Alla direzione artistica del concorso internazionale di Cortometraggi del Lamezia International Film Festival

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Fra le novità che mi porta questo anno c’è anche una direzione artistica. L’ideatore e direttore del Lamezia International Film Festival, Gianlorenzo Franzi, mi ha affidato la nuova sezione di corti internazionali, che avrò il piacere di sovrintendere. La nuova sezione indagherà l’intelligenza artificiale e si intitolerà Chi sarò io? , come spiega bene l’articolo di Ciak magazine.

Mi raccomando seguiteci, magari anche venendo di persona a Lamezia dall’11 al 15 luglio.

Il racconto completo è su Ciak magazine

Il talento radicale di diventare se stesse

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Otto donne legate da un elegante filo rosso. Come eroine resistenti al passare del tempo, sono sostenute da un talento radicale. Il racconto di queste pagine illumina tutti gli aspetti delle loro vite, non risparmia gli abissi e illumina le vette, mettendo in risalto sfaccettature del loro esistere che nemmeno i più fidati collaboratori conoscevano

L’8 marzo è stato pubblicato Incontri con donne straordinarie da Il sole 24 Ore, libro della giornalista Cristiana Allievi disponibile prima in edicola poi nelle librerie di tutta Italia e su Amazon.

Quando si pensa a una persona di successo si cade spesso nella trappola di credere che questo successo sia come uno status, un club a cui si appartiene per diritto, e da cui tutti gli altri sono esclusi per destino. I social media stanno contribuendo a sgretolare questa idea, diluendo il potere attrattivo dei “numeri uno”: con i loro interventi virtuali, ogni giorno milioni di persone ci informano di essere altrettanto degne di attenzione, perché hanno incontrato i loro amici del liceo dopo 40 anni (e sì, ci vuole coraggio), hanno iniziato una nuova relazione, hanno finalmente ottenuto la promozione che aspettavano da anni: chi può negare che anche questi siano successi?

Ma quello che si indaga in Incontri con donne straordinarie è qualcosa che ha un’altra natura e proviene da altre realtà. Senza anticipare come le otto eccellenze italiane sono arrivate a certi traguardi,  basti sapere che sono state passate al microscopio in quelle che definisco “interviste illuminanti”: ovvero incontri capaci di portare luce su aspetti su cui si tende troppo spesso a sorvolare, perdendo il punto. In questi incontri, e grazie a queste parole, si arriva vicino, molto vicino, alla persona di cui si narra. E anche quando sembra che ci si stia allontanando dal cuore del racconto più personale, in realtà si sta percorrendo un perimetro che permette di mettere ancora più a fuoco la donna che si ha di fronte, di vederla in un contesto allargato che evidenzia ancora meglio la sua specificità, e quindi grandezza.   Non a caso Fellini è il nostro regista più amato e imitato al mondo: raccontava storie molto personali e locali, e proprio per questo è ancora incredibilmente universale.

In questo gioco di avvicinamento e allontanamento, il libro definisce sempre meglio una domanda: cos’è, davvero, il successo? E le persone che lo hanno ne sono consapevoli o è solo una proiezione che arriva dall’esterno, dagli altri? Ciò che emerge rende evidente che l’argomento va osservato più attentamente, soprattutto perché secondo l’autrice nasconde una grande potenzialità: quella di scoprire, e vivere,  il proprio talento, che con il successo può, o meno, accordarsi.

Questa prospettiva apre uno scenario nuovo, molto più attivo e di presa di responsabilità: vivere il talento, e metterlo a disposizione della società in cui si vive, è un grande lavoro, più o meno consapevole, su se stessi. Richiede, come cantava il grande Battiato, di “emanciparsi dall’incubo delle passioni”, ognuno le proprie. Implica il confrontarsi con idee limitanti, come il senso di “non essere abbastanza”, di non valere, di non essere amati, capiti, sostenuti, approvati dagli altri… Tutte “voci” che, sotto sotto, hanno costruito la nostra idea di chi siamo, e che minano la nostra reale forza. Passioni che anche le otto donne che si incontrano in queste pagine hanno affrontato, e che ciascuna a modo proprio ha in qualche modo superato.

Ecco perché queste donne possono essere d’esempio per molti, come a ricordare qual è il lavoro che non ci si può risparmiare, quando si parla di successo: nessuno può più dormire con la scusa “tanto io non faccio parte del club”. Anche l’invidia, una maledetta passione stimolata dalla contemporaneità, in quest’ottica sta ad indicare che stiamo mancando un punto, ci stiamo tirando indietro su qualcosa: in pratica non stiamo esprimendo il nostro potenziale come potremmo.

Scelgo la parola “club” perché fa venire in mente stanze in cui uomini ben vestiti fumano sigari e stringono affari, avvolti dalla cortina di fumo. Prima del movimento #MeToo  il successo era una parola che faceva volare l’immaginazione verso figure maschili e le loro aziende e fatturati, come alle nazioni da guidare, alle strategie di guerre da combattere, ai mercati da conquistare, sempre da parte di maschi. Per fortuna anche questo libro indica un cambiamento di direzione, anche in questo senso.  Qui si parla di donne che vengono definite straordinarie. La chiave di questa scelta risiede nella loro visione degli obiettivi e dei traguardi, nel loro modo di affrontare situazioni e sfide della vita. Ciò che emerge dai loro racconti è la loro forza, la forza di essere se stesse, fino in fondo. Come aveva già cercato di farci capire Carl Gustav Jung, introducendo nella psicologia l’idea di “animus” e “anima”, due forze che caratterizzano tutti gli esseri umani a prescindere dall’avere un corpo di donna o di uomo, il tipo di forza di cui parliamo valica i confini di genere.

A unire le otto donne raccontate c’è un elegante filo rosso. Non simboleggia uno sbandierato e chiassoso successo così come viene spesso inteso nel mondo contemporaneo: alcune di loro non hanno né Twitter nè Instagram. A fare di queste donne delle eroine resistenti al passare del tempo è un talento radicale. Il loro è uno sguardo aperto e internazionale sul mondo che, insieme a sentimenti nobili,  rimette al centro la cultura, il valore, la lealtà, il sacrificio quotidiano e la coerenza, caratteristiche di un certo modo di intendere il proprio lavoro e di vivere.  Il racconto di queste pagine annovera tutti gli aspetti delle loro vite, non risparmia gli abissi e illumina le vette, mettendo in risalto sfaccettature del loro esistere che nemmeno i più fidati collaboratori conoscevano, nonostante anni di frequentazione quotidiana.

Le donne di questo libro, se non ci fossero, bisognerebbe inventarle.

INCONTRI COMN DONNE STRAORDINARIE è disponibili nelle principali librerie d’Italia e su Amazon.com

Pubblicato da Il sole 24 Ore, l’8 marzo 2023

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Sean Penn, «Facile criticare Zelenski»

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«Vorrei vedere al suo posto chi si fa beffe di lui perché era un comico. Ma il presidente si batte per quello che l’Ucraina vuole: la libertà».
Il divo era a Kiev quando, un anno fa, è scoppiata la guerra. Risultato: un documentario che ricorda all’Occidente da che parte è giusto stare

di Cristiana Allievi

Dov’eri un anno fa, quando la Russia ha invaso l’Ucraina? Sean Penn non deve fare alcun esercizio di memoria per rispondere alla domanda: il 24 febbraio 2022 era a Kiev, a pochi passi dal presidente Volodymyr Zelensky. Il suono delle bombe, gli aerei militari, le sirene d’allarme li ha sentiti dal vivo, non guardando il tg della sera.

L’attore e regista si trovava in Ucraina per lavorare a un docufilm sulla carriera di Zelensky, prima at- tore comico, poi idolo nazionale, infine presidente di uno Stato in guerra con Mosca. E ha deciso di fermarsi per documentare le prime fasi del conflit- to, spingendosi anche al fronte.

Il risultato è Superpower, che è appena stato pre- sentato in anteprima al Festival di Berlino. Quando ne parla, Penn, cappellino militare calcato sugli occhi e muscoli in vista, ha la faccia seria e concentrata. A breve distanza una guardia del corpo alta due metri ci scruta severa. Questo documentario, ci fa capire Penn, è un modo molto diretto di pun-tare il dito contro l’America, che a suo avviso non sostiene abbastanza il popolo di Kiev. Il titolo Superpower, invece si capisce solo alla fine, quando si vede l’ex attore Zelensky interpretare un padre che dice a suo figlio: «Sei tu il mio superpotere». Come dire che tutto quello che sta facendo il presidente ucraino ha un obiettivo importante: dare un futuro migliore alle nuove generazioni.

Lei si trovava a Kiev a girare, quando a febbraio 2022 sono partiti i primi missili dalla Russia: non aveva sentore di quello che stava per succedere?

«Davvero non ho mai pensato che ci sarebbe stata un’invasione. Ma allo stesso tempo ero mental- mente preparato alla possibilità. Ricordo che le co- se sono cambiate in modo repentino, come il meteo: prima c’era il sole, il giorno dopo ha piovuto. In questo caso è stata una pioggia che non dimenticherò mai: ho avuto la percezione di essere al centro di un evento storico importantissimo. Credo sia stato un privilegio, anche se quello che ho visto mi ha spezzato il cuore».

Che cosa l’aveva portata da Zelensky, quando pochi parlavano ancora di Ucraina? Che cosa stava cercando? «Mi aveva colpito la storia recente del Paese, la sua mentalità che si era allontanata moltissimo dal retaggio sovietico dopo la rivoluzione di Maidan del 2014 (con la fuga in Russia del presidente ucraino Janukovyč e l’abolizione di alcune leggi filorusse). In quel periodo gli americani erano distratti, il pensie- ro comune era: «Lascia che lui si prenda la Crimea…» (non nominerà mai direttamente Putin durante l’intervista, ndr).

La cosa l’ha colpita profondamente, è evidente.
«Mi è venuta voglia di avvicinarmi agli ucraini, un popolo alla ricerca della libertà. Quella stessa libertà che l’America più di ogni altra nazione dovrebbe difendere».

Nel docufilm lei va in giro a fare domande a persone di tutti i tipi, il sindaco di Kiev, i banchieri, i soldati: cosa l’ha colpita di più tra le risposte? «Le parole di un soldato ucraino. Nonostante sapesse che il suo presi- dente avrebbe visto il film, ha detto di lui: «Non ha le palle». Mi ha colpito tanto perché questa è una cosa che in Russia non potrebbe mai succedere. Nel nostro film non ci sono filtri o veti, nessun pulsante per mettere in pausa: tutto quello che mostriamo non è stato alterato in alcun modo».

(continua…)

Intervista integrale pubblicata su F Magazine – n. 9 2023

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Cate Blanchett, «La vita non è la solita sinfonia».

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di Cristiana Allievi

Todd Field’s TÁR will have its world premiere at the Venice International Film Festival. Cate Blanchett stars as Lydia Tár in director Todd Field’s TÁR, a Focus Features release. Credit: Florian Hoffmeister / Focus Features- Courtesy Universal

Lydia Tar è la direttrice di una delle più grandi orchestre sinfoniche tedesche e sta preparando l’esecuzione  della difficilissima Quinta sinfonia di Mahler.

Comincia così Tar, presentato in Concorso all’ultima Mostra di Venezia e nelle sale dal 9 febbraio, con un’intervista con il (vero) giornalista Adam Gopnik, mentre Lydia è all’apice della sua carriera e sta per presentare la sua autobiografia.

Innovativo a partire dalla sceneggiatura del regista Todd Fields, che ha impiegato anni in questo lavoro al cui centro c’è un’immensa Cate Blanchett nei panni di Lydia Tar, sostenuta da due ottime coprotagoniste: Nina Hoss, sua compagna nel film, e Nomie Merlant, sua assistente personale.  Donne diversamente innamorate di Lydia, intorno a cui si crea un triangolo di alta tensione.

La novità del film è che Blanchett non occupa solo un posto di potere, ma un ruolo tradizionalmente riservato agli uomini: il podio di un’orchestra sinfonica (e non una qualsiasi, alludendo il film ai Berliner Philarmoniker). Vediamo solo tre settimane della sua vita, ma capiamo che vuole ottenere molto, con lo stress psicofisico che comporta arrivare in cima alla vetta.

Lo spiega Blanchett stessa, dentro un abito che ha lo stesso colore azzurro ghiaccio dei suoi occhi. «Lydia è sull’Olimpo, da artista è arrivata. Come essere umano, invece, sa che dopo la vetta c’è solo la discesa, e affrontarla richiede molto coraggio. Sicuramente c’è qualcosa che la tormenta, un passato, una persona, è stato affascinante lavorare su questo aspetto».

Tar è un film sulla trasformazione, su quel  qualcosa che succede e che ci fa vivere cose che non avremmo mai pensato di vedere o di sentire.

«Un aspetto fondamentale in qualsiasi rapporto creativo è la fiducia», continua la due volte premio Oscar Blanchett, che per il ruolo ha studiato la presenza e i gesti di Claudio Abbado, Carlos Kleiber, Emmanuelle Haim. «Credo che Lydia sia stata oggetto di bullismo, la fiducia per lei è un tema difficile, come il perdono. Dalla prima sillaba della sceneggiatura ho capito che era molto complessa. Il  personaggio si evolve e cambia, ma quello che non cambia è che si tratta di una persona che non conosce se stessa. E non è necessario essere la direttrice della più grande orchestra del mondo per sperimentare queste contraddizioni».

Nina Hoss è stata spesso definita “la Cate Blanchett tedesca”. Il regista aveva visto il suo lavoro come violinista in The Audition, di Ina Weisse. «Non vengo dal mondo della musica, ma sono in grado di suonare il pianoforte, e ho studiato violino, questo mi ha aiutata. Abbiamo lavorato con la filarmonica di Dresda, sono stati molto aperti e ci hanno aiutate. È stato un processo di assorbimento molto speciale».

Noemie Merlant è un’attrice e regista molto quotata in Francia, e non solo.

«Non conoscevo questo mondo un po’ folle e molto maschile. È stata un’esperienza forte, essendo tutte donne. Francesca, il mio personaggio, vuole diventare come Lydia, ma per ora fa altro. Quindi rappresento tutti gli aspetti di chi ama la musica senza aver mai toccato uno strumento. Ho cercato di rappresentare lo sguardo di questa donna che è nell’ombra ed è paziente. Non si capisce se sia un’eroina o la cattiva della situazione, perché controlla Lydia. Da attori noi stessi siamo strumenti, io osservavo Cate mentre creava Lydia davanti a me. La guardavo trasformarsi, e allo stesso tempo anche Francesca osservava Lydia, nel film».

Cate Blanchett aveva già interpretato una storia d’amore al femminile, in Carol. Ma oggi il mondo Lgbt è molto più al centro dell’attenzione di allora, soprattutto in Usa. «Prima di Carol non c’erano film di quel tipo. La donna o si uccideva o veniva redenta dall’amore di un uomo. Mentre giravamo era semplicemente qualcosa che era diventato necessario. Passato al pubblico, è diventato esplosivo».

Però secondo Blanchett l’arte  non è uno strumento educativo. «Le persone possono essere ispirate, o offese, questo va al di là del controllo di chi crea un’opera. Come specie umana siamo abbastanza maturi da guardare Tar senza  fare del sesso e del genere l’aspetto più importante. Solo quando abbiamo iniziato a fare le conferenze stampa ci siamo accorte di essere un cast per la quasi totalità femminile. Todd Haynes ci ha detto “di fatto non esiste un’orchestra tedesca guidata da una donna, è un mondo molto patriarcale. Se questo cambiamento succederà, normalizzerà l’arte stessa”. Al momento non avevo riflettuto su questo aspetto».

Ha esperienza diretta delle dinamiche di potere tra maschile e femminile. «Da quando ho iniziato a lavorare io le cose sono cambiate molto. Allora mi dissero “goditi i prossimi cinque anni, poi le cose cambieranno…”. La vita dell’attrice finiva presto. Oggi è importante relazionarci con i nostri fratelli a Hollywood, che possono svolgere insieme a noi un bel lavoro».

Merlant  non crede Tar sia un film femminista. «Piuttosto il suo intento è far nascere domande sulle dinamiche di potere, e su come sia trovarsi in una posizione così alta della propria carriera in cui devi lottare molto di più, in quanto donna. Inoltre vediamo cosa succede nel momento in cui  il sogno diventa realtà, dirigere Mahler, e occorre vedersela con il processo della creazione, che può arrivare a divorarti. Lo trovo un modo di condurre alla riflessione molto arguto».

Nina Hoss allarga ancora di più lo sguardo. «Questa visione di una donna al potere non permette di correre così velocemente a trarre conclusioni, come faresti se fosse un uomo, perché crediamo di sapere già tutto. Qui occorre più tempo per giudicare. Una donna arriva al vertice essendo un’artista favolosa: cosa la rende all’improvviso una persona diversa? Cosa le succede, e cosa succede al mondo che la circonda, che la spinge in una certa direzione?».

La coppia lesbica al centro, inoltre, non è un problema per la società che la circonda. «Questo è davvero un modo nuovo di porre la questione, significa che il mondo è cambiato. Mentre nel mondo che Lydia affronta fuori, c’è ancora molto da fare».

Di solito Nina Hoss ha un ruolo da protagonista. Se si chiede perché abbia accettato un ruolo più marginale risponde: «Qui è diverso, ma ho accettato perché la protagonista era Cate. Il mio personaggio, Sharon, non è solo una donna innocente e gelosa: ama Lydia per il genio che è, e gode anche del potere che una coppia simile ha in quel mondo. Quindi sa come manipolare, sa di essere la roccia per lei e conosce le insicurezze della sua compagna. Ho cercato di rendere queste sottigliezze. Per il resto ho suonato davvero, nel film. Il mio è un lavoro in cui ti senti davvero un’impostora. Trascorrendo settimane in una vera orchestra, come minimo dovevo avere rispetto di quei professionisti, conoscere i pezzi, sapere cosa stavo facendo. Questo percorso ha creato una dinamica molto nuova: abbiamo ricreato  la musica di Mahler, e ci è voluto molto lavoro. Ma credo che lo spettatore se ne accorgerà».

Articolo pubblicato su Panorama del 25 gennaio 2023

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Robin Wright, «Io ballo da sola»

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DOPO AVER MESSO LA GIUSTA DISTANZA DAL SUO TERZO DIVORZIO, L’ATTRICE E REGISTA AMERICANA È CONCENTRATA SUL LAVORO. CON UN FILM ACCANTO A TOM HANKS, UNA SERIE TV IN CUI TORNA AL PRIMO AMORE, LA DANZA. E UNA LEZIONE DI VITA CHE HA FATTO PROPRIA: «SII IL CAMBIAMENTO CHE VUOI VEDERE».

di Cristiana Allievi

L’attrice e regista americana Robin Wright in un incontro aperto al pubblico al Matera Film Festival (foto di Gor Monton).

Ho di fronte a me la Jenny amata da Forrest Gump. Ha occhi color blu cupo e un fisico molto tonico evidenziato dai jeans neri indossati con tacchi alti. È di una bellezza che quasi intimorisce. La incontro poco dopo l’ufficializzazione della sua separazione dal terzo marito, Clement Giraudet, 37 anni, manager di Saint Laurent, di solito non un buon momento per un’intervista. Ma Robin Wright sfoggia una calma olimpica e trovarci al Matera Film Festival, nei luoghi di Wonder Woman, aiuta. «Dalla finestra della mia stanza all’hotel Sant’Angelo vedevo il set e mi dicevo “per le prossime due ore non avranno bisogno di me…”, e scappavo da sola in giro per la città. È un posto che lascia senza fiato», ricorda. «Quando la regista Patty Jenkins mi ha chiesto “vuoi essere la regina delle Amazzoni?” ho risposto sì ancora prima di leggere la sceneggiatura».  Figlia di una commessa di cosmetici e di un dirigente farmaceutico separati da quando aveva due anni, Robin è diventata modella a 14, poi attrice. La fama è arrivata con The princess bride a 21 anni, e si è ingigantita quando è diventata moglie di Sean Penn poco dopo che lui aveva lasciato Madonna.  Oggi Robin Wright è una regista e produttrice rispettata, eccelsa nell’arte di difendere la sua privacy, anche con il sorriso.

Sta per iniziare le riprese del nuovo film di Robert Zemeckis, Here, con Tom Hanks, a 22 anni di distanza dal gioiello che vi ha uniti. Poi tornerà alla regia con una serie tv. «The Turnout è tratto da un bestseller, ho chiesto alla sua autrice Megan Abbott di curare un adattamento per il cinema.  Reciterò anche io, e tornerò al mio primo amore. Fra i 12 e 17 anni avevo in mente solo una cosa: andare a New York per danzare a Broadway».

Che stile ballava? «Ero una ballerina di classic jazz, ha presente il musical All that jazz? Quello era il mio genere».

Com’è diventata modella?  «Un agente mi vista pubblicizzare un succo famosissimo in America, Capri Sun.  Eravamo molte danzatrici, mi ha chiesto se volevo recitare. Le ho risposto che ero molto timida, lei mi ha insegnato tante cose ed è diventata la mia agente».

E lei ha rinunciato al sogno di ballare? «All’epoca ho creduto che l’unico modo per farlo avverare sarebbe stato trasferirmi a New York e mantenermi facendo la cameriera mentre tentavo la strada della danza senza nessuna garanzia. Questa donna mi ha procurato audizioni, Santa Barbara è stato il mio primo lavoro serio, avevo 19 anni».

In quella soap ogni uomo che passava la faceva soffrire. Se penso che anni dopo David Fincher l’ha scelta per The house of cards nel ruolo di Claire Underwood, spietata first lady,  mi chiedo quante altre donne ha trovato dentro di sè, fra quei due estremi. «Bella domanda. Oggi le risponderei “non abbastanza”. Ricordo che a 26 o 27 anni mi hanno offerto il ruolo di una cantante molto seduttiva in un night club».

E…? «Mi sono spaventata, credevo che per essere credibile avrei dovuto essere voluttuosa, avere un gran seno, mentre io sono magra e alta».

Un bel problema. «(ride) Voglio dire che ero troppo spaventata per credere di potercela fare, come attrice. Mi ci sono voluti anni e tempo di fronte alla macchina da presa, per infrangere la barriera della paura».

(…continua)

Intervista integrale pubblicata su Donna Moderna del 2 febbraio 2023

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Hong Chau, oceani e Balene

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Dal Vietnam ad Hollywood, la protagonista di The Whale punta all’Oscar con un film molto drammatico. Poi sarà la volta di Wes Anderson e Ralph Fiennes

di Cristiana Allievi

L’attrice vietnamita naturalizzata statunitense Hong Chau, classe 1979. Candidata agli Oscar per The whale, di Darren Aronifsky,

Ha un volto che resta impresso nella mente. Ma soprattutto, Hong Chau ha una vita degna di un romanzo picaresco. I suoi sono scappati dalla guerra in Vietnam nel 1979, la madre era incinta di lei e il fratello aveva cinque anni. La notte della fuga suo padre è stato ferito e ha sanguinato per tre giorni, non bastasse, durante il viaggio in mare sono stati derubati due volte dai pirati, prima di essere portati in salvo in Tailandia da una barca di pescatori giapponesi. Poco dopo, è nata lei in un campo profughi. Non stupisce che qualsiasi cosa faccia lasci il segno. È successo in Downsizing, Vivere alla grande di Alexander Payne (ma aveva già lavorato con Paul Thomas Anderson in Vizio di forma e nella serie tv Big Little Lies), e si ripeterà dal 23 febbraio con The whale di Darren Aronofski (I Wonder Pictures), con un ruolo per cui è stata nominata ai Bafta. Nella storia tratta  dall’opera teatrale di Samuel D. Hunter, è Liz, la storica amica di Charlie,  “la balena” a cui si riferisce il titolo. Brendan Fraser interpreta l’uomo in grande sovrappeso, un solitario insegnante di inglese la cui vita è andata completamente fuori rotta. Lo assiste in tutto, incluso il tentativo di riavvicinarsi alla figlia adolescente, diventata quasi un’estranea.

Una manciata di film significativi, ed è già da Aronofsky: ha un segreto? «Il mio agente mi ha detto che era interessato a me per il film. Ho pensato che non ce l’avrei mai fatta, e il personaggio non era nemmeno scritto per un’asiatica».

È scappata? «Avevo partorito da otto settimane e mia figlia non dormiva mai. Ero stanca, ho chiesto il favore di non farmi nemmeno provare (ride, ndr)».

E invece… «Sei sicura che non te ne pentirai? È Aronofsky” è stata la frase con cui mio marito mi ha spinta a leggere la sceneggiatura. Ho girato alcune scene e le ho spedite a Darren».

(continua…)

Intervista integrale pubblicata su D la Repubblica del 4 Febbraio 2023

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Colin Farrell, l’Oscar del cuore

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È A UN PASSO DALLA SUA PRIMA STATUETTA, MA A 46 ANNI INSEGUE ANCORA L’OBIETTIVO PIU’ IMPORTANTE PER LUI: «ESPRIMERE CON ONESTA’ E AMORE I MIEI BISOGNI, NELLE RELAZIONI SENTIMENTALI, CON GLI AMICI, CON I MIEI FIGLI». PER FARE PRATICA INTERPRETA UN EREMITA A CUI È RIMASTO SOLO UN ASINO

di Cristiana Allievi

Intervista all'attore Colin Farrell che racconta la sua vita, i suoi figli e la sua esperienza nel film Gli spiriti dell'isola.
L’attore irlandese Colin Farrell, 46 anni, vicino all’Oscar per la sua interpretazione in
Gli spiriti dell’isola (courtesy F Magazine).

Da una parte concede pochissime interviste. Lo fa per non rileggere ogni volta un passato che si è impegnato molto a lasciarsi alle spalle. D’altro canto però, l’uomo che ha flirtato per vent’anni con i guai (alcol e droghe, paparazzi e video hard finiti in rete), quando parla è un torrente impetuoso, pieno di mulinelli, gorghi e vortici. Colin Farrell è un uomo ricco di vita e di cose belle da condividere, e il giorno della nostra intervista è vestito con colori chiari, ha i capelli corti ed è di ottimo umore.
L’uomo che è stato così paparazzato da decidere di indossare una maglietta con la scritta “Leave Colin Alone” – un successo tale da diventare una linea di abbigliamento  – oggi è arrivato a una verità importante, che lo rende anche più maturo: «la solitudine è sempre più essenziale per me, e l’ho scoperto grazie alla pandemia». Proprio nella solitudine di Inishmore Island, la più grande isola dell’arcipelago irlandese delle Aran, ha girato il film che gli è già valso la Coppa Volpi a Venezia e un Golden Globe, e con molta probabilità a marzo lo porterà a vincere il suo primo Oscar.  Gli spiriti dell’Isola racconta la vita  in un luogo in cui non c’è molto, a parte tanta erba verdissima, un pub e una comunità chiusa e bigotta. In questo scenario Padraic (Farrell) è un uomo che si prende cura da anni del suo asino, e Colm (Brendan Gleeson) è l’amico di una vita che all’improvviso non vuole più né vederlo né parlare con lui.

«Non ti voglio più bene», «Non sono più tuo amico» sono frasi che feriscono profondamente. Cosa pensa di una comunicazione così diretta?


Credo che le persone usino un linguaggio “brutalmente onesto” per giustificare il loro essere crudeli e meschini. D’altro canto trovo ci sia anche una bassezza nel non comunicare la verità di quello che sentiamo.
In questo cammino verso la comunicazione dei propri sentimenti, lei a che punto è?
Anche se ho 46 anni, sto ancora imparando a esprimere i miei pensieri e i miei bisogni, e vale per le amicizie, le relazioni sentimentali e quelle con i miei due figli. Voglio essere onesto ed esprimermi con amore, ma questo non rende le cose più facili, al contrario.


La cosa più importante che ha capito delle relazioni umane?


Troppo spesso ci dimentichiamo che la responsabilità di un rapporto ricade al 50 per cento su di noi: se manchiamo questo concetto, perdiamo il punto.


Tagliare fuori una persona, o una situazione, o cercare di trasformarla dall’interno: quale via sceglierebbe?


Non sono un grande fan degli opposti,  del “giusto” e “sbagliato”. Siamo tutti d’accordo sul fatto che non sia indicato fare coscientemente del male a qualcuno e godere del dolore causato. Ma credo anche che a volte, se faccio davvero la scelta migliore per me non è detto che questa sia in sintonia con quello che le persone della mia vita  vorrebbero. ¶


Un equilibrio delicato.

(continua…)

Intervista integrale pubblicata su F Magazine del 7/2/2023

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Rebel Wilson, «Ho perso peso, non carisma»

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«MANGIAVO SEMPRE, LA MIA ERA UNA FAME EMOZIONALE». DAL LOCKDOWN L’ATTRICE SI LASCIA ALLE SPALLE 40 CHILI. E SVOLTA: SI INNAMORA DI UNA DONNA, DIVENTA MAMMA, INTERPRETA UN FILM CHE FA (ANCHE) COMMUOVERE

di Cristiana Allievi

L’attrice e comica australiana Rebel Wilson, 42 anni.

Mettiamola così, se non avessimo avuto un appuntamento non credo che l’avrei riconosciuta. La regina di commedie hollywoodiane patinate come Le amiche della sposa e Pitch Perfect, con cui l’abbiamo scoperta, è distante mille miglia dalla donna che ho davanti. Siamo in un hotel di lusso a Zurigo, lei indossa una camicia in chiffon nero con pantaloni e tacchi di vernice in tinta. Il suo corpo è letteralmente la metà di quello quell’amica simpatica e in sovrappeso da cui tutti andavano a consolarsi a cui ci aveva abituati. L’anno della svolta è stato il 2020, quando ha iniziato a perdere i primi dei 40 chili che si è lasciata alle spalle. Mentre cercava un fidanzato, si è innamorata di Ramona Agruma, imprenditrice californiana con cui fa coppia dallo scorso febbraio. E pochi giorni fa, a completare questa specie di rivoluzione copernicana, è arrivata Royce Lilian, la figlia avuta con la maternità surrogata. Anche il cinema risponde a questo forte cambiamento, e dal 16 dicembre arriva The almond and the seahorse su piattaforma (Prime Video), che ha presentato all’ultimo Festival di Zurigo con la coprotagonista Charlotte Gainsbourg. È la storia drammatica (ma raccontata con leggerezza) di due coppie in cui un partner è affetto da una lesione cerebrale traumatica, e con il passare del tempo non riconosce più chi ha accanto e non ricorda la vita insieme.

Un bel salto, dalle commedie a cui ci aveva abituati. «In realtà con questo ruolo ritorno agli inizi, quando volevo diventare la prossima Judi Dench e mi esibivo a teatro con Shakespeare e Marlowe. Solo nel 2003, quando ho vinto una borsa di studio di Nicole Kidman, mi sono specializzata nella commedia, a New York».

Conosceva la malattia di cui parla il film? «Non sapevo molto ma ho avuto una nonna che ha sofferto di demenza senile e pian piano si è dimenticata di chi fossi, è stato tragico. Da quando ho girato il film non sa quante persone mi hanno detto “mio cugino ha avuto quella malattia…”, “mio marito ne soffre…”, è stata una scoperta».

Fra le altre cose, questo film ci mostra quanto non vogliamo che le cose cambino. «Il mio personaggio è un’archeologa, una metafora di tutte quelle persone che vorrebbero che il mondo tornasse a com’era prima della pandemia.  Io non mi sento bloccata nel passato, sono fra i pochi che non vorrebbero mai tornare ai tempi del liceo».

(continua…)

Intervista esclusiva pubblicata su F del 6/12/2022

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Timothée Chalamet, Fame d’amore

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CHE SIA IL GIOVANE DIVO PIU’ TALENTUOSO (E GLAM) DI HOLLYWOOD, NON SI DISCUTE. CHE SI METTA ALL A PROVA DI CONTINUO, NEMMENO. OGGI LO FA NELL’ATTESO BONES AND ALL, DI LUCA GUADAGNINO, DOVE È UN VAGABONDO ALLA RICERCA DEL PROPRIO POSTO NEL MONDO. TRA ROMANTICISMO E HORROR

di Cristiana Allievi

L'attore e produttore Thimothée Chalamet, protagonista di Bones and All di Luca Guadagnino.

Pensando a lui, ci sono almeno due momenti difficili da dimenticare.  Il primo è il pianto della scena finale di Chiamami col tuo nome, il film del 2017 di Luca Guadagnino in cui interpretava Elio, adolescente che si innamora di uno studente universitario americano ospite del padre, e quel ruolo insieme delicato e tormentato gli è valso la prima nomination agli Oscar, a soli 22 anni. Il secondo è  il debutto alla mostra del cinema di Venezia: era il 2019, lui presentava The king, storia in costume del giovane Enrico V d’Inghilterra, e sul red carpet è arrivato con un completo grigio perla con fascia in vita di Haider Ackermann. Paradossalmente due momenti in cui ha segnato un nuovo modello di mascolinità, al passo con questi tempi fluidi.  Oggi Timothée, a 26 anni, ha il curriculum di un divo consumato, forse anche grazie all’aiuto di Leonardo DiCaprio che nell 2018, in una specie di consegna del testimone si era raccomandato:  “niente droghe e niente film di supereroi”. Lui ha avuto l’intelligenza di seguirlo, alternando film d’arte come Lady Bird e The French Dispatch, a titoli sbanca botteghino come Don’t look up e Dune, (di cui sta girando la seconda parte a Budapest). Oggi è il più desiderato, a Hollywood e dalle case di moda, senza mai aver fatto una campagna pubblicitaria: basta che indossi un capo scintillante (vedi anche l’ultimo red carpet di Venezia, con la blusa rosso fuoco sempre di Ackermann e la schiena completamente nuda), e sui social si scatena una febbre da rockstar.  Padre giornalista francese, madre americana, ha per mentore Luca Guadagnino, che lo ha diretto di nuovo in Bones and all, in Concorso al Lido e nelle sale dal 23 novembre,  di cui Chalamet è anche produttore. «Ha portato molte idee sul suo personaggio», ha dichiarato Guadagnino, «dimostrando di essere diventato un uomo».

Ha solo 26 anni ma… ricorda qual era il suo sogno di adolescente? «Lavoravo alla serie tv Homeland: caccia alla spia, e iniziavo a muovere i primi passi in teatro a New York. Il mio obiettivo era molto realistico, riuscire a mantenermi con la recitazione facendo qualche serie tv…».

Invece due anni dopo era  sul set di Interstellar, con McCounaughey. «Matthew mi ha colpito per la sicurezza di sé che trasudava sul set. Posso dire lo stesso di Christian Bale, che ho incontrato per anni dopo in Hostiles: ostili. Quando mi ha chiesto di ripetergli il mio nome, per memorizzarlo, non sono riuscito a rispondergli. Ero paralizzato, non mi usciva la voce».

Ora però Luca Guadagnino dice che lei è diventato un uomo.  «Girare di nuovo con lui una storia d’amore come Bones and All è stato un regalo. È ambientato nel 1980 in un’America ai margini. Ho cercato di immaginare cosa significasse essere lì senza telefoni, senza Google, ed entrare in quello che possono aver attraversato  Lee  e Maren (Taylor Russell, ndr). La loro è una storia di solitudine che ti fa andare fuori di testa e che assomiglia molto a quella che abbiamo vissuto nel lockdown, quando senza connessioni  sociali si è allentata la nostra comprensione di chi siamo nel mondo».

(continua…)

Intervista integrale pubblicata su Donna Moderna del 17 Novembre 2022

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