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Cristiana Allievi

~ Interviste illuminanti

Cristiana Allievi

Archivi Mensili: Maggio 2018

Alba Rohrwacher: «Un giorno imparerò a gioire».

29 martedì Mag 2018

Posted by cristianaallievi in cinema, Cultura, Festival di Cannes

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Alba Rohrwacher, Alice Rohrwacher, Cannes 2018, cinema, Cristiana Allievi, Grazia, Lazzaro Felice, Personaggi, Troppa Grazia

SULLA CROISETTE ALBA HA VINTO DUE VOLTE: CON IL FILM DIRETTO DALLA SORELLA E CON TROPPA GRAZIA. EPPURE LEI NON RIESCE ANCORA AD ABBANDONARSI AL SUCCESSO

Cannes, Maggio 2018. Entro nella suite all’Hotel Carlton che affaccia sul mare della Croisette. Mi saluta con gentilezza, e una volta che mi sono accomodata sulla poltrona mi chiede se voglio un caffè, che mi prepara lei stessa. La sera prima del nostro incontro Lazzaro Felice (nelle sale dal 31 maggio) il film diretto dalla sorella Alice e passato in Concorso al Festival di Cannes, ha avuto una standing ovation di 10 minuti. Lei, che è fra i protagonisti, è ancora emozionata. Non sa che a breve il film vincerà il premio per la miglior sceneggiatura e che anche l’altro lavoro presente a Cannes, Troppa grazia, di cui è protagonista assoluta, sarà votato miglior film della Quinzaine. Insomma, ho di fronte a me la vera protagonista del Festival più importante del mondo, che è stata anche sul tappeto rosso con Cate Blanchett in una simbolica Montèe des marches, a “chiedere” un cambiamento della condizione delle donne nel cinema. Del resto è una della attrici più talentuose che abbiamo, e ultimamente il cinema francese ce la scippa volentieri, vedere alle voci La meccanica delle ombre e I fantasmi d’Ismael. Non parla, quasi sussurra, tanto che farò quasi fatica a riascoltare le sue parole nel registratore. Ma non importa, perché a rimanermi nel cuore, di Alba, sono i sorrisi, che quando si palesano le fanno strizzare gli occhi, proprio come fanno i gatti.

Come l’ha fatta sentire l’accoglienza del pubblico? «Non dimenticherò mai la sensazione alla fine della proiezione di Lazzaro felice, è stata straordinaria. E avrebbe dovuto succedere tante altre volte, perché le cose mi sono andate molto bene, sono fortunata. Invece l’unica volta che mi sono sentita come ieri sera è stata dopo Hungry Hearts».

Cosa mi sta dicendo? «Che devo, voglio imparare a gioire delle cose belle. Per me è difficilissimo e so che è un limite».

Perché fatica a gioire dei successi? «Penso sempre di non meritarmeli, è il mio carattere».

Nel caso di Hungry Hearts c’era  anche la regia del suo compagno, Saverio Costanzo… «Ricordo di aver avuto una sensazione molto chiara, mi sono svegliata la mattina e ho detto “sono felice, e non è un peccato esserlo”. Ho capito che me ne dovevo prendere la responsabilità».

(continua…)

Intervista pubblicata su Grazia n. 23 del 24/5/2018

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Matteo Garrone e il suo Dogman, un film da Palma d’oro

23 mercoledì Mag 2018

Posted by cristianaallievi in Cannes, Festival di Cannes, Senza categoria

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cinema, Cristiana Allievi, Dogman, Edoardo Pesce, Festival di Cannes, Marcello Fonte, Matteo Garrone

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Marcello Fonte in Dogman, il film per cui ha vinto il premio come miglior attore protagonista all’ultimo festival di Cannes. 

Un lavoro classico e potente, che finisce dritto nella rosa dei potenziali vincitori della Palma D’Oro

Anticipato da un tappeto rosso che ha visto sfilare anche Nicoletta Braschi e Roberto Benigni, e concluso con una standing ovation di 10 minuti (ripetutasi all’ingresso del regista e del cast in sala stampa), il film apre con un primo piano sui denti di un cane feroce che viene placato e lavato dal mite protagonista. Una scena che racchiude l’essenza della storia che vedremo, quella di un uomo che deve sopravvivere in una periferia popolata da belve, che non sono, però, gli animali di cui si occupa per professione e a cui allude il titolo, ma i consimili che lo circondano.

Marcello è un uomo di piccola statura che porta avanti un salone di toelettature per cani, faticosamente messo in piedi in una periferia malfamata, un luogo che sembra un po’ un asfissiante e che il regista ha trovato (di nuovo) in un angolo disabitato di Castelvolturno. La vita del protagonista è semplice e scandita dalla passione con cui cura e pulisce gli animali – cuccioli e cani adulti dalle razze e dalle taglie più svariate che arrivano nel suo negozio -, l’amore profondo che lo lega a sua figlia Alida e la vita squallida del luogo in cui domina la personalità violenta e terrorizzante di Simone, un ex pugile che tiene in pugno la zona. Gli altri abitanti del luogo, stufi dei soprusi, iniziano a mormorare che bisogna liberarsi di Simone, ma Marcello sembra non sposare la loro idea e rimanere fedele a quel piccolo mostro che gli è famigliare da sempre.

«Come è capitato spesso nei miei film, anche all’origine di Dogman c’è una suggestione visiva, un’immagine, un ribaltamento di prospettiva: quella di alcuni cani, chiusi in gabbia, che assistono come testimoni all’esplodere della bestialità umana. Un’immagine che risale a 13 anni fa, quando per la prima volta ho pensato di girare questo film», racconta il regista romano, classe ’68, amatissimo a Cannes.
Era stato sulla Croisette nel 2002 con L’imbalsamatore, nella sezione Quinzaine, poi per la prima volta in Concorso con Gomorra, nel 2008, con cui vinse il Gran Prix, e di nuovo nel 2012 e nel 2015, con Reality e Il racconto dei Racconti.

«La storia è cambiata molto negli anni, insieme a noi, e siamo arrivati a fare questo film e a raccontare Marcello, ampliando molto la storia e dandole un senso più profondo e umano. Il protagonista resta incastrato dentro meccanismi di violenza, dentro un incubo, e riesce fino alla fine, al suo meglio, a non trasformarsi in un mostro ma a rimanere in qualche modo una vittima della macchina. È molto naif, innocente, e la sua umanità è la forza del film».

Dogman non è soltanto un film di vendetta, insiste Garrone, a cui in piena conferenza stampa squilla il cellulare («non sono fortissimo con la tecnologia, pensavo di aver messo la modalità aerea»), anche se la vendetta gioca un ruolo importante, così come non è soltanto una variazione sul tema (eterno) della lotta tra il debole e il forte. «È invece un film che, seppure attraverso una storia estrema, ci mette di fronte a qualcosa che ci riguarda tutti: le conseguenze delle scelte che facciamo quotidianamente per sopravvivere».

Gli attori sono di una bravura straordinaria. Il protagonista, Marcello Fonte, ha «il volto antico che sembra arrivare da un’Italia che sta scomparendo», dice Garrone, che si sta preparando a girare Pinocchio con Toni Servillo. «Mi ha sempre ricollegato molto a uno dei miei grandi miti del passato, Baxter Keaton, è riuscito a portare al film, soprattutto nella prima parte, momenti di comicità. Quindi un personaggio che abbiamo completamente reinventato rispetto al fatto di cronaca, che è stato molto cruento, soprattutto per quanto riguarda la tortura».

Le vicende del film sono liberamente ispirate ai fatti del 16 febbraio 1988, quando Pietro De Negri, il “Canaro della Magliana”, uccise brutalmente l’ex pugile dilettante Giancarlo Ricci, dopo averlo rinchiuso in una gabbia per cani. Ma come sempre accade, Garrone allarga lo sguardo rispetto all’ispirazione da cui parte e la trasforma in una metafora universale, in questo caso della perdita dell’innocenza.
Edoardo Pesce è quasi irriconoscibile, trasfigurato dalla cattiveria. E accanto a lui Marcello diventa ancora più significativo, con il suo incarnare una forma di innocenza in grado di “reggere” la brutalità dell’antagonista. Finché non accade qualcosa che va oltre il sopportabile: a quel punto Marcello avrà un’idea che lo spettatore (che non conosce i fatti di cronaca) non si aspetterebbe.
A questa storia che, alla fine, mostra un mondo gelido che rimane sempre uguale, addirittura quasi indifferente, danno un tocco straordinario le luci e la fotografia a cui ha lavorato il danese Nicolaj Bruel.

Articolo pubblicato su GQ.it

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Cold War, l’amore (scolpito nel jazz) ai tempi della Guerra Fredda

12 sabato Mag 2018

Posted by cristianaallievi in Cannes, cinema, Cultura, Festival di Cannes, Politica

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Cannes 2018, cinema, Cold War, Cristiana Allievi, GQ Italia, Pawlikowski, recensione

Tutti i pregi del film che a oggi pare il migliore visto al Festival di Cannes 2018

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Una scena del film di Pawlikowski, in corsa per la Palma d’Oro al 71° Festival di Cannes. 

Siamo nel Dopoguerra, in Polonia. Fra le rovine di una chiesa ortodossa c’è un coro che canta. Un uomo e una donna, pianista e direttore d’orchestra lui, lei cantante e ballerina, si scambiano uno sguardo che cambierà le loro vite. Appartengono a due classi sociali diverse, e i tempi sono quelli durissimi della Guerra Fredda a cui allude il titolo. Ma nonostante gli ostacoli, le relazioni che entrambi hanno con altri, e un mondo che continua a cambiare intorno a loro, sono irresistibilmente attratti uno dall’altra. Vivranno una storia d’amore impossibile, viaggiando dalla Polonia a Berlino, dalla Jugoslavia a Parigi.

Questa la trama di Cold War di Pawel Pawlikowski (traduzione letterale di “Zimna Wojna”), passato in Concorso al festival di Cannes: ottantaquattro minuti di straordinaria bellezza per cui si parla già di Palma d’Oro. Perché ogni fotogramma di questa coproduzione fra Polonia, Inghilterra e Francia, è un’immagine destinata a restare scolpita per sempre nella mente dello spettatore.

«È una storia a cui ho lavorato per un decennio. Spesso scrivo cose e le metto da parte, poi ci torno su», ha raccontato il regista polacco, premio Oscar per Ida. Nato a Varsavia, ha lasciato la Polonia a 14 anni, girato per Inghilterra, Germania e Italia, fino a stabilirsi nel Regno Unito nel 1977. «Ho vissuto in tutto il mondo, ma quando sono tornato nella mia terra, nel 2013, mi sono accorto di quanto fosse rimasta dentro di me. È importante lasciare la propria casa in una prima fase di vita, per poi tornarci nella seconda parte», racconta Pawlikowski, che ha studiato Lettere e filosofia a Londra e Oxford.

La sua scelta di ambientare una storia d’amore nel Dopoguerra non è casuale. «Il periodo storico mi ha facilitato nel creare degli ostacoli, e poi la gente al giorno d’oggi è molto distratta, c’è troppo rumore intorno a noi, è difficile immaginare che se una persona si innamora, il resto del mondo scompare. Mentre all’epoca la vita era più grafica, più chiara». Il film inizia nel 1949 e racconta 15 anni di vicende, è in bianco e nero e ha uno stile piuttosto classico. «Sono cresciuto con i film degli anni Cinquanta e Sessanta, è inevitabile. Non volevamo ripetere l’estetica di Ida (sempre in bianco e nero, e curata dallo stesso direttore della fotografia, Lukasz Zal) ma i colori non erano previsti perché in Polonia la natura non ne ha. Prima abbiamo pensato a qualcosa di “sovietico”, poi ha prevalso il bianco e nero, che è molto metaforico, ma lo abbiamo reso più drammatico di quello del mio lavoro precedente, contrastandolo. E poi l’eroina della storia è una donna molto agitata, la macchina si muoveva molto, c’è tanta energia».

I lunghi tempi di lavorazione non meravigliano, considerata la visione del cinema dell’autore. «I film non sono una storia, ma un pezzo d’arte, è normale che prendano molto tempo. Mentre giro voglio scolpire le scene, so che è frustrante per degli attori avere qualcuno che sta così tanto sull’immagine, ma tengo molto a curare la sincronia fra l’azione, l’immagine, la fotografia e la musica. È doloroso, specie per i produttori, perché il processo dura una vita, ma questa è la mia idea di cinema».

I due magnifici attori che interpretano Wiktor e Zula sono Tomastz Kot– volto di più di 30 film in Polonia- e Joanna Kulig, attrice dei precedenti due film di Pawlikowski, Ida e The woman in the fifth. «Sono cresciuta in montagna, in Polonia, e lì si canta molto, questo aspetto è stato facile per me. Mentre danzare, specialmente in gruppo, ha richiesto un duro lavoro per un anno, in cui ho studiato con un gruppo folk». Gli attori hanno dovuto lavorare molto anche sull’aspetto della chimica. «Tomastz è molto alto, ho passato mesi sui tacchi mentre lui cercava di rimpicciolirsi», scherza Joanna, «siamo amici e stando molto tempo insieme per le riprese, in tanti luoghi diversi, a volte finivamo per sentirci fratelli. Rendere l’amore che si vede sullo schermo è stato un processo lungo, ogni giorno cambiavamo qualcosa nei dialoghi. Pawel è un regista che fa ripetere le scene molte volte. Ricordo una volta, alle tre di notte, in cui mi sono detta “fai come se stessi meditando, stai tranquilla e ripeti la scena…”».

La musica è un personaggio centrale del film, a partire dal fatto che Wiktor suona il pianoforte e dirige un’orchestra. «Prima del film i tasti erano un mistero per me, ci ho passato molto tempo insieme e alla fine ho persino imparato a suonare Al chiaro di lunadi Debussy», racconta. Tutti i brani che sembra suonare al pianoforte sono in realtà suonati e arrangiati da Marcin Masecki, le altre musiche vanno da Porgy and Bess di Gershwinalle note del Mazowsze folk ensemble, gruppo fondato dopo la guerra e ancora attivo, passando dal lavoro musical etnografico di Marian e Jadwiga Sobieski. «Curo il suono tanto quanto la recitazione», precisa il regista. «In fatto di musica ho gusti molto cattolici, e con l’età divento nostalgico. Adoro il folk polacco ed è vero che uno spettatore può rintracciare anche qualche eco d’Italia, da bambino Celentano e Marino Marini andavano fortissimo in Polonia, e io li ascoltavo».

Il film è attraversato da un certo senso di nostalgia, ma «non è la forza che trascina il film», tiene a sottolineare, mentre racconta anche di sentirsi molto affine alla “Nuova onda” del cinema ceco, soprattutto a registi come Jaromil Jireš a Milos Forman. «Immagini e suoni vengono comunque sempre da qualcosa di antico, dentro di noi. Ed è vero che mi manca un mondo in cui non ci sono tutti questi stimoli, così come la natura che mostro, soprattutto il fiume, è ciò che frequentavo da bambino e che ho riscoperto da grande».

Il capolavoro porta la dedica “ai miei genitori”, che hanno gli stessi nomi dei protagonisti. Morti nel 1989 proprio prima della caduta del muro di Berlino, non sono però esattamente come quelli che si vedono sullo schermo. Ad esempio la madre vera del regista viene da una classe sociale borghese, mentre la donna del film arriva dalla provincia, per lei il Comunismo è una cosa facile e non ha interesse a scappare verso Occidente. «Ci sono molte cose in comune fra la coppia sullo schermo e i miei, soprattutto la dinamica relazionale. Si sono presi e mollati varie volte, in 40 anni, e per me sono sempre stati il soggetto cinematograficamente più interessante. Ma questo film non è il loro ritratto».

Per sapere come è andata a finire fra loro bisogna arrivare all’ultima scena del film, destinata a restare negli annali del cinema. In Italia il film sarà presto distribuito da Lucky Red.

Articolo pubblicato su GQ Italia

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Everybody knows, il quarto film che Javier Bardem e Penelope Cruz fanno assieme

10 giovedì Mag 2018

Posted by cristianaallievi in Cannes, Cultura, Festival di Cannes, Miti

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cinema, Cristiana Allievi, Everybody Knows, Festival di Cannes, interviews, Javier Bardem, journalism, Penelope Cruz

 

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I due attori premi Oscar Penelope Cruz e Javier Bardem nel film che ha aperto ieri il 71° Festival di Cannes, Everybody Knows. 

Non è facile essere il film che apre un festival pieno di polemiche. Non è facile nemmeno fare da apripista a cambiamenti che puntano al futuro ma che, per qualche verso, hanno un non so che di reazionario. Con queste premesse ieri sera Everybody Knows di Asghar Farhadi ha inaugurato il 71mo festival di Cannes. Sul red carpet abbiamo visto sfilare i due divi del film, i premi Oscar Penelope Cruz e Javier Bardem, seguiti dai  membri della giuria della sezione in competizione, con in testa (la divina) Cate Blanchett.

Il film è scritto e diretto da un regista iraniano, ma che non potrebbe essere più spagnolo. Girato poco fuori Madrid, racconta la storia di una donna, Laura (la Cruz) che dall’Argentina torna a casa con i suoi due figli, nel cuore di un vigneto iberico, per il matrimonio della sorella. Il marito è rimasto a casa per questioni di lavoro, e lei qui rincontra parenti e vecchi amori. La sera del matrimonio la luce se ne va. In quel momento scompare nel nulla anche la figlia Irene, mandando Laura in mille pezzi.
Sarà costretta ad affrontare un passato troppo frettolosamente seppellito, o almeno che credeva tale: perché il titolo, “tutti sanno”, ricorda che in un paesino, di segreti, ce ne sono ben pochi.

Il regista è quello che ha vinto l’Oscar con Una separazione, e che con film come Il passato e Il cliente  ci ha abituati a mistero e tensione, oltre che a un’ottima recitazione. In Everybody knowsresta solo quest’ultima, e svaniscono mistero e ritmo, a ricordare quanto sia difficile fare un buon film anche per un rinomato artista come lui. Il passato era stata la sua prima esperienza all’estero con un cast occidentale, questa è la seconda, che vanta anche un grosso budget e una coproduzione che affianca Spagna, Francia e Italia. «Lavoro focalizzandomi sulle cose che la mia cultura ha in comune con le altre», ha raccontato il regista in conferenza stampa. «Al contrario di quello che dicono i media, gli esseri umani non sono diversi per quello che riguarda sentimenti come paura, odio, rabbia, ed è importante insistere su quello che ci accomuna. L’idea del film mi è venuta dopo un viaggio in Spagna di 15 anni fa, ma ci sono voluti quattro anni a svilupparlo e a trasformarlo in una sceneggiatura. Volevo che il mondo nel film fosse più ampio di quello di un piccolo villaggio, ho pensato a personaggi che venivano anche dall’Argentina e dalla Catalogna, e che parlano con accenti diversi».

Questo è il quarto film che vede i Bardem insieme. Si sono conosciuti 25 anni fa sul set di  Prosciutto, prosciutto!, ma si sono sposati solo nel 2010 e oggi hanno due figli. «Ho incontrato Javier a Los Angeles molto tempo fa, mentre Penelope anni dopo, in Spagna, ed è stato chiaro da subito che avremmo fatto questo film insieme».  «In cinque anni ci siamo incontrati spesso il regista», ricorda la Cruz, «e negli ultimi due anni Asghar è venuto addirittura a vivere in Spagna. Ha un modo di lavorare così particolare, ha preso lezione di spagnolo, non dormiva la notte per imparare i nostri dialoghi. Ho un profondo rispetto per lui, è molto umile, fa domande agli attori e li ascolta, per questo è il più grande detector di menzogne, perché comprende le cose». Le fa eco il marito. «Un regista iraniano che non parla spagnolo e gira un film più spagnolo di quelli dei registi spagnoli è una cosa fuori dall’ordinario, vedere qualcuno di un altro paese fare una cosa simile è bellissimo, dimostra che ciò che conta è di cosa si parla, non chi ne parla». Il film tocca il tema della paternità molto da vicino. «Il film è un thriller ma questa è solo una scusa per parlare di certi argomenti e chiedersi cosa farei io al posto del protagonista», continua Farhadi. «La relazione centrale padre-figlia ricorda quella nel Re Lear ma anche quella che c’è in tante famiglie. La domanda che ci si fa è chi è un genitore, colui che tira su una figlia o colui che la concepisce biologicamente?».

Bardem nel film è Paco, vecchio amore di Laura, e diversamente da quanto accade spesso con i personaggi di Farhadi, che agiscono mossi dal senso dell’onore, a muoverlo sono i sentimenti. «L’onore ci fa fare errori, molti crimini oggi vengono commessi per questo. Il mio personaggio è diverso, è bloccato in mille emozioni, vuole fare la cosa migliore per gli altri, non per un senso di orgoglio». Com’è lavorare insieme, da sposati? «Succede di rado, non lo pianifichiamo e non ci portiamo i personaggi a casa», spiega la Cruz. «Quando avevo 20 anni credevo che torturarmi per mesi, restando nel personaggio, servisse. Poi è cambiato l’approccio, ho imparato quanto sia indispensabile salvare alcune cose della vita privata». E Farhadi interviene raccontando la sua ammirazione per i coniugi, soprattutto lontani dai riflettori. «Javier e Penelope hanno un mondo meraviglioso e confini chiarissimi fra set e vita reale. Hanno una famiglia molto semplice, e figli meravigliosi». Qualcuno chiede come costruisce i finali dei suoi film, che hanno tutti la stessa filosofia. «Mi piacciono le storie aperte, voglio che lo spettatore lasci la sala con l’idea che si aprono altri scenari. Non è una strategia cinematografica, mi viene dal cuore, involontariamente finisco con certe conclusioni. E tengo a precisare che questo film ha anche un cuore iraniano, ed è tipico dell’arte orientale e persiana che il creatore sparisca. Accade anche con Kiarostami, non si deve ammirare chi crea la cosa, ma l’opera creata».

Il film è appena stato venduto film in Usa, alla Focus team, ieri è uscito in Francia e ha già registrato un buon successo.  Uscirà in molti paesi e in Italia lo vedremo in autunno, distribuito da Lucky Red.

 

Articolo pubblicato su GQ Italia

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Anastacia: «Ho imparato a volermi bene».

06 domenica Mag 2018

Posted by cristianaallievi in Musica, Personaggi

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Anastacia, Cristiana Allievi, donne forti, Evolution, Grazia, interviste, music, pop music

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La cantante Usa Anastacia, 49 anni (Courtesy Urban Post). 

«Ho cambiato casa discografica, mi sono sposata, ho divorziato, ho avuto il secondo cancro ed è stato davvero un colpo durissimo. Diciamo che sono arrivata a toccare il fondo e ho dovuto ricominciare daccapo». Parole, queste, che mi fanno sobbalzare sulla sedia. Poi faccio due conti, e mi accorgo che gli incontri con Anastacia sono sempre stati di questa intensità. È una donna molto forte, vulcanica, e le interviste con lei vibrano della stessa energia. Mi torna in mente l’ultima volta che l’avevo incontrata, mi aveva detto di aver scoperto il primo cancro al seno grazie alla voglia di ridurlo di due taglie, «mi dava fastidio, anche quando salivo sul palco, e per fortuna grazie a questo mio disagio i medici sono intervenuti subito, asportando il male e riducendomi il seno di un terzo del volume». Credevo fosse tutto, invece dieci minuti dopo, ascoltando i suoi riferimenti temporali,  mi ero accorta che i conti non tornavano: è stato il suo modo di raccontarmi che aveva sempre mentito sulla sua età: «Non ero mai stata in clinica per disintossicarmi, non ero una bad girl, avevo una voce da nera in un corpo da bianca, non sapevano come “etichettarmi”… Mi hanno detto “Vai bene, ma dovresti avere 23 anni…”. Togliermi sei anni è stato l’unico compromesso che ho accettato, e non intendo più farlo». E oggi ride con quella voce portentosa che si ritrova e un timbro che le è valso 30 milioni di dischi venduti, forse più. Le ricordo questi episodi del passato e lei prende la palla al balzo: “la prima parte della storia è sempre la stessa, adesso le racconto la seconda…”. La scusa è l’uscita di Evolution, a 18 anni dal suo debutto discografico, disco che l’artista di Chicago porterà in un tour che passerà presto dall’Italia: prima data a Brescia, il 6 maggio.

Evolution viene dopo Resurrection, una conseguenza logica, in effetti. «Pensi che il mio nome significa proprio “resurrezione”, ma Evolution è stato un passo successivo, un ritrovare davvero me stessa. Nel 2006 mi ero persa nel business, avevo davvero bisogno di staccare la spina perché  dopo il primo cancro avevo corso troppo. Invece non l’ho fatto,  e nel 2013 me ne hanno diagnosticato un secondo tumore, lì sono crollata».

Cambiamenti alla mano, negli ultimi 10 anni lei ha vissuto praticamente tre vite… «Diciamo che sono arrivata a toccare il fondo ( ha contribuito anche il divorzio da Wayne Newton, il suo bodyguard, con cui è stata sposata dal 2007 al 2010, ndr), ho dovuto ricontattare davvero la mia parte femminile e ricostruire tutto di me, eccetto la voce. Mi sono accorta che con il disco precedente stavo cercando di mantenermi occupata, lavorare era un modo per dirmi che non era finita. Adesso sono una donna nuova, anche se questo album contiene ancora elementi del 2007».

Si sarà confrontata con varie paure. «Soprattutto ho dovuto realizzare che non ero una vittima, e che se vuoi essere sana e vivere una vita gioisa devi accorgerti che la maggior parte delle volte l’ostacolo sei tu stessa. Mi sono guardata dentro e ho fatto un inventario di quello che stavo permettendo, mangiando, pensando».

Precisamente? «Mangiavo male, un’italiana come lei inorridirà a sentire che facevo fuori i ravioli direttamente dalla lattina, non ci facevo nemmeno caso. Il problema è che quando hai il morbo di Chrones bruci tutto, quindi mi bastava ingerire calorie, non sapevo di fare cose terribili per il cancro. Oggi sono molto più intelligente col cibo e da cinque anni non bevo più alcol».

Altri aspetti guariti? «Oggi mi accorgo delle cose sbagliate, prima non ero brava a scegliere i collaboratori giusti, e nemmeno gli uomini. Quando sono stata tradita ho scritto nelle canzoni che non me lo meritavo, ma se mi volto indietro vedo che stavo accontentandomi degli scarti, senza saperlo. “Voglio davvero avere il cuore a pezzi?”, mi sono chiesta, e la risposta era no, quindi dovevo cambiare strada».

 Come? «Non ripetendo gli stessi errori, è così che le cose cambiano».

Quando ci siamo incontrate l’ultima volta aveva scritto in una canzone, “non amerò mai più così”, e quando le ho chiesto cosa intendesse dire mi ha risposto che non avrebbe mai più vissuto un sentimento così intenso. «All’epoca ero sposata, quando divorzi scopri più verità rispetto a quello che credevi essere l’amore. Io ho scoperto che quello che avevo davanti non era ciò che desideravo per il futuro, anche se ero più che grata a quella persona: è anche merito suo se sono arrivata fin qui».

 

(…continua) 

Intervista pubblicata su Grazia del 3/5/2018 

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