, e io mi sentivo nelle mani sicure di Sophie. Abbiamo parlato molto di quella scena, prima di girarla».

Per esempio come posizionare le luci, considerato che è stata così audace da farsi riprendere in piedi, davanti allo specchio? «Esatto, volevo che tutto fosse autentico e onesto, perché in quel momento corpo ed emozioni sono un tutt’uno. Però è vero, la maggior parte di noi di solito non si espone in quel modo, nemmeno nella vita vera».

Come la fa sentire essere nuda? «Mi sento più esposta nella scena in cui piango perché non riesco a fare sesso orale a Leo. Oppure quando gli racconto di quell’unico momento della vita con mio marito in cui mi sono avvicinata all’idea di un piacere sessuale:  quelle emozioni sono molto più delicate da restituire, rispetto a mostrare il mio corpo. La cosa importante è che finalmente alla fine del film Nancy guarda il suo corpo senza giudicarlo più. È forse il primo vero momento di agio e di piacere».

È vero che nella storia originale non c’erano scene di nudo? «È vero, ma lavorando al film è cresciuta quell’esigenza. C’era l’idea che potevamo arrivare fino a lì, e che se mi fossi sentita a disagio non l’avrei girata».

Quando riesce ad essere aperta sui suoi bisogni sessuali nella vita vera? «Io e mio marito ne parliamo molto esplicitamente, ma il sesso non è mai come la nostra mente ci dice che dovrebbe essere. Siamo cresciuti con un sacco di spazzatura in testa su questo argomento».

Ad esempio? «L’idealismo romantico ci fa favoleggiare su tutto. Il sesso in realtà è spesso qualcosa di abbastanza strano e di profondamente non romantico. Ma non siamo onesti su questo punto, e facciamo esperienza di molta vergogna su quali sono gli aspetti che possono darci piacere e quali no. Credo che sarebbe molto meglio essere onesti, nei discorsi pubblici sul sesso e nel parlarne in genere.  Perchè è un campo molto sottile e complicato, fatto di tentativi e di esperienze, e questo film cerca di portarci in un territorio sconosciuto».

Ci racconta che la ricerca d’intimità e di connessione è potente, coraggiosa e necessaria. «I due personaggi non si innamorano, è la parte della storia che preferisco. Fra loro c’è intimità, e questa non ha niente a che vedere con l’amore romantico. Qui si parla di amore per se stessi, da mettere al primo posto, prima dell’amore di due persone una per l’altra.  Anche se i due sono molto vicini, lo sono in un modo molto particolare. Si “sbloccano” a vicenda, Leo vive la relazione imparando ad amarsi di più,  Nancy, trasforma la sua visione del piacere».

Tornare a se stessi sembra un messaggio fondamentale. «Avere una buona relazione con se stessi è il minimo per poter provare empatia verso chiunque altro». 

Cosa la aiuta a volersi bene? «La terapia costante, anni di terapia! Scherzo, ma non tanto in realtà… Pensare a me nel modo classico mi aiuta molto, capire come funziono mi da una chiave di comprensione del genere umano, perché io ne sono un esempio. Non c’è niente di speciale in me, sono un semplice essere umano, ma ciò che accade intorno a me mi da così tante comprensioni  su quello che provo io, esamino e comprendo le emozioni che provo. E questo processo mi regala pazienza verso me stessa, oltre alla la capacità di mettermi nei panni dell’altro, che  poi è anche ciò che faccio di lavoro».

C’è bisogno di un partner, per vivere l’amore verso se stessi? «Si può sperimentare anche senza gli altri, certo. Ma le relazioni migliori sono quelle che ci danno l’opportunità di provare compassione e che ci rimandano la nostra unicità. William Blake dice “abbiamo creato un piccolo spazio sulla terra per imparare a sopportare i raggi dell’amore…”». Io dico, meno bene, che cercare di amarci uno con l’altra è l’origine della vera saggezza».

Storia di copertina pubblicata su Donna Moderna del 27 ottobre

@Riproduzione riservata

Emma Thompson: «Odiarci è una perdita di tempo».

13 venerdì Set 2019

Posted by cristianaallievi in cinema, Miti, Personaggi

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attrice, Cabaret, Casa Howard, cinema, Emma Thompson, Kenneth Branagh, Last nigh, Oscar, Quel che resta del giorno, Teatro

SULLA BATTAGLIA FRA I SESSI HA LE IDEE CHIARE: «I MASCHI VIAGGIANO SU UN’AUTOSTRADA, NOI DONNE ABBIAMO ANCORA MONTAGNE E FIUMI DA ATTRAVERSARE». LA THOMPSON È PROTAGONISTA DI UN FILM IN CUI DA’ FILO DA TORCERE A TUTTE LE SUE COLLEGHE. E NE PARLA CON L’INTELLIGENZA TAGLIENTE CHE LA CONTRADDISTINGUE

di Cristiana Allievi

L’attrice Emma Thompson, 60 anni. Nel film E poi c’è Katherine interpreta la leggendaria conduttrice tv Katherine Newbury.

«La famiglia è il centro di tutto per me. E con famiglia intendo le connessioni, non necessariamente i legami di sangue ma un gruppo più ampio, accogliente e nutriente di persone che mettono radici insieme». Ascoltarla parlare di legami, e capire come la coinvolgono, fa capire quanto la due volte premio Oscar sia un vero asso della recitazione. No, non nella realtà: sullo schermo. Perché la Thompson, che vive ancora nel quartiere londinese di Paddington, nella stessa strada in cui è cresciuta da ragazza, con vicino altri membri della sua famiglia, è al cinema con un ruolo che è l’esatto apposto del calore e dell’accoglienza con cui parla del suo nido. Ed è bravissima. E poi c’è Katherine, diretto da Nisha Ganatra e scritto dalla coprotagonista Mindy Kaling, è una delle migliori interpretazioni degli ultimi anni. Emma è Katherine Newbury ed è la leggendaria conduttrice tv di uno show vecchio stile che soffre di un costante calo di ascolti. I motivi? È poco empatica, ha uno staff di soli uomini, di cui non conosce nemmeno il nome, e ha la fama di odiare le donne. In pratica, le manca quel collante amorevole che serve a portare avanti uno staff di successo. Nella vita vera, invece, Emma ha lottato per farsi una famiglia insieme al marito Greg Wise (il secondo, dopo Kenneth Branagh). Sua figlia Gaia, 19 anni, è nata che aveva quasi 40 anni ed è stata concepita tramite la fecondazione artificiale. «È il mio miracolo, ancora oggi mi capita di tornare al ricordo della sua nascita, è come un pozzo da cui attingo forza». Avrebbe voluto altri figli ma non poteva averne, però Tindy è arrivato lo stesso nella sua vita. Ex soldato bambino in Rwanda, lo hanno accolto in famiglia con un’adozione informale quando aveva 16 anni. Era un adolescente traumatizzato, che veniva da un altro mondo, non si è trattato propriamente di un’adozione che conquista i titoli dei giornali. Anche nei panni di Katherine, la Thompson farà “un’adozione”: quando il capo della rete le annuncia che questa sarà la sua ultima stagione, fa assumere una donna giovane e inesperta fra i suoi autori, Molly, allo scopo di mettere a tacere le malelingue che la accusano di misoginia. Sarà l’inizio di una revisione totale e dagli esiti sorprendenti.

(continua…)

Intervista pubblicata su Grazia del 12/9/2019

© Riproduzione riservata

James Ivory: «Festeggio 90 anni con il DVD di Chiamami col nome e penso a Shakespeare»

08 venerdì Giu 2018

Posted by cristianaallievi in cinema, Miti, Oscar 2018, Personaggi

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Camera con vista, Casa Howard, Chiamami col tuo nome, Cristiana Allievi, GQ, James Ivory

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James Ivory, regista, produttore e sceneggiatore, 90 anni, alla premiazione degli Oscar 2018 (courtesy GQ.it).

Per i 90 anni dell’autore di “Camera con vista” e “Casa Howard”, un regalo speciale: l’uscita homevideo del film che gli ha finalmente portato l’Oscar, “Chiamami col tuo nome”, premiato per la sua sceneggiatura

Lo hanno sempre definito il più europeo dei registi americani. E nonostante James Ivory, che è anche anche sceneggiatore e produttore, ripeta di non avere niente di inglese, basta dare un occhio ai suoi film, soprattutto a quel fiume di candidature agli Oscar che hanno avuto Camera con vista, Quel che resta del giorno e Casa Howard, per non essere tanto d’accordo.

Se lo si incontra, più che un californiano sembra un gentleman inglese dal bon ton d’altri tempi. Anche i gusti e gli interessi sono distanti un bel po’ da quelli hollywoodiani, forse perché ha sempre vissuto a New York. Comunque, è impossibile parlare di James Ivory al singolare, visto che dal 1961 “lui” è la Merchant Ivory Productions, fondata con Ismail Merchant, produttore indiano a cui si è legato e con cui ha dato vita a decine di film e documentari, girati in ogni angolo di mondo. Nonostante Ismael sia mancato all’improvviso, 13 anni fa, Ivory continua a usare il plurale riferendosi ai suoi lavori. Specializzato in architettura e storia dell’arte, ha compiuto 90 anni il 7 giugno, lo stesso giorno in cui è uscito in DVD Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino, con cui quest’anno ha vinto il suo primo Oscar per la miglior sceneggiatura non originale.

In una carriera lunga come la sua, in cui ha vinto 50 premi ed è stato nominato quattro volte agli Oscar, cosa rappresenta la sua prima statuetta?
«Il significato speciale di questa vittoria non è che sono vecchio, ma che me l’abbiano attribuita per una sceneggiatura. Avevo lavorato con sceneggiatori ad altri film, ma ho scritto Chiamami col tuo nome completamente da solo, e per me significa molto».
Pensavo lo avesse scritto con Guadagnino.
«Luca non scrive in inglese, ma solo in italiano».

È il premio più importante della sua carriera o ne ha vinti di minori che significano di più?
«No, credo che se fai film che vanno in tutto il mondo, e se li fai per il pubblico, un Oscar sia il riconoscimento supremo».

Come lo ha festeggiato?
«Ero con molti amici, abbiamo bevuto parecchio champagne».

Dove si trovava?
«A Los Angeles, mi sono trattenuto per vari giorni e per festeggiamenti ripetuti. E quando sono tornato a casa, a New York, abbiamo ricominciato».

Lei è un maestro nei ritratti di famiglia: in questo film ne vediamo di nuovo uno che mette a confronto varie culture.
«In effetti mi piacciono le grandi storie di famiglie, in cui tutti hanno idee diverse e c’è molto confronto».

Ricorda la prima volta che ha incontrato Luca Guadagnino?
«Era a una festa a Roma, molti anni fa, poi ci siamo rincontrati di nuovo in occasione della festa del mio film, Quella sera dorata. È stato un incontro importante».

Era dispiaciuto che non abbia vinto l’Oscar per la miglior regia? In molti pensano che la meritasse…
«È capitato anche a me. Sono stato nominato come miglior regista agli Oscar per tre volte, ma in due occasioni è stata Ruth Prawer Jhabvala a vincere con la miglior sceneggiatura di Casa Howard e Camera con vista. Sono stato contento perché si trattava di una cara amica, ma mi è sempre sembrato strano: se vince una sceneggiatura, uno dei motivi è che il regista ha fatto un lavoro straordinario e ha attori meravigliosi. Lo stesso discorso vale per Chiamami col tuo nome. Quello che Luca ha fatto è stato straordinario, e così gli attori, cosa che mi ha fatto riflettere».

Cosa vuole dire?
«Che non è stato nominato perché non appartiene alla corporazione dei registi americani, e lo meriterebbe».

Chiamami col tuo nome riporta alla dinamica del primo innamoramento, ricorda il suo?
«Lo ricordo eccome. Ma a 17 anni senti una forte attrazione mista alla paura di non piacere, tutti fenomeni che ricordo, ma non sono sicuro che si possano definire “primo amore”».

L’Italia del suo Camera con vista era quella del 1895, quanto l’ha trovata diversa dal set di Chiamami col tuo nome?
«Molto, innanzitutto i protagonisti di quel film vivevano in una pensione, non in una villa. Poi secondo la mia sceneggiatura la storia avrebbe dovuto svolgersi in Sicilia, di fronte all’Oceano. Il romanzo di Aciman si svolge in Liguria, ma non c’era modo di girare lì, perché era estate, e Luca temeva che sarebbe stato pieno di turisti. Abbiamo pensato alla Puglia, volevamo i templi greci che non ci sono al Nord. Al tempo delle riprese la Sicilia e la Puglia erano impossibili, per i costi troppo alti, e tutti i piani sono cambiati. Quello che avevo scritto all’inizio si è trasformato».

Ismail Merchant avrebbe amato Chiamami con tuo nome?
«Ne sarebbe stato entusiasta, e avrebbe contribuito alla fotografia».

Ultima domanda: girerà Riccardo II?
«Se trovo i soldi inizio subito le riprese. Credo di essere il regista più anziano che vuole girare un film shakesperiano, ma ho ancora fiducia…».

Intervista pubblicata su GQ.it

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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