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Cristiana Allievi

~ Interviste illuminanti

Cristiana Allievi

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Antonio Banderas, «Adesso divento Pedro»

16 giovedì Mag 2019

Posted by cristianaallievi in arte, Cannes, Festival di Cannes, Miti, Personaggi

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Antonio Banderas, Cannes 2019, CAnnes 72, Dolor Y Gloria, GQ Italia, interviste illuminanti, Pedro Almodovar

Nella lunga conversazione avuta con Antonio Banderas a Madrid, l’attore e produttore mi ha parlato della sua esperienza con la morte, per prima cosa. Ovvero di quando, due anni e mezzo fa, ha subito tre interventi al cuore e ha toccato la morte da vicino. Fatto, questo, che lo ha riavvicinato alla vita e che ha lasciato tracce visibili in lui. E mentre l’icona latina di Hollywood faceva i conti con quello squarcio apertosi su qualcosa di vertiginoso, sulla scena della sua vita si ripalesava un mentore. Anzi, il mentore, Pedro Almodovar, a sua volta pronto per un film epocale. È così dopo essere stato Dalì, Pancho Villa, Picasso e Mussolini -solo per citare i personaggi realmente esistiti che ha incarnato- Antonio Banderas si è trovato a interpretare l’uomo che 37 anni prima lo aveva notato, fuori da un caffè di Madrid.  Hanno fatto sei film insieme, Banderas è diventato una star europea. Ma lui voleva di più, voleva Hollywood. Così è volato Oltreoceano, costringendo Almodovar a incassare un duro colpo. E dopo anni di successi clamorosi al botteghino, deve aver sentito il richiamo della profondità dei personaggi di Pedro, così i due si sono ritrovati in Dolor Y Gloria, nelle nostre sale dal 17 maggio, in contemporanea con la proiezione al Festival di Cannes, in Concorso. Una prova di recitazione minimalista ma della massima efficacia, la materializzazione di una connessione fra anime per cui Banderas interpreta Pedro stesso. E per cui, ne siamo certi, entrambi avranno riconoscimenti importanti. La nostra conversazione è avvenuta il giorno dopo la visione di Dolore e Gloria a Madrid.

L’intervista è pubblicata sul GQ Italia, numero Maggio/giugno 2019

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Pierre Niney, «Se ami tuo figlio lascialo libero»

02 martedì Apr 2019

Posted by cristianaallievi in arte, cinema, Cultura, Letteratura, Miti, Moda & cinema

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Charlotte Gainsbourg, diventare genitori, GQ Italia, interviste illuminanti, La promessa dell'Alba, Pierre Niney

Appoggiato al muro accanto a una grande finestra che affaccia sulla Torre Eiffel, mani in tasca, il suo sguardo viaggia lontano. Si capisce che è completamene assorbito dai suoi pensieri. Quando si accorge che è entrato qualcuno nella stanza saluta con modi gentili, e la prima parola che viene in mente incontrandolo, è “elegante”. Non c’entra Yves Saint Laurent, lo stilista che ha interpretato magistralmente qualche anno fa e che gli è valsa un César: Pierre Niney emana la grazia di chi vive un senso diverso del tempo. La sensazione è che non lo rincorra mai, nemmeno quando scava fra i ricordi alla ricerca di sensazioni vissute a 11 anni, quando annunciò ai suoi genitori- critico di cinema e documentarista il padre, consulente d’arte la madre- che avrebbe fatto l’artista. «Per fortuna erano aperti alla creatività, mi hanno incoraggiato a darmi al cento per cento in quello che avrei scelto. Se non lo avessi fatto me ne sarei pentito per il resto della vita», racconta. Nato a Boulogne-Billancourt e cresciuto a Parigi, inizia a recitare da bambino, e a soli 21 anni è il più giovane attore di sempre a unirsi alla Comédie-Française, un’istituzione fondata addirittura da Luigi XVI. Non sorprende sentirlo elogiare Molière e Shakespeare, quanto scoprire che avrebbe voluto fare il giocatore di basket professionista, ma non aveva l’altezza adatta. Ma gioca con il suo club tutte le settimane, da quando era un teenager. Grande colpo di fulmine  anche quello avuto sette anni fa per il surf da onda, scoperto grazie alla compagna australiana, Natasha Andrews. «Ogni volta che posso corro in Portogallo, nello Sri Lanka e a Biarritz. La chiave del surf non è l’allenamento fisico, ma la perseveranza. E il fatto di non poter controllare la marea e le onde ti insegna ad arrenderti alla natura e a contemplare invece di agire. Qualcosa da ricordare anche nella vita…».

I temi cambiano, la riflessione resta  profonda. «Divento molto triste quando sento giovani che vorrebbero diventare attori, pittori o cantanti, ma mi dicono che si iscrivono a Legge o a Economia solo perché i loro genitori non li supportano. È un peccato, le scelte fatte per rassicurare la famiglia non funzionano».

(continua….)

Intervista pubblicata su GQ, n. Marzo 2019

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Pedro Almodovar, «A cuore aperto»

08 venerdì Mar 2019

Posted by cristianaallievi in arte, cinema, Cultura, Miti, Moda & cinema

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cinema, Dolor Y Gloria, Dolore e Gloria, GQ Italia, intervista esclusiva, interviste illuminanti, Mina, Pedro Almodovar, stile, uomini

LA FAMIGLIA È AL CENTRO DEL SUO CINEMA. VENT’ANNI FA HA VINTO A CANNES CON TUTTO SU MIA MADRE. ORA PEDRO ALMODÓVAR ESPLORA LA SUA VITA CON DOLORE E GLORIA

Il regista Pedro Almodovar, 70 anni (foto di Nico Bustos per GQ Italia).

Colpo di teatro di Pedro Almodóvar. Che stesse girando il suo ventunesimo film, Dolor y gloria, si sapeva. Un po’ meno invece sulla storia e la data di uscita nelle sale. Ma all’improvviso annuncia che è tutto pron- to, che il 22 marzo gli spagnoli potranno ammirare il suo lavoro, che a maggio sarà in Italia. Storiona di famiglia, molto auto- biografica. Proprio 20 anni dopo (gli stessi che compie quest’anno GQ), quel Tutto su mia madre che gli fece vincere il premio per la miglior regia sulla Croisette.


Perché questo film adesso? In Italia ci fa pensare a 8 1⁄2 di Fellini. Spero che non mi paragoniate a 81⁄2, perché perderei il confronto. Tutti i miei film mi rappresentano, ma di sicuro Dolore e gloria mi rappresenta più profondamente. Non so perché l’ho scelto proprio ora, ho l’impressione di non aver scelto io il tema del film, ma che sia stato il tema del film a scegliere me. Generalmente non sono consapevole del perché giro un certo film o un altro; sono consapevole della necessità di affrontare determinati argomenti in determinati momenti, ma non dei motivi.

Il suo ottavo film con Banderas dà un’immagine diversa di questo attore?

Secondo me sì. Quando ho lavorato con lui negli anni Ottanta, era molto giovane e quel che mi interessava di Antonio Banderas era la sua passionalità, la follia travolgente che dava ai suoi personaggi. Ora Antonio ha sessant’anni, continua a essere un uomo molto affascinante, ma sul suo viso vedo i due o tre interventi al cuore che ha subito negli ultimi anni, la sua esperienza con il dolore. In Dolore e gloria Antonio offre un’interpretazione per me inedita, gesti mi- nimi, emozioni controllate, una solitudine interpretata con grande economia di risorse. Per me è una sorta di nuova nascita per Antonio Banderas, o quanto meno l’inizio di una splendida tappa di maturità.

E Penélope Cruz sarà sua madre?

Penélope Cruz interpreta la madre di Antonio Banderas negli anni Sessanta, quand’è bambino. Penélope fa nuovamente la casalinga di campagna, in un momento in cui la Spagna non è ancora uscita dal dopoguerra. Per questo il suo look e la sua interpretazione sono molto diversi dalla madre che interpretava in Volver – Tornare.

Nel film c’è una canzone di Mina. Perché ha scelto proprio questa?

La scena si svolge all’inizio degli anni Sessanta e Come sinfonia appartiene a quell’epoca ed evoca la luce e la sensualità dell’estate mediterranea. E inoltre Mina è quasi parte della mia famiglia e io volevo che nel film tutto mi risultasse familiare: gli attori, le opere d’arte che si vedono alle pareti, le canzoni e, naturalmente, le emozioni, le emozioni più profonde.

Non ha studiato cinematografia, ma è diventato uno dei registi più famosi del mondo. Come ha fatto emergere il suo stile?

Quando arrivai a Madrid nel 1969, il generale Franco aveva appena chiuso la Scuola di Cinema. Avevo pensato di studiare lì, ma non essendo possibile, acquistai una videocamera Super 8 e nel corso degli anni Settanta girai molti cortometraggi di diverso minutaggio: 5, 10, 30 minuti; e riuscii anche a girare un film. Questa fu la mia unica scuola e si rivelò molto utile. Il Super 8 non è come il video, il Super 8 è cinema, viene girato in negativo. E io presi molto sul serio sia la parte relativa alla scrittura della sceneggiatura, sia la direzione degli attori e quant’altro. Le mie preoccupazioni principali e le tematiche che avrei affrontato anni dopo erano già presenti in questi film. Lo stile, come ogni processo di presa di coscienza, si scopre con il tempo e ci si arriva – almeno nel mio caso – in modo spontaneo, prendendo decisioni di pancia.

Come il regime di Franco influenzò lo stile degli uomini?

Fino al momento in cui il regime non iniziaa indebolirsi, il modo di vestire, i colori, le acconciature dei capelli degli uomini spagnoli dipendevano da convenzioni sociali molto repressive. Chi non si adeguava, rischiava di finire alla polizia solo per il suo aspetto. C’era pochissimo spazio per coltivare personalità e gusti nel vestire. Nonostante sia stato un Paese intrappolato dalla dittatura, la Spagna cominciò a raccogliere influenze dal resto del mondo dopo il 1965, quando ebbe inizio il processo di sviluppo della nazione. Alla fine degli anni Sessanta irruppe lo stile hippy, soprattutto nelle grandi città, con l’influsso di Carnaby Street. Questo cambiò radicalmente il look dei giovani spagnoli, che divenne più colorato e audace. Chi sognava di lavorare in banca indossava un noioso abito con giacca e cravatta (do- minavano i colori grigio, beige e marrone) e coloro che si sentivano liberi dal consumismo e volevano non solo l’amore libero ma il recupero del rapporto con la natura, si vestivano in un modo ritenuto insolito fino ad allora; inoltre arrivano il pop e la psichedelia. La rottura in termini di look maschile è radicale. Tutti i tipi di stampe possibili e accessori per tutto il corpo. Sono stati gli anni del trionfo della bigiotteria e dei colori e dei tessuti sgargianti e luminosi. Negli anni Settanta, delusi dagli hippies, i giovani spagnoli divennero politicizzati, specialmente nelle università.

(…continua)

L’intervista esclusiva per GQ è sul numero di marzo 2019

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Matthias Schoenaerts, Il cercatore d’oro

18 martedì Dic 2018

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attori, Close Enemies, Cristiana Allievi, giardinaggio, GQ Italia, interviste illuminanti, journalism, Julian Schoenaerts, Matthias Schoenaerts, Mustang, Radegund, Star

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L’attore belga Matthias Schoenaerts fotografato per GQ Italia da Max Vadukul.

DAL PADRE, UOMO DALLA VITA COMPLICATA, HA EREDITATO IL TITOLO DI “MARLON BRANDO FIAMMINGO”. E BASTA: PERCHE’ A MATTHIAS l’ETICHETTA DI ATTORE TORMENTATO NON INTERESSA. PREFERISCE DIPINGERE, CURARE LE SUE PIANTE, PRENDERSI CURA DI SE’. E SFORZARSI DI VEDERE, NELLE PERSONE, SEMPRE IL MEGLIO

«È facile vedere il peggio nelle persone. Io preferisco essere quello che trova l’oro. Non è altrettanto facile, ma è un intento nobile, uno scopo per cui vale la pena fare quello che faccio». Se c’è un’abilità indiscussa in Mattias Schoenaherts è quella di incarnare animali feriti, maschi che vivono tempi duri con se stessi e con gli altri. Lo ha dimostrato sin dagli esordi, da gangstar invischiato nel commercio illegale di carni rinforzate dagli ormoni in quel Bullhead-La vincente ascesa di Jacky che è stato candidato agli Oscar facendo parlare di lui. E di nuovo nei panni di un pugile con un figlio piccolo, in Un sapore di ruggine e ossa: è stato quell’uomo che combatteva per sopravvivere a lanciarlo a livello internazionale e ad assicurargli ruoli di spessore a un ritmo inarrestabile, dal 2012 in poi. Faccia a metà fra Bjorn Borg e Bob Sinclair, all’ultima Mostra di Venezia, dove ha presentato Close Enemies di David Oelhoffen, inizia una conversazione in due tempi proseguita a Parigi, dove è stato scattato il servizio di queste pagine. In entrambe le situazioni arriva in ritardo, e menziona spesso due parole, spontaneità e libertà, che raccontano molto di lui. E che evocano anche quel cocktail esplosivo di eccentricità, disagi psicologici e talento del padre, Julien, star soprattutto del teatro belga, che non ha mai sposato la madre di Matthias, la costume designer Dominique Wiche, mancata due anni fa: cresciuto un po’ da lei ad Anversa, e un po’ dalla nonna a Bruxelles, non meraviglia che a 41 anni declini l’invito a parlare della sua storia famigliare. «Mio padre è morto 12 anni fa, ho fatto pace con una certa parte del mio passato, con cui ho dovuto confrontarmi mentre crescevo».

Aveva nove anni quando recitò sul palcoscenico nel Piccolo principe di Saint-Exupery, di cui Julien era regista e interprete. E nel 1992 il suo esordio sul grande schermo è stato sempre accanto a lui in Padre Daens, di Stijn Coninx, anche se non condividevano alcuna scena.  Un legame fortissimo, giocato sulle affinità. Basti pensare che Julien era noto come “il Marlon Brando fiammingo” e che in seguito il Telegraph descrisse Matthias come “il Marlon Brando belga”. «Non penso al passato, né al futuro, ho bisogno di stare collegato al momento presente. Se vogliamo è una filosofia molto buddista, vivo così anche quando sono su un set. Funziona, semplifica la vita». E considerata la mole vertiginosa di film che lo vede impegnato, gli serve. Attualmente sul set di The Laundromat, di Steven Soderbergh, nel 2019 lo vedremo in quattro pellicole.  Di nuovo diretto da Thomas Vintenberg in Kursk, tragica vicenda del sottomarino russo  affondato 18 anni fa durante un’esercitazione. «Stare con 25 persone in uno spazio ristrettissimo per sei settimane è un’esperienza radicale. Diventi matto, però aiuta a capire chi sei quando esci dalla zona di comfort». In Mustang, di Laure de Clermont-Tonnerre, sarà Roman, un criminale in prigione da 15 anni. «Il film è ambientato in un carcere e racconta un programma di riabilitazione davvero esistente che utilizza i cavalli selvaggi per far tornare in contatto con se stessi». Poi c’è Radegund, di Terrence Malick, in cui indagherà le motivazioni di Franz Jagestatter, un austriaco che decide di non unirsi ai nazisti per combattere con loro la Seconda Guerra mondiale. «In carcere ha scritto molte lettere alla moglie, ed è stato dopo averle lette che Mohammed Alì ha deciso di non andare in Vietnam a uccidere innocenti». Da marzo tornerà al cinema diretto da Oelhoffen, con quel genere banlieue movie in cui esercita al meglio la sua capacità di trovare una luce anche nell’oscurità. È da qui che parte la conversazione.

(continua…)

Storia di copertina di GQ di dicembre 2018

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Mads Mikkelsen, il sopravvissuto

03 lunedì Dic 2018

Posted by cristianaallievi in Cannes, cinema, Festival di Cannes

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Arctic, GQ Italia, Hannibal, interviste illuminanti, Joe Penna, Julian Schnabel, Mads Mikkelsen, Van Gogh- At eternity's gate

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Mads Mikkelsen, attore, 53 anni. 

Segui la sua lotta per la sopravvivenza fra i ghiacci attraverso le espressioni dei suoi occhi. Non si sa praticamente nulla di lui, se non che vive nella carcassa di un aereo che dev’essere precipitato in questo luogo remoto del circolo polare Artico. Lo vedi ogni giorno scavare nel ghiaccio per cercare pesce con cui nutrirsi, filtrare acqua da bere, disegnare un enorme SOS a terra per essere visto da qualcuno che passa su quel cielo. Il tutto a temperature proibitive. Dopo giorni arriverà un elicottero a recuperarlo ma finirà col cadere in una tormenta, come dev’essere successo a lui tempo prima. Da quel velivolo recupera una mappa che dovrebbe condurlo verso Nord, provando a raggiunge un avamposto, mentre lo spettatore non si è accorto che nel frattempo sono passate quasi due ore.

Mads Mikkelsen, 53 anni da poco, di Copenhagen, ha iniziato la carriera come ginnasta e ballerino e ha lavorato costantemente a teatro, in tv e al cinema per diventare una star in Scandinavia. Noto per il suo ruolo di protagonista di Hannibal, nei panni del psicologo e sociopatico  dottor Hannibal Lecter del romanzo di Thomas Harris, ha lasciato il segno nei panni di Igor Stravinskij che amava Coco Chanel, interpretando Rochefort in I tre moschettieri e il medico tedesco di Royal Affair. Per poi vedere riconosciuto il suo status nel 2016, quando il festival di Cannes lo ha voluto fra i membri della giuria.  Poi sono venuti i ruoli del cattivo di Dr Strange, accanto a Benedict Cumberbatch e Tilda Swinton, e quello dello scienziato di Rogue One: A Star Wars Story.

Arctic, passato in anteprima mondiale all’ultimo festival di Cannes, è l’esordio alla regia di Joe Penna, 30 anni,  youtuber brasiliano prima noto come “MisteryGuitarMan”.  E considerate le ottime critiche al film è inspiegabile la scelta di farlo uscire in Italia sono in homevideo, in data ancora non chiara. «”Radicale” è una delle mie parole preferite. Non puoi esserlo sempre, in tutto quello che fai, ma ogni volta che capita non perdo l’occasione: e in questo caso potevo davvero esserlo». Arctic ricorda film di sopravvivenza come All is lost, in cui Redford cercava di salvarsi dall’oceano, o 127 Ore, dove James Franco cerca di vivere nel buco fra le rocce in cui è finito. Mads è semplicemente grandioso nel rendere vero ogni gesto, ogni sguardo, ogni sospiro o urlo, nel ghiaccio e in una prova fisica importante. «Mi piace moltissimo, c’è molto dramma nella fisicità. Sono cresciuto amando Bruce Lee e sono un grande fans di Buster Keaton, era uno dei più grandi al mondo, basta guardare in che modo osservava le persone». Nel film i dialoghi sono inesistenti, e di nuovo il regista si avvantaggia del suo modo di usare gli occhi. «Quando non parli c’è chi dice che non succede niente sulla tua faccia e chi invece capisce molto. Ma che si parli o meno, il punto è che devi dire qualcosa, e anche nascondere le emozioni è un lavoro, per quanto divertente. Spesso si dice che noi nordici siamo più bravi in questo senso, ma potrei dire che nel sud dell’Europa amate un po’ troppo essere visti. Gli uomini sono teatrali, sembrano dire “guarda come sono arrabbiato…”. Ma in realtà quando ti comporti  così non sei davvero incazzato, cerchi di esserlo. La rabbia viene da uno spazio più profondo».

(continua…)

Intervista integrale pubblicata su GQ di Novembre 2018.

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Il monito di “Santiago, Italia” di Nanni Moretti

01 sabato Dic 2018

Posted by cristianaallievi in cinema, Cultura, Politica, Torino Film Festival

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cinema, commozione, documentario, GQ Italia, interviste illuminanti, Nanni Moretti, Santiago Italia

Il Cile di ieri e l’Italia di ieri e di oggi ci costringeranno a pensare. Parecchio. Grazie al nuovo docufilm di Nanni Moretti che chiude la rassegna torinese 

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Nanni Moretti di spalle come appare nel suo nuovo film, Santiago, Italia. 

Si scoprono cose poco note, guardando “Santiago, Italia”, il film che chiude il 36 Torino Film Festival fra qualche polemica dovuta all’assenza di un incontro con la stampa, che Moretti ha declinato per presentare invece il lavoro direttamente al pubblico.

Le scoperte non riguardano tanto le modalità del golpe avvenuto nel 1973 in Cile, in cui i militari presero il potere e fecero fuori Allende e il suo socialismo umanitarista e democratico, in altre parole un governo eletto dal popolo che stava facendo il proprio lavoro. Il documentario illumina piuttosto sul ruolo che ebbe l’ambasciata italiana a Santiago, un luogo che ha salvato la vita di molti che hanno chiesto asilo politico e si sono ritrovati a vivere in quelle stanze, trasformati in dormitori con i materassi per terra, dopo il colpo di stato del generale Pinochet.

Col lavoro di Moretti si scopre soprattutto che il popolo italiano ha fatto la differenza aiutando i cileni, sul posto e una volta atterrati a Roma. Da noi hanno infatti trovato lavoro e grande solidarietà, e soprattutto persone che chiedevano loro “Cosa accade nel tuo paese? Come posso aiutare le persone coinvolte in quella barbarie?”. Questa visione di un’Italia compatta, umana e umanitaria, in cui si canta “El pueblo unido” negli stadi e ci si chiede come soccorrere gli extracomunitari del tempo, è l’unico dato positivo per lo spettatore in questa opera sentita e in vari momenti commovente. Per il resto il Nanni Moretti documentarista, che appare nel film solo in due scene, non porta buone notizie, e lo fa per differenza, paragonando quell’allora con l’oggi, appoggiandosi su una struttura leggerissima, fatta di interviste (tante) e materiali d’archivio. 

Il film apre sul Cile raccontando il periodo dal 1970 al 1973, quello in cui la sinistra unita, che radunava sotto lo stesso cappello socialisti e comunisti, pareva una forza invincibile. “Era una festa perpetua, le scuole erano gratuite”, racconta il regista Patricio Guzman, “c’era l’idea di un uomo nuovo” prosegue Arturo Acosta, artigiano. Poi, prosegue il racconto, gli Usa si sono spaventati, la destra ha bloccato tutto, e visto che aveva in mano la comunicazione e governava le aziende, ha infangato il governo e ha lasciato il popolo senza beni di consumo e senza elettricità. Un crescendo di tensione sociale che culmina con il colpo di stato militare dell’11 settembre del 1973, guidato da Pinochet e finanziato dalla CIA, di cui si vedono le immagini di repertorio. Immagini che fanno da monito, come a ricordarci cosa stiamo rischiando: i militari hanno combattuto contro il loro stesso popolo, bombardando quel Palazzo della Moneta che ne era il simbolo e imponendo una situazione con la forza. A seguire, naturalmente, persecuzioni, torture, sequestri e sparizioni degli oppositori.

La carrellata di testimonianze scelte dal regista, in cui a parlare sono operai, avvocati, musicisti, giornalisti e persino un cardinale, è umana e pacata, quanto lo è stato il gesto di Allende di consegnarsi per non far scoppiare una guerra civile. Le sue ultime parole, ancora fra le mura del palazzo, fanno venire i brividi: “sono sicuro che il mio sforzo non sarà vano”, disse. Allo spettatore restano le emozioni di vita di questi uomini, e le ultime scene del film in cui arriva, se si vuole, il cuore del messaggio di Moretti, affidato alle parole di uno dei rifugiati cileni. «L’Italia degli anni Settanta era un paese che aveva fatto la guerra partigiana, che aveva difeso lo statuto dei lavoratori. Era un paese simile a quello che sognava Allende in quel momento lì. Oggi viaggio per l’Italia e vedo che assomiglia al Cile peggiore… È una società di consumismo, dove non ti frega niente della persona che hai accanto, e se la puoi calpestare la calpesti. Questa è la corsa: l’individualismo». Auguri.

Al cinema dal 6 dicembre distribuito da Academy 2.

Pubblicato da GQ.it

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Kossakovsky da brividi

14 mercoledì Nov 2018

Posted by cristianaallievi in cinema, Cultura, Miti, Personaggi, Zurigo Film Festival

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Acqua, Aquarela, Cristiana Allievi, Festival di Zurigo, Ghiaccio, GQ Italia, interviste illuminanti, journalism, Kossakovsky

L’ultimo lavoro, che il regista ha presentato prima al Festival di Cannes e poi a quello di  Zurigo, racconta la potenza dell’acqua in tutte le sue forme. Liquide e no

 

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Un’immagine del docu film Aquarela, di Kossakovsky (Courtesy of Mymovies).

 

Si vedono 500 metri di iceberg che si staccano in Groenlandia, spostando una massa d’acqua immensa tale da scatenare piccoli maremoti circostanti. Si passa alle superfici ghiacciate del lago Baykal, in Russia, poi sull’isola Bornholm, dove si resta senza fiato davanti al colore dell’acqua del Mar Baltico che cambia col passare delle ore: rossa, verde, grigia, poi completamente nera.  Arriva la strabiliante visione frontale delle Angel Falls in Venezuela, mille metri di cascate in cui l’acqua non arriva mai a terra, polverizzandosi a metà percorso. «Mi ha chiamato un produttore scozzese chiedendomi se volevo girare un film sull’acqua», racconta il pluripremiato documentarista russo Victor Kossakovsky, incontrato al Festival di Zurigo. «Ho detto subito di no, quelli che avevo visto raggruppavano vari tipi di persone, dai politici agli scienziati agli attivisti. Tutti parlavano di clima, di inquinamento, di leggi, ma non si vedeva mai l’acqua. Finchè un giorno, ricontattandomi, ha detto “e se lo chiamassi Aquarela?”. Mi sono visto con un pennello in mano, e ho accettato». Così è iniziato un viaggio incredibile, anche per cercare i finanziamenti di un film senza esseri umani,  senza una storia, solo acqua in diverse forme e tre momenti di musica degli Apocalyptica, un gruppo symphonic metal finlandese. «Nel 2011 stavo girando Viva gli antipodi!, e il personaggio all’improvviso ha detto una cosa strana: “nella prossima vita vorrei non essere una persone, ma acqua”. Quando si è presentata l’opportunità ho deciso di partire da lì: ho messo la macchina nello stesso posto, sul lago Baycal, per riprendere quel ghiaccio spesso solo un metro, trasparente, sotto cui riuscivi a vedere i pesci… Ma è accaduto qualcosa di orribile, e  ho preso una direzione diversa». Conosciuto come il Rembrandt dei documentari (“perché metto le immagini al primo posto, prima ancora delle storie”), ha presentato questi 90 minuti mozzafiato in anteprima mondiale a Cannes. Girato a 96 fotogrammi al secondo, con un suono creato grazie al lavoro di 120 canali, è una chiamata viscerale all’umanità sotto forma d’arte, perché si svegli davanti al bene più prezioso che abbiamo. Un lavoro immane, incominciando lontano dal set. «Ogni mattina col mio team facevamo disegni, chiedendoci come regalare immagini che non si erano mai viste prima. Siamo stati dentro una tempesta  per tre settimane nell’oceano Atlantico, con onde di 20 metri, ci voleva un giorno per spostare la macchina da una parte all’altra della barca». Considerato che a Hollywood film come I Pirati del Caraibi sono girati in piscina, i segreti dietro ogni ripresa di questo lavoro hanno suscitato immediatamente l’interesse di Participant Media.  «I produttori americani mi hanno chiesto di smettere di parlare di come abbiamo lavorato perché volevano farne un libro. Ho appena incominciato a lavorarci, oltre alle parole ci saranno molti disegni».

Articolo pubblicato su GQ numero di Novembre 2018 

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Cold War, l’amore (scolpito nel jazz) ai tempi della Guerra Fredda

12 sabato Mag 2018

Posted by cristianaallievi in Cannes, cinema, Cultura, Festival di Cannes, Politica

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Cannes 2018, cinema, Cold War, Cristiana Allievi, GQ Italia, Pawlikowski, recensione

Tutti i pregi del film che a oggi pare il migliore visto al Festival di Cannes 2018

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Una scena del film di Pawlikowski, in corsa per la Palma d’Oro al 71° Festival di Cannes. 

Siamo nel Dopoguerra, in Polonia. Fra le rovine di una chiesa ortodossa c’è un coro che canta. Un uomo e una donna, pianista e direttore d’orchestra lui, lei cantante e ballerina, si scambiano uno sguardo che cambierà le loro vite. Appartengono a due classi sociali diverse, e i tempi sono quelli durissimi della Guerra Fredda a cui allude il titolo. Ma nonostante gli ostacoli, le relazioni che entrambi hanno con altri, e un mondo che continua a cambiare intorno a loro, sono irresistibilmente attratti uno dall’altra. Vivranno una storia d’amore impossibile, viaggiando dalla Polonia a Berlino, dalla Jugoslavia a Parigi.

Questa la trama di Cold War di Pawel Pawlikowski (traduzione letterale di “Zimna Wojna”), passato in Concorso al festival di Cannes: ottantaquattro minuti di straordinaria bellezza per cui si parla già di Palma d’Oro. Perché ogni fotogramma di questa coproduzione fra Polonia, Inghilterra e Francia, è un’immagine destinata a restare scolpita per sempre nella mente dello spettatore.

«È una storia a cui ho lavorato per un decennio. Spesso scrivo cose e le metto da parte, poi ci torno su», ha raccontato il regista polacco, premio Oscar per Ida. Nato a Varsavia, ha lasciato la Polonia a 14 anni, girato per Inghilterra, Germania e Italia, fino a stabilirsi nel Regno Unito nel 1977. «Ho vissuto in tutto il mondo, ma quando sono tornato nella mia terra, nel 2013, mi sono accorto di quanto fosse rimasta dentro di me. È importante lasciare la propria casa in una prima fase di vita, per poi tornarci nella seconda parte», racconta Pawlikowski, che ha studiato Lettere e filosofia a Londra e Oxford.

La sua scelta di ambientare una storia d’amore nel Dopoguerra non è casuale. «Il periodo storico mi ha facilitato nel creare degli ostacoli, e poi la gente al giorno d’oggi è molto distratta, c’è troppo rumore intorno a noi, è difficile immaginare che se una persona si innamora, il resto del mondo scompare. Mentre all’epoca la vita era più grafica, più chiara». Il film inizia nel 1949 e racconta 15 anni di vicende, è in bianco e nero e ha uno stile piuttosto classico. «Sono cresciuto con i film degli anni Cinquanta e Sessanta, è inevitabile. Non volevamo ripetere l’estetica di Ida (sempre in bianco e nero, e curata dallo stesso direttore della fotografia, Lukasz Zal) ma i colori non erano previsti perché in Polonia la natura non ne ha. Prima abbiamo pensato a qualcosa di “sovietico”, poi ha prevalso il bianco e nero, che è molto metaforico, ma lo abbiamo reso più drammatico di quello del mio lavoro precedente, contrastandolo. E poi l’eroina della storia è una donna molto agitata, la macchina si muoveva molto, c’è tanta energia».

I lunghi tempi di lavorazione non meravigliano, considerata la visione del cinema dell’autore. «I film non sono una storia, ma un pezzo d’arte, è normale che prendano molto tempo. Mentre giro voglio scolpire le scene, so che è frustrante per degli attori avere qualcuno che sta così tanto sull’immagine, ma tengo molto a curare la sincronia fra l’azione, l’immagine, la fotografia e la musica. È doloroso, specie per i produttori, perché il processo dura una vita, ma questa è la mia idea di cinema».

I due magnifici attori che interpretano Wiktor e Zula sono Tomastz Kot– volto di più di 30 film in Polonia- e Joanna Kulig, attrice dei precedenti due film di Pawlikowski, Ida e The woman in the fifth. «Sono cresciuta in montagna, in Polonia, e lì si canta molto, questo aspetto è stato facile per me. Mentre danzare, specialmente in gruppo, ha richiesto un duro lavoro per un anno, in cui ho studiato con un gruppo folk». Gli attori hanno dovuto lavorare molto anche sull’aspetto della chimica. «Tomastz è molto alto, ho passato mesi sui tacchi mentre lui cercava di rimpicciolirsi», scherza Joanna, «siamo amici e stando molto tempo insieme per le riprese, in tanti luoghi diversi, a volte finivamo per sentirci fratelli. Rendere l’amore che si vede sullo schermo è stato un processo lungo, ogni giorno cambiavamo qualcosa nei dialoghi. Pawel è un regista che fa ripetere le scene molte volte. Ricordo una volta, alle tre di notte, in cui mi sono detta “fai come se stessi meditando, stai tranquilla e ripeti la scena…”».

La musica è un personaggio centrale del film, a partire dal fatto che Wiktor suona il pianoforte e dirige un’orchestra. «Prima del film i tasti erano un mistero per me, ci ho passato molto tempo insieme e alla fine ho persino imparato a suonare Al chiaro di lunadi Debussy», racconta. Tutti i brani che sembra suonare al pianoforte sono in realtà suonati e arrangiati da Marcin Masecki, le altre musiche vanno da Porgy and Bess di Gershwinalle note del Mazowsze folk ensemble, gruppo fondato dopo la guerra e ancora attivo, passando dal lavoro musical etnografico di Marian e Jadwiga Sobieski. «Curo il suono tanto quanto la recitazione», precisa il regista. «In fatto di musica ho gusti molto cattolici, e con l’età divento nostalgico. Adoro il folk polacco ed è vero che uno spettatore può rintracciare anche qualche eco d’Italia, da bambino Celentano e Marino Marini andavano fortissimo in Polonia, e io li ascoltavo».

Il film è attraversato da un certo senso di nostalgia, ma «non è la forza che trascina il film», tiene a sottolineare, mentre racconta anche di sentirsi molto affine alla “Nuova onda” del cinema ceco, soprattutto a registi come Jaromil Jireš a Milos Forman. «Immagini e suoni vengono comunque sempre da qualcosa di antico, dentro di noi. Ed è vero che mi manca un mondo in cui non ci sono tutti questi stimoli, così come la natura che mostro, soprattutto il fiume, è ciò che frequentavo da bambino e che ho riscoperto da grande».

Il capolavoro porta la dedica “ai miei genitori”, che hanno gli stessi nomi dei protagonisti. Morti nel 1989 proprio prima della caduta del muro di Berlino, non sono però esattamente come quelli che si vedono sullo schermo. Ad esempio la madre vera del regista viene da una classe sociale borghese, mentre la donna del film arriva dalla provincia, per lei il Comunismo è una cosa facile e non ha interesse a scappare verso Occidente. «Ci sono molte cose in comune fra la coppia sullo schermo e i miei, soprattutto la dinamica relazionale. Si sono presi e mollati varie volte, in 40 anni, e per me sono sempre stati il soggetto cinematograficamente più interessante. Ma questo film non è il loro ritratto».

Per sapere come è andata a finire fra loro bisogna arrivare all’ultima scena del film, destinata a restare negli annali del cinema. In Italia il film sarà presto distribuito da Lucky Red.

Articolo pubblicato su GQ Italia

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Loro 1 regala sorprese che non ti aspetti

25 mercoledì Apr 2018

Posted by cristianaallievi in cinema, Cultura, Personaggi, Politica

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Tag

Cinema Italiano, Cristiana Allievi, GQ, GQ Italia, Loro, Paolo Sorrentino, società, Toni Servillo

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Il regista Paolo Sorrentino sul set di Loro, con gli attori Toni Servillo (a destra) e Giovanni Esposito (a sinistra).

È nelle sale l’attesissimo film diretto dal premio Oscar Paolo Sorrentino e scritto insieme a Umberto Contarello sulla vita, privata e politica, dell’ex Cavaliere Silvio Berlusconi, fra il 2006 e il 2010 (dalla caduta del terzo governo alla crisi del quarto).

Come annunciato, l’opera è divisa in due parti, e dopo quella che si vedrà stasera, intitolata Loro 1, il 10 maggio sarà la volta di Loro 2.
Per valutare l’intero lavoro occorrerà averlo visto per intero ma già la prima tranche riserva diverse sorprese:

Un incipit (come sempre) curioso

Una bellissima pecora dal giardino di Villa Certosa, in Sardegna, entra in un immenso soggiorno deserto. Si ferma sulla soglia, restando ipnotizzata da tre schermi che rimandano immagini di Mike Bongiorno (Ugo Pagliai) che conduce Quiz nel silenzio. Mentre se ne sta lì, un po’ intontita, la temperatura del condizionatore scende a zero gradi, facendola fuori.
Un inizio che fa capire che qui non si scherza, e annuncia anche il senso del film.
PS: nel corso dei 104 minuti faranno capolino anche un rinoceronte, un serpente e un topo, a corollario di un bestiario fatto di segretari, aspiranti subrette, faccendieri, escort e parlamentari.

Perché quel titolo, Loro?

Il “Loro”, numero 1 e 2, si riferisce a “quelli che contano”, come racconta l’imprenditore pugliese Sergio Morra – “Gianpi” – Tarantini, personaggio interpretato da Riccardo Scamarcio.
Questa scelta fa comprendere che lo spettatore sarà accompagnato dentro un mondo, un “sistema pensiero”, che dal suo vertice e ispiratore si è esteso a macchia d’olio.

L’ex premier c’è ma…

Così come il titolo, anche una logica costruzione registica non punta dritto sull’ex Premier. Silvio Berlusconi, piuttosto atteso, arriva in scena a un’ora dall’inizio affidato alla straordinaria arte di Toni Servillo. Come accade ai pittoreschi personaggi del racconto (alcuni veri e alcuni di fantasia – avvisa Sorrentino nell’apertura del film), tutti intenti ad arrivare a LUI – così viene registrato, in stampatello maiuscolo, il nome di Berlusconi sui cellulari dei membri della sua corte – allo stesso modo lo spettatore deve soffrire un po’ prima di incontrare il cuore del film.

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eElena Sofia Ricci è Veronica Lario nel film (foto di Gianni Fiorito).

Accordati alla perfezione

Da Riccardo Scamarcio a Kasia Smutniak, che qui si chiama Kira ed è la donna più vicina a LUI, da Elena Sofia Ricci a Euridice Axen, già in The young Pope, i personaggi sembrano accordati alla perfezione con la partitura da interpretare. Nel loro muoversi tutto è chiarissimo, desideri, aspirazione, psicologia, aspettative, gesti, abiti di scena.
L’ex moglie di Berlusconi, un’eccellente Elena Sofia Ricci-Veronica Lario, regala un’interpretazione così densa da
far si che lo spettatore abbia un tarlo continuo nella mente: cosa ha legato due persone simili, considerato che lui non pensa ad altro che a giovani donne, potere e denaro, e lei ad andare ad attraversare la Cambogia a piedi? Colpisce anche il sentimento di lei, che spera ancora di farsi riconquistare da un marito che le mente inesorabilmente.

E poi c’è il gigante Servillo

Quando arriva sulla scena lascia di stucco, non solo per la somiglianza estetica con Berlusconi ma per il lavoro psicologico sul personaggio che lo porta a essere estroverso, buffone, spaccone, e forse solo un filo troppo milanese nell’accento. Quello che dice e che fa, come vestirsi da odalisca per far sorridere una moglie già sul piede di guerra, riesce ancora a sorprendere, perché avvolto da una specie di magia compiuta da Servillo.

La strada morbida: tanto i fatti si commentano da soli

Alla fine di questa prima parte di film si realizza che Sorrentino non ha usato una forza muscolare per presentare il suo Berlusconi, tutt’altro. Ha preferito la strada morbida, per scavare in una coscienza, consapevole che i fatti nudi e crudi si commentano da soli. Ha preferito essere quasi empatico col suo personaggio, ha scelto di avvicinarsi all’animo di un uomo che evidentemente non riesce a comprendere del tutto, nonostante lo abbia definito “un mistero avvicinabile, a differenza di tanti suoi colleghi del passato”. Sorrentino dimostra che con la dolcezza si ottiene tutto: lo spettatore lascia la sala con un senso di amarezza che, dalla mente, con lo scorrere dei minuti scende dritta al cuore. Soprattutto quando, sullo schermo, appare un musicista d’eccezione, che ruba la scena ad Apicella… Ma non spoileriamo troppo.

Articolo pubblicato su GQ.it

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Rupert Everett: «La mia magnifica ossessione».

12 giovedì Apr 2018

Posted by cristianaallievi in Berlinale, cinema, Cultura, Letteratura, Personaggi

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cinema, Cristiana Allievi, GQ Italia, Il nome della rosa, Oscar Wilde, Rupert Everett, The happy prince

 

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L’attore inglese Rupert Everett, 58 anni, è lo scrittore Oscar Wilde in The Happy Prince, di cui firma anche sceneggiatura e regia. 

PER DIECI ANNI NON HA PENSATO AD ALTRO. ORA CHE IL SUO FILM SU OSCAR WILDE ESCE NELEL SALE. RUPERT EVERETT SI LIBERA. QUESTA È LA GENESI DI UN’OPERA MOLTO INTIMA, RACCONTATA PASSO A PASSO, MENTRE PRENDEVA FORMA

«Ho scritto la prima sceneggiatura nel 2007,  le riprese sono iniziate solo nel 2016. È stata una lotta dura, i finanziamenti non arrivavano mai. È diventata una questione di vita e di morte, il personaggio si è impossessato di me e mi ha preso un senso di disperazione: temevo che alla fine non sarei riuscito a fare niente». È evidente che per Rupert Everett The Happy Prince – in cui ripercorre gli ultimi anni di vita di Oscar Wilde, è molto più di un film: è una passione che lo ha rapito per dieci anni. Finalmente l’attore inglese ha potuto presentare il suo film in anteprima mondiale all’ultimo Sundance e poi alla Berlinale, è nelle sale dal 12 aprile. Everett, 58 anni di fascino, si porta addosso il marchio dell’upper class da cui proviene, da discendente della famiglia reale di Carlo II Stuart, re d’Inghilterra e Scozia. Per lui questo è un esordio alla regia, ma anche l’interpretazione per cui è nato, visto che racconta gli scandali, gli eccessi, le ribellioni e l’anticonformismo di un gigante la cui vita assomiglia per molti aspetti alla sua: cresciuto a Norfolk, Inghilterra, l’attore ha dato scandalo dai tempi della scuola. Finchè nel 1989 ha fatto coming out, distruggendo le sue possibilità di diventare un’icona a Hollywood. «Gli anni 70, 80 e 90 sono stati fortemente eterosessuali e dominati da un certo tipo di maschio», racconta. «E il cinema è come il calcio, stessa cultura: quando ho iniziato a recitare io, per un gay era come nuotare contro corrente». Però lui, invece di nascondere l’omosessualità dietro il suo fascino alla Cary Grant, è stato guidato dalla convinzione che essere se stesso valesse più del resto. Un tema presente in The Happy Prince, che parte dall’incarcerazione del poeta e scrittore, tra il 1895 e il 1897, per “indecenza con gli uomini” a causa della relazione con Lord Alfred “Bosie” Douglas) e lo segue quando, scontata la pena, trascorre l’ultimo anno di vita in esilio fra Napoli e la Francia, impoverito e debole, in incognito e senza un soldo, fra sensi di colpa e i dolori per un ascesso a un orecchio. Morirà a 46 anni e verrà sepolto a Parigi.  «I film su di lui finiscono sempre con la galera e, a parte il fatto che ne ho già visti tre, ho sempre trovato più interessante la parte dell’esilio». Everett ha trascorso gli ultimi due mesi in Italia, impegnato nelle riprese del Nome della Rosa, una serie tv in otto episodi ispirata al best seller di Eco in cui, riassume con la sua solita schiettezza, «sono l’Inquisitore Bernard Gui e uccido tutti!». Come spesso gli capita nelle interviste, spende poche parole sul progetto del momento, poi la sua attenzione va altrove. Perché raccontare la vita di un uomo che prima tutti osannano e poi trattano da reietto è per lui il punto d’arrivo di una carriera e anche un percorso personale, che necessita di una ricostruzione. 

PARIGI , 2011.

Siamo in un caffè a pochi passi dal cimitero di Perè Lachaise. Insieme a Merlin Holland, l’unico nipote di Wilde, Everett è appena stato protagonista della cerimonia che ha restituito la tomba dello scrittore ai cittadini. «È stata ripulita dai baci dei rossetti e protetta tutt’intorno con il vetro. Sarebbe stato felice di sapere che migliaia di ferventi ammiratori sono venuti a baciare la sua lapide, Oscar amava essere al centro delle attenzioni. E poi indossava abiti perfetti e viveva in case impeccabili, sono certo che anche lui avrebbe preferito una tomba linda». Sul suo film ha brutte notizie, «sono molto affaticato, non trovo finanziatori, si sta rivelando un viaggio lunghissimo». Everett non ha un carattere facile.  A sette anni è finito in collegio all’Ampleforth, un istituto dei monaci Benedettini. Questo, unito al fatto che il padre era un ufficiale militare, spiega come abbia sviluppato una certa allergia alle imposizioni. «Sono stato un bambino molto solitario e riflessivo, mi hanno cresciuto secondo il vecchio stile, senza la tv e con poche cose. Ero curioso di sottigliezze come la polvere colpita da un raggio di sole, poi il collegio mi ha trasformato: sono diventato esibizionista, urlavo e mi facevo notare». Finchè a 15 anni si iscrive alla Central School of Speech and Drama di Londra. «La mia famiglia avrebbe voluto qualcosa di più convenzionale, ma la vita vagabonda mi piaceva, era perfetta per scappare da quel mondo gelido». Il dio dell’arte è dalla sua: all’esordio nei panni dello studente omosessuale di Another Country, nel 1982, ha un successo sfacciato.

(…continua)

Intervista pubblicata su GQ di Aprile 

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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