Nella lunga conversazione avuta con Antonio Banderas a Madrid, l’attore e produttore mi ha parlato della sua esperienza con la morte, per prima cosa. Ovvero di quando, due anni e mezzo fa, ha subito tre interventi al cuore e ha toccato la morte da vicino. Fatto, questo, che lo ha riavvicinato alla vita e che ha lasciato tracce visibili in lui. E mentre l’icona latina di Hollywood faceva i conti con quello squarcio apertosi su qualcosa di vertiginoso, sulla scena della sua vita si ripalesava un mentore. Anzi, il mentore, Pedro Almodovar, a sua volta pronto per un film epocale. È così dopo essere stato Dalì, Pancho Villa, Picasso e Mussolini -solo per citare i personaggi realmente esistiti che ha incarnato- Antonio Banderas si è trovato a interpretare l’uomo che 37 anni prima lo aveva notato, fuori da un caffè di Madrid. Hanno fatto sei film insieme, Banderas è diventato una star europea. Ma lui voleva di più, voleva Hollywood. Così è volato Oltreoceano, costringendo Almodovar a incassare un duro colpo. E dopo anni di successi clamorosi al botteghino, deve aver sentito il richiamo della profondità dei personaggi di Pedro, così i due si sono ritrovati in Dolor Y Gloria, nelle nostre sale dal 17 maggio, in contemporanea con la proiezione al Festival di Cannes, in Concorso. Una prova di recitazione minimalista ma della massima efficacia, la materializzazione di una connessione fra anime per cui Banderas interpreta Pedro stesso. E per cui, ne siamo certi, entrambi avranno riconoscimenti importanti. La nostra conversazione è avvenuta il giorno dopo la visione di Dolore e Gloria a Madrid.
L’intervista è pubblicata sul GQ Italia, numero Maggio/giugno 2019
LA FAMIGLIA È AL CENTRO DEL SUO CINEMA. VENT’ANNI FA HA VINTO A CANNES CON TUTTO SU MIA MADRE. ORA PEDRO ALMODÓVAR ESPLORA LA SUA VITA CON DOLORE E GLORIA
Il regista Pedro Almodovar, 70 anni (foto di Nico Bustos per GQ Italia).
Colpo di teatro di Pedro Almodóvar. Che stesse girando il suo ventunesimo film, Dolor y gloria, si sapeva. Un po’ meno invece sulla storia e la data di uscita nelle sale. Ma all’improvviso annuncia che è tutto pron- to, che il 22 marzo gli spagnoli potranno ammirare il suo lavoro, che a maggio sarà in Italia. Storiona di famiglia, molto auto- biografica. Proprio 20 anni dopo (gli stessi che compie quest’anno GQ), quel Tutto su mia madre che gli fece vincere il premio per la miglior regia sulla Croisette.
Perché questo film adesso? In Italia ci fa pensare a 8 1⁄2 di Fellini. Spero che non mi paragoniate a 81⁄2, perché perderei il confronto. Tutti i miei film mi rappresentano, ma di sicuro Dolore e gloria mi rappresenta più profondamente. Non so perché l’ho scelto proprio ora, ho l’impressione di non aver scelto io il tema del film, ma che sia stato il tema del film a scegliere me. Generalmente non sono consapevole del perché giro un certo film o un altro; sono consapevole della necessità di affrontare determinati argomenti in determinati momenti, ma non dei motivi.
Il suo ottavo film con Banderas dà un’immagine diversa di questo attore?
Secondo me sì. Quando ho lavorato con lui
negli anni Ottanta, era molto giovane e quel che mi interessava di Antonio
Banderas era la sua passionalità, la follia travolgente che dava ai suoi
personaggi. Ora Antonio ha sessant’anni, continua a essere un uomo molto
affascinante, ma sul suo viso vedo i due o tre interventi al cuore che ha
subito negli ultimi anni, la sua esperienza con il dolore. In Dolore e
gloria Antonio offre un’interpretazione per me inedita, gesti mi- nimi,
emozioni controllate, una solitudine interpretata con grande economia di
risorse. Per me è una sorta di nuova nascita per Antonio Banderas, o quanto
meno l’inizio di una splendida tappa di maturità.
E Penélope Cruz sarà sua
madre?
Penélope Cruz interpreta la madre di Antonio Banderas negli anni Sessanta, quand’è bambino. Penélope fa nuovamente la casalinga di campagna, in un momento in cui la Spagna non è ancora uscita dal dopoguerra. Per questo il suo look e la sua interpretazione sono molto diversi dalla madre che interpretava in Volver – Tornare.
Nel film c’è una canzone di Mina. Perché ha scelto proprio questa?
La scena si svolge all’inizio degli anni Sessanta e Come sinfonia appartiene a quell’epoca ed evoca la luce e la sensualità dell’estate mediterranea. E inoltre Mina è quasi parte della mia famiglia e io volevo che nel film tutto mi risultasse familiare: gli attori, le opere d’arte che si vedono alle pareti, le canzoni e, naturalmente, le emozioni, le emozioni più profonde.
Non ha studiato cinematografia, ma è diventato uno dei registi più famosi del mondo. Come ha fatto emergere il suo stile?
Quando arrivai a Madrid nel 1969, il generale Franco aveva appena chiuso la Scuola di Cinema. Avevo pensato di studiare lì, ma non essendo possibile, acquistai una videocamera Super 8 e nel corso degli anni Settanta girai molti cortometraggi di diverso minutaggio: 5, 10, 30 minuti; e riuscii anche a girare un film. Questa fu la mia unica scuola e si rivelò molto utile. Il Super 8 non è come il video, il Super 8 è cinema, viene girato in negativo. E io presi molto sul serio sia la parte relativa alla scrittura della sceneggiatura, sia la direzione degli attori e quant’altro. Le mie preoccupazioni principali e le tematiche che avrei affrontato anni dopo erano già presenti in questi film. Lo stile, come ogni processo di presa di coscienza, si scopre con il tempo e ci si arriva – almeno nel mio caso – in modo spontaneo, prendendo decisioni di pancia.
Come il regime di Franco influenzò lo stile degli uomini?
Fino al momento in cui il regime non iniziaa indebolirsi, il modo di vestire, i colori, le acconciature dei capelli degli uomini spagnoli dipendevano da convenzioni sociali molto repressive. Chi non si adeguava, rischiava di finire alla polizia solo per il suo aspetto. C’era pochissimo spazio per coltivare personalità e gusti nel vestire. Nonostante sia stato un Paese intrappolato dalla dittatura, la Spagna cominciò a raccogliere influenze dal resto del mondo dopo il 1965, quando ebbe inizio il processo di sviluppo della nazione. Alla fine degli anni Sessanta irruppe lo stile hippy, soprattutto nelle grandi città, con l’influsso di Carnaby Street. Questo cambiò radicalmente il look dei giovani spagnoli, che divenne più colorato e audace. Chi sognava di lavorare in banca indossava un noioso abito con giacca e cravatta (do- minavano i colori grigio, beige e marrone) e coloro che si sentivano liberi dal consumismo e volevano non solo l’amore libero ma il recupero del rapporto con la natura, si vestivano in un modo ritenuto insolito fino ad allora; inoltre arrivano il pop e la psichedelia. La rottura in termini di look maschile è radicale. Tutti i tipi di stampe possibili e accessori per tutto il corpo. Sono stati gli anni del trionfo della bigiotteria e dei colori e dei tessuti sgargianti e luminosi. Negli anni Settanta, delusi dagli hippies, i giovani spagnoli divennero politicizzati, specialmente nelle università.
Adriana Ugarte, 31 anni, attrice. Per Pedro Almodovar è Julieta, nel film in concorso all’ultimo festival di Cannes (courtesy levante-emv.com).
«Ricordo ancora il giorno in cui l’ho guardato negli occhi e gli ho detto: “Non voglio più libri e film da studiare, prendimi per mano e andiamo all’inferno insieme”. In quel momento abbiamo iniziato a sentire la stessa musica, è stato straordinario». Da queste parole si intuisce che Pedro Almodovar le ha cambiato la vita, scegliendola per il suo riuscitissimo film, Julieta, passato in concorso all’ultimo festival di Cannes e ora nelle nostre sale. Ha due occhi grandi color nocciola che sorridono, Adriana Ugarte. Indossa un abito di chiffon color panna con disegnini rossi e il tono della sua voce è morbido e avvolgente. Nata a Madrid 31 anni fa, una ventina di produzioni all’attivo tra cinema e tv, ha dimostrato da subito di avere stoffa per il mestiere di attrice. Col primo cortometraggio Mala espina, le sono arrivati tanti riconoscimenti, e col primo film, Cabeza de Perro, la candidatura ai Goya, gli Oscar spagnoli. Julieta è la storia di una madre tra i 25 e 40 anni, e di sua figlia Antia. E visto che Almodovar non ama invecchiare artificialmente le sue attrici col trucco, si è preso il rischio di affidare lo stesso personaggio (la madre del titolo) a due donne, Adriana nella sua parte giovane, ed Emma Suarez in quella più matura.
«Abbiamo lavorato separatamente, poi quando abbiamo scoperto di avere lo stesso personaggio ci siamo telefonate per incontrarci e scoprire insieme chi era questa donna. Quando poi abbiamo incontrato Pedro abbiamo capito che lui è davvero la mente che sta dietro a tutto: ci ha portate nello stesso luogo di dolore e di comprensione attraverso strade diverse».
Una strada che Adriana ha affrontato con un’attitudine tutta sua. «Prima di girare mi aveva chiesto di vedere un film tedesco chiamato Phoenix, ma io non l’ho fatto. Un mese dopo la fine delle riprese sono andata al cinema con i miei genitori e mi sono innamorata dell’attrice, guardandola avevo sentito Julieta. Sono tornata a casa e ho cercato qualcosa in rete, solo allora ho realizzato che si trattava del film di cui mi aveva parlato Almodovar!».
L’attrice spagnola con Almodovar sul red carpet a Cannes.
A scatenare la tragedia nella storia del regista spagnolo più amato al mondo è una governante che rivela alla figlia che la morte di suo padre è dovuta a una lite avuta con la madre, motivo per cui la ragazza sparirà da casa per sempre. «Se ho mai incontrato una persona cattiva in vita mia? Certo, ma la cosa importante è conoscere la parte crudele che tutti abbiamo dentro di noi. Siamo esseri complessi, e nella vita dobbiamo ringraziare anche chi è stato crudele con noi e ci ha detto cose tremende. Fanno male, ma servono a svegliarci».
Articolo pubblicato su D La repubblica il 6 giugno 2016
L’attrice spagnola interpreta la protagonista del nuovo film del regista, presentato a Cannes. Qui ci racconta come è riuscita a interpretare un ruolo sofferto
Con il ventesimo film Pedro Almodóvar torna all’universo femminile e ai conflitti tra genitori e figli. La storia è quella di una madre e di Antia, la figlia che lascia la casa all’improvviso, dopo la morte del padre, per non farvi mai più ritorno. Emma Suarez è la più matura delle due donne che il regista ha scelto per interpretare la Julieta del suo nuovo film, in concorso all’ultimo festival di Cannes e nelle nostre sale dal 26 maggio. Cinquantadue anni, madrilena, nella vita vera Emma Suarez di figli ne ha due, uno avuto con Juan Elrich Jr, ex marito, e una con Andy Chango, attore e musicista argentino di sei anni più giovane di lei. Si presenta all’intervista con occhiali neri spessi, confermando la sua fama di donna attraente e misteriosa.
«Il mio modo di lavorare è stato diversissimo da quello di Adriana (Ugarte, l’altra donna che interpreta Julieta da giovane). Pedro mi ha suggerito di leggere un libro di Emanuel Carrère, Vite che non sono la mia, sull’abbandono e la solitudine, e di rivedere The Hours, basato sul romanzo di Michael Cunningham, con Nicole Kidman, Meryl Streep e Julianne Moore, i cui personaggi in un certo modo assomigliano a Julieta. Mi ha anche raccomandato di studiare Ingrid Bergman in Europa 51, di Rossellini». Niente colori sgargianti e personaggi sopra le righe, questa volta, per il regista spagnolo più amato al mondo. «Per incarnare la donna che racconta alla figlia chi è stata davvero, e come ha conosciuto suo padre, Almodovar mi ha ordinato di scrivere. Così ho iniziato un diario, a cui ho lavorato tutti i giorni, come Julieta». Il primo titolo del film era Silenzio, come uno dei racconti di In fuga, della scrittrice canadese Alice Munro, a cui Almodovar si è ispirato per la sceneggiatura. «Adoro il silenzio e ho bisogno di stare da sola», racconta l’attrice. «È difficile perché ho due figli, ma per fortuna quando ho girato Julieta era estate, così li ho preparati e mandati in vacanza, e per sei settimane mi sono sintonizzata solo sul film. Il personaggio era troppo difficile, dovevo separarmi da tutto quello che c’era intorno». La Suarez non cede alla trappola delle interpretazioni facili. Se sulla carta la responsabile della fuga di Antia è la governante, che mette al corrente la ragazza della lite avvenuta prima che il padre, pescatore, uscisse in mare, nella realtà le implicazioni sono più articolate. «Penso che nella vita, quando le cose succedono, non si può dare la responsabilità a una sola persona, è troppo facile. Siamo tutti responsabili delle cose che accadono, sono parte della nostra esperienza per crescere e imparare, come individui. E qui fino alla fine Julieta non si prende una responsabilità importante: quella di parlare con sua figlia».