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Cristiana Allievi

~ Interviste illuminanti

Cristiana Allievi

Archivi tag: stile

Pedro Almodovar, «A cuore aperto»

08 venerdì Mar 2019

Posted by cristianaallievi in arte, cinema, Cultura, Miti, Moda & cinema

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cinema, Dolor Y Gloria, Dolore e Gloria, GQ Italia, intervista esclusiva, interviste illuminanti, Mina, Pedro Almodovar, stile, uomini

LA FAMIGLIA È AL CENTRO DEL SUO CINEMA. VENT’ANNI FA HA VINTO A CANNES CON TUTTO SU MIA MADRE. ORA PEDRO ALMODÓVAR ESPLORA LA SUA VITA CON DOLORE E GLORIA

Il regista Pedro Almodovar, 70 anni (foto di Nico Bustos per GQ Italia).

Colpo di teatro di Pedro Almodóvar. Che stesse girando il suo ventunesimo film, Dolor y gloria, si sapeva. Un po’ meno invece sulla storia e la data di uscita nelle sale. Ma all’improvviso annuncia che è tutto pron- to, che il 22 marzo gli spagnoli potranno ammirare il suo lavoro, che a maggio sarà in Italia. Storiona di famiglia, molto auto- biografica. Proprio 20 anni dopo (gli stessi che compie quest’anno GQ), quel Tutto su mia madre che gli fece vincere il premio per la miglior regia sulla Croisette.


Perché questo film adesso? In Italia ci fa pensare a 8 1⁄2 di Fellini. Spero che non mi paragoniate a 81⁄2, perché perderei il confronto. Tutti i miei film mi rappresentano, ma di sicuro Dolore e gloria mi rappresenta più profondamente. Non so perché l’ho scelto proprio ora, ho l’impressione di non aver scelto io il tema del film, ma che sia stato il tema del film a scegliere me. Generalmente non sono consapevole del perché giro un certo film o un altro; sono consapevole della necessità di affrontare determinati argomenti in determinati momenti, ma non dei motivi.

Il suo ottavo film con Banderas dà un’immagine diversa di questo attore?

Secondo me sì. Quando ho lavorato con lui negli anni Ottanta, era molto giovane e quel che mi interessava di Antonio Banderas era la sua passionalità, la follia travolgente che dava ai suoi personaggi. Ora Antonio ha sessant’anni, continua a essere un uomo molto affascinante, ma sul suo viso vedo i due o tre interventi al cuore che ha subito negli ultimi anni, la sua esperienza con il dolore. In Dolore e gloria Antonio offre un’interpretazione per me inedita, gesti mi- nimi, emozioni controllate, una solitudine interpretata con grande economia di risorse. Per me è una sorta di nuova nascita per Antonio Banderas, o quanto meno l’inizio di una splendida tappa di maturità.

E Penélope Cruz sarà sua madre?

Penélope Cruz interpreta la madre di Antonio Banderas negli anni Sessanta, quand’è bambino. Penélope fa nuovamente la casalinga di campagna, in un momento in cui la Spagna non è ancora uscita dal dopoguerra. Per questo il suo look e la sua interpretazione sono molto diversi dalla madre che interpretava in Volver – Tornare.

Nel film c’è una canzone di Mina. Perché ha scelto proprio questa?

La scena si svolge all’inizio degli anni Sessanta e Come sinfonia appartiene a quell’epoca ed evoca la luce e la sensualità dell’estate mediterranea. E inoltre Mina è quasi parte della mia famiglia e io volevo che nel film tutto mi risultasse familiare: gli attori, le opere d’arte che si vedono alle pareti, le canzoni e, naturalmente, le emozioni, le emozioni più profonde.

Non ha studiato cinematografia, ma è diventato uno dei registi più famosi del mondo. Come ha fatto emergere il suo stile?

Quando arrivai a Madrid nel 1969, il generale Franco aveva appena chiuso la Scuola di Cinema. Avevo pensato di studiare lì, ma non essendo possibile, acquistai una videocamera Super 8 e nel corso degli anni Settanta girai molti cortometraggi di diverso minutaggio: 5, 10, 30 minuti; e riuscii anche a girare un film. Questa fu la mia unica scuola e si rivelò molto utile. Il Super 8 non è come il video, il Super 8 è cinema, viene girato in negativo. E io presi molto sul serio sia la parte relativa alla scrittura della sceneggiatura, sia la direzione degli attori e quant’altro. Le mie preoccupazioni principali e le tematiche che avrei affrontato anni dopo erano già presenti in questi film. Lo stile, come ogni processo di presa di coscienza, si scopre con il tempo e ci si arriva – almeno nel mio caso – in modo spontaneo, prendendo decisioni di pancia.

Come il regime di Franco influenzò lo stile degli uomini?

Fino al momento in cui il regime non iniziaa indebolirsi, il modo di vestire, i colori, le acconciature dei capelli degli uomini spagnoli dipendevano da convenzioni sociali molto repressive. Chi non si adeguava, rischiava di finire alla polizia solo per il suo aspetto. C’era pochissimo spazio per coltivare personalità e gusti nel vestire. Nonostante sia stato un Paese intrappolato dalla dittatura, la Spagna cominciò a raccogliere influenze dal resto del mondo dopo il 1965, quando ebbe inizio il processo di sviluppo della nazione. Alla fine degli anni Sessanta irruppe lo stile hippy, soprattutto nelle grandi città, con l’influsso di Carnaby Street. Questo cambiò radicalmente il look dei giovani spagnoli, che divenne più colorato e audace. Chi sognava di lavorare in banca indossava un noioso abito con giacca e cravatta (do- minavano i colori grigio, beige e marrone) e coloro che si sentivano liberi dal consumismo e volevano non solo l’amore libero ma il recupero del rapporto con la natura, si vestivano in un modo ritenuto insolito fino ad allora; inoltre arrivano il pop e la psichedelia. La rottura in termini di look maschile è radicale. Tutti i tipi di stampe possibili e accessori per tutto il corpo. Sono stati gli anni del trionfo della bigiotteria e dei colori e dei tessuti sgargianti e luminosi. Negli anni Settanta, delusi dagli hippies, i giovani spagnoli divennero politicizzati, specialmente nelle università.

(…continua)

L’intervista esclusiva per GQ è sul numero di marzo 2019

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Incontri on the road, Viggo Mortensen

09 sabato Feb 2019

Posted by cristianaallievi in cinema, Letteratura, Personaggi, Zurigo Film Festival

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amicizia, cinema, Golden Globe, Greenbook, interviste illuminanti, On the road, Oscar, razzismo, Star, stile, uomini, Viggo Mortensen

POETA, SCRITTORE (DI TANTE LETTERE), REGISTA. VIGGO MORTENSEN È UN SOLITARIO IN TOURNEE CON GREENBOOK

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«Scrivo molte lettere e cartoline, e adoro riceverle. La stranezza è che gli uffici postali non sono efficienti come quelli di una volta, in Europa come negli Stati Uniti i finanziatori non vogliono investire nel settore. Ma io sono spesso davanti alle buche delle lettere, alimento il mercato». Polo grigia con giacca e pantaloni blu, macchina fotografica in mano, Viggo Mortensen riesce sempre a spiazzarti con una storia mai sentita prima. Come questa. «Da giovane non ero un tipo socievole, tendevo a evitare sia chi mi piaceva sia le persone di cui non mi fidavo. Ma trovandomi in situazioni in cui non avevo via d’uscita, in paesi stranieri, ho trascorso tempo con persone che non avrei frequentato, e questo mi ha cambiato. Ho dovuto capirle, comprenderne anche la lingua, conoscere i loro background, diversi dal mio. E sono diventato più curioso, è stata mia madre a incoraggiarmi in questo senso». Grace Gamble, americana, incontra Viggo Peter Mortensen Sernior, danese, a Oslo, Norvegia, poco dopo lo ha sposato nei Paesi Bassi. Se il loro primo figlio scrive sceneggiature mentre è in volo sull’Oceano, intasa le buche delle lettere, parla sette lingue e ha due fratelli minori che fanno i geologi, invece di lavorare in banca, un motivo c’è. Per esempio il fatto di aver vissuto fra Venezuela, Danimarca e Argentina, e di essere stati mollati da soli in un collegio isolato sulle montagne, a soli sette anni.  «Quel modello di educazione anglosassone non è per tutti. Io mi sono fatto degli amici, sono sopravvissuto, ma altri bambini ne hanno risentito a livello psicologico».

Anche gli inizi della carriera non sono stati facili per lui, se si pensa che Jonathan Demme e Woody Allen hanno tagliato le uniche scene in cui era presente, e che Oliver Stone all’ultimo gli ha preferito Willem Dafoe per il suo sergente Elias. Poi però Sean Penn lo ha voluto nel suo Lupo solitario, sigaretta in bocca e petto nudo, e da lì in avanti nessuno lo ha più fermato. In questi giorni è in Ontario, Canada, per girare il suo primo film dietro la macchina da presa: Falling, una storia scritta partendo da eventi della sua famiglia che vedremo il prossimo autunno.  Intanto è al cinema con Green Book,  il film di Peter Farrelly visto in anteprima europea al Festival di Zurigo, vincitore di 3 Golden Globe e candidato a 5 Oscar (miglior film, attore protagonista, non protagonista, sceneggiatura, montaggio) . È la storia vera del buttafuori italoamericano Tony Lip Vallelonga (in seguito attore noto per il ruolo del boss Carmine Lupertazzi ne I Soprano) che fece da autista al jazzista nero Don Shirley, in tour fino nel sud degli Stati Uniti. Siamo negli anni Sessanta, ma per molti versi quel paese razzista e classista assomiglia all’America di Trump. Nonostante questo, e le differenze fra i due uomini, fra loro nascerà un’amicizia profondissima.

Green Book mette al centro una convivenza forzata fra due uomini, che sono spesso in auto insieme e si guardano attraverso lo specchietto retrovisore. «Il film racconta una storia che fa pensare, magari anche ridere, ma non dice tutto. Sei tu spettatore a farti la tua idea su quel momento storico, a fare i collegamenti con quello che stiamo vivendo oggi, ma non ti viene detto come farli. Detesto quando un artista, o un film, si impongono, e inconsciamente sottintendono “io ne so più di te”, è molto più interessante attrarre le persone con la qualità di quello che si fa».

Ha dichiarato che insieme a Dangerous Method e a Far from men, è stato il peggior film dal punto di vista delle paure che ha scatenato in lei.  «Non sono italoamericano, anche se capisco la vostra lingua più di molti americani, inclusi alcuni italoamericani e sono stato in grado di aiutare nella traduzione di alcune frasi per la sceneggiatura».

Lei è un po’ maniacale, nel lavoro… «Ho detto a Peter che la storia era bellissima, il personaggio anche e alcuni dei migliori attori che abbiamo sono italoamericani. Insomma, c’era chi lo avrebbe interpretato meglio di me».

E il regista? «Mi ha risposto che se gli ero sembrato credibile nei panni di un assassino russo, in La promessa dell’assassino, potevo farlo anche in quelli di un tassista italoamericano. La svolta è stata l’invito a pranzo dalla famiglia di Tony,  nel loro ristorante in New Jersey, il Tony Lips. li ho osservati, mentre siamo stati seduti a tavola per ore, e ho capito che sarebbe stato un gran lavoro ma potevo farcela. Finalmente avevo qualcosa da imitare».

(continua…)

Intervista di copertina pubblicata su GQ di febbraio 2019 

© Riproduzione riservata

Quella volta che McConaughey mi ha parlato di suo padre (e di bellezza)

24 giovedì Ago 2017

Posted by cristianaallievi in cinema, Personaggi, Quella volta che

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belli del cinema, Camila Alves, Dallas Buyers Club, Gold, Golden Globe, Grazia, Matthew McConaughey, Oscar, padre, stile

 

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L’attore texano Matthew McConaughey, 47 anni e un Oscar all’attivo (courtesy of Grazia Italia). 

Vedo chiaramente affiorare due bicipiti perfettamente disegnati, sotto la camicia rosa. E nonostante l’infelice capello castano (tinto per ragioni di copione), ha occhi blu molto difficili da dimenticare. Matthew McConaughey, in fondo, non è molto diverso dal ragazzo di tanti anni fa, dal figlio del proprietario di una pompa di benzina che aveva anche un business nel petrolio, dall’aspirante avvocato che ha sfondato nel cinema grazie al fisico bestiale.

All’improvviso, però, eccolo grasso, sfatto, stempiato e con quelle camicie a manica corta che spegnerebbero ogni sguardo femminile. Sto guardando Gold – La grande truffa, ora nelle sale, il film diretto dal regista di Syriana Stephen Gaghan, in cui l’attore e produttore Matthew McConaughey interpreta la vera storia di Kenny Wells, un uomo d’affari che per anni ha cercato la fortuna senza successo finché, con l’aiuto di un geologo, sembra trovare il più grande giacimento d’oro del secolo.

In pratica McConaughey incarna lo spirito imprenditoriale dell’America nel 1988, alla fine di quello che è conosciuto proprio come il “secolo americano”. Per quanto si tratti della sua ennesima “umiliazione” fisica, non posso non ammirare la tenacia di Matthew, un uomo che da un giorno all’altro è fuggito dalla gabbia delle commedie romantiche e ha costruito un cambiamento radicale, centimetro dopo centimetro, fino all’apice raggiunto grazie al ruolo di malato terminale scheletrico in Dallas Buyers Club, che gli è valso un Oscar, un Golden Globe e chelo ha trasformato da oggetto del desiderio in attore di culto.

Non meraviglia che questo texano di Uvalde, 47 anni,abbia trovato la forza in valori veri, come la famiglia. Nel 2012 ha sposato la modella brasiliana Camila Alves, con cui ha avuto tre figli. E diventare padre gli ha portato molta fortuna, anche nel lavoro.

Chi è il suo personaggio in Gold e soprattutto che cosa vuole?
«Kenny Wells di mestiere fa il prospettore, cioè qualcuno che studia i terreni e fa ricerche minerarie. Nessuno sa mai in anticipo se le risorse ci siano effettivamente, ma un prospettore, in genere, raccoglie i soldi, mette insieme una squadra. E se non si trova niente e finiscono i soldi, si perde la squadra e si rimane soli. Ma Kenny Wells è il tipo che segue una voce interiore che gli dice di non mollare. Il 99 per cento dei prospettori non trova mai ciò che sta cercando. Kenny Wells sì, grazie alla forza della pura volontà».

Sembra più un’ossessione, non trova?
«Che tipo di ragazzo inizia da un bar polveroso e sull’orlo del fallimento a Reno, Nevada, e finisce a viaggiare nelle giungle dell’Indonesia, arrivando ad avere una società quotata a Wall Street? Sono molto attratto da personaggi come lui, dal loro spirito puro. Kenny aveva un’ossessione singolare, era un outsider, un sopravvissuto, un uomo al collasso. E, posso dirlo?».

Prego.
«Era un uomo che aveva due palle così. Ha avuto il coraggio di fare un biglietto di sola andata per IPAl’Indonesia per inseguire il suo sogno In un certo senso è qualcosa che ho fatto anche io».

Il 2010, infatti, è stato l’anno della sua svolta: era il fidanzato di ogni film romantico e da lì in avanti l’abbiamo vista in ruoli tostissimi come Killer Joe, Mud, Interstellar. Che cosa l’ha spinta a un cambiamento radicale?
«Una commedia è una favola, sai che cosa accadrà. Io cercavo un riconoscimento diverso e profondo da parte di chi mi guarda. Perché ho voluto smuovere le acque? Non lo so, nonostante abbia amato tutto quello che ho fatto in vita mia, qualcosa si è acceso. Ho iniziato a ricevere proposte di film indipendenti e a sentirmi attratto da gente e personaggi fuori da ogni tipo di convenzione».

In poche parole ha tolto di mezzo il fisico. Eppure lei resta uno degli attori più fisici in circolazione.
«Ero un atleta e vengo da una famiglia dove i muscoli contano. Una delle cose che mi piacciono di più al mondo è il movimento, usare il corpo. Ma ci sono almeno tre tipi di fisicità. La prima è nella testa, la seconda nel cuore e solo l’ultima è nei quadricipiti. E comunque è vero, sono un uomo molto fisico. Mi piace la vicinanza, il contatto, come amico, amante e persino sconosciuto, mi piace stare vicino alle persone».

La sua trasformazione in Gold è importante e radicale come quella fatta per Dallas Buyers Club.
«Il personaggio di Ron Woodroof era nell’ultima fase di una malattia terminale, ho praticamente smesso di mangiare e perso 30 chili. Con Kenny Wells ho iniziato il processo inverso, cercando di vedere il mondo attraverso i suoi occhi. Ho cominciato a bere birra e frullati e mangiare cheeseburger. Sei settimane dopo non riuscivo più ad abbottonarmi i pantaloni e in sei mesi ho preso 22 chili. Ho pensato a tutte le persone che avevo incontrato da piccolo, mio padre mi ha presentato molti uomini come Kenny Wells, lavoravano con lui nel settore petrolifero, lui stesso assomigliava molto a Kenny».

Che tipo di uomo era suo padre?
«Corpulento, del genere che non si guarda mai allo specchio perché non ha tempo. Ha investito in una miniera di diamanti in Ecuador, e non c’erano diamanti. È andato lì, ha preso il suo machete e si è fatto strada attraverso la giungla. Dicevamo sempre a papà che, se c’era di mezzo un affare fallimentare, lui si lanciava. Lui rispondeva che preferiva lavorare con persone divertenti e vivere un’avventura, piuttosto che fare davvero un buon affare con un gruppo di cadaveri».

Il film è stato girato nella giungla della Thailandia, nella stagione dei monsoni. Anche questa dev’essere stata una bella sfida.
«I nostri set sono stati letteralmente inondati e trascinati via dalle correnti. Siamo rimasti chiusi nelle roulotte per molto tempo. C’erano serpenti velenosi praticamente ovunque, ma soprattutto i nostri piani non contavano: un minuto pioveva, e giravamo alcune scene, e quello dopo sbucava il sole e allora facevamo tutt’altro. L’eccitazione e il mistero erano palpabili, in una simile situazione nessuno poteva nascondere la fatica».

Nel film molte scene sono state girate a Reno, in Nevada, dentro un bar chiamato The Three Greenhorns, che Kenny e i suoi collaboratori usavano come ufficio.
«Mio fratello maggiore è diventato multimilionario a 21 anni. L’attività petrolifera gli ha fruttato tantissimo, ma non aveva un ufficio. Soggiornava in un hotel a Houston o a Dallas quando faceva affari, si svegliava a mezzogiorno, bevendosi una caffettiera intera e poi si dirigeva verso un posto simile a quello che si vede nel film. Dalle due del pomeriggio a mezzanotte potevi guadagnare fino a 150 mila dollari, il denaro scorreva a fiumi e tanti come lui hanno fatto affari con i ragazzi con cui si andavano a bere una birra».

Lei nel film ha una fidanzata di lunga data, Kay, il classico rapporto iniziato da ragazzi.
«La storia è meravigliosamente semplice e questo ha a che col fatto che siamo nel 1988: i due non si sono mai lasciati, non hanno il lusso di poter discutere con l’analista o di dire: “Non voglio vederti mai più”. Lui è il ragazzo di cui lei si è innamorata, e lui la ama. Colpisce anche un certo rispetto tra i due, l’amore senza troppe elucubrazioni. Ne ho viste tante di storie così quando ero giovano in Texas».

Pensa ci sia una connessione tra il suo essere diventato padre, nella vita vera, e la buona sorte che accompagna la sua carriera?
«Hollywood è un mondo pieno di paure, sei sempre lì a chiederti quando lavorerai ancora, come andranno le cose, se procederanno bene e per quanto. Da padre ti senti più coraggioso, hai la forza di attraversare le zone buie. Se sei felice a casa, e io in famiglia sto molto bene, ti senti più libero di volare. O forse, di volare più in alto».

Intervista pubblicata su Grazia del 4 maggio 2017 

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Samuel L. Jackson: «Io violento? No, mi dipingono così».

16 giovedì Mar 2017

Posted by cristianaallievi in cinema, Miti, Personaggi

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black power, cinema, fashion, Icon, icona, interviste, Quentin Tarantino, Samuel L. Jackson, Skull Island, stile, uomo, Warner Bros

VOLEVA ESSERE IL JACQUES COUSTEAU NERO. E SI SENTE UN PITTORE DELLA RECITAZIONE. CONVERSAZIONE CON UN’ICONA DEL CINEMA CHE HA GIRATO PIU’ DI 150 FILM. E CHE NON TEME DI “SVUOTARE IL SACCO”, NE’ DI SBANCARE IL BOTTEGHINO

«Sono cresciuto nel Tennesse, il clima caldo e umido mi piace moltissimo. Alle Hawaii ci sono ottimi green e io sono un avido giocatore di golf. Inoltre vivendo a Los Angeles apprezzo molto quei quindici minuti al giorno di temporale. Ho vissuto per tre mesi in una casa sull’Oceano circondata da rocce, osservavo i fulmini arrivare dal cielo e sentivo la tempesta che batteva sulle vetrate, era una meraviglia». Siamo sulla terrazza di un hotel nel cuore di Beverly Hills. Dalla strada arriva il rombo delle auto di lusso che scorazzano sulla Sunset Boulevard, mentre questo uomo alto, elegante e dai modi raffinati mi racconta dei viaggi per le riprese dell’ultimo Kong: Skull Island, il film di Jordan Vogt-Roberts nelle sale dal 9 marzo. Ci sono almeno due aspetti che sorprendono incontrando Samuel L. Jackson di persona. Il primo è che l’icona di Spike Lee e Tarantino parla a ritmo di rap. La seconda è che dimostra quindici anni meno di quelli che ha. Nel prossimo film sarà il tenente colonnello Packard che sta per tornare a casa con i suoi soldati alla fine di un conflitto dall’esito non chiaro. Riceve una telefonata con la richiesta di scortare un gruppo di scienziati su un’isola del Pacifico, e sarà la sua ultima spedizione. Jackson si trasformerà in una specie di capitano Achab e King Kong- che sull’isola scopriremo essere un vero re- sarà la sua balena bianca. «Dopo le Hawaii e l’Australia le riprese si sono spostate in Vietnam, e lì ho visto una vera magia», continua. «Hanoi è come essere a New York, ma fatti di crack, e nella campagna circostante trovi una pace speciale. Andavo a lavorare alle cinque del mattino e vedevo centinaia di bambini dirigersi a scuola in bicicletta, gli uomini che si muovevano dalle risaie con i loro bufali d’acqua. Quello stile di vita comune, là fuori, ti da la sensazione che il comunismo non può essere così tremendo. Intendo il comunismo come lo vivono loro». Indossa coppola e giacca di una renna molto leggera, con pantaloni in lino color petrolio, e in poche frasi mi ha già detto tutto del suo mondo: golf, droghe, recitazione e politica sono temi che affronteremo poco dopo. Nel frattempo ho rintracciato il suo terzo marchio di fabbrica: l’attore che ha pronunciato 171 volte e in 27 film la parola “mother fucker” è talmente articolato nella conversazione da far pensare che i dialoghi proverbiali di Jules Winnfield (Pulp fiction), del Maggiore Marquis Warren (The Eightful Eight) o di Purify (Jungle Fever) li abbia scritti lui.

Tra poco vedremo le nuove avventure di King Kong, l’anno scorso era in Tarzan, un’icona del cinema accetta grossi blockbuster solo per denaro? «Scelgo questi film perché erano quelli che volevo vedere da bambino ed erano fatti della stessa materia dei sogni. Da piccolo vuoi stare con Tarzan, vivere nella giungla e vederlo combattere i leoni. È un ambiente piacevole in cui recitare, lo faccio molto volentieri».

Il film visto da bambino che le ha cambiato la vita? «Ne guardavo moltissimi nei weekend. Ero figlio unico, ho sempre fantasticato. Ero costantemente in un altro mondo e in un altro tempo, fino al punto in cui ho capito che non avrei mai vissuto dove mi trovavo, e che sarei stato un altro. Eppure fare l’attore non era realistico per la persona che ero, per chi ero sarebbe stato ipotizzabile diventare avvocato, insegnante o medico».

Invece è finito nel Guinness dei primati per aver realizzato il record di incassi al botteghino: com’è successo? «Ho pensato molto a come sono arrivato qui. Credo che il seme risalga alla sorella di mia madre. Era un’insegnante di arti performative e da molto piccolo ho vissuto in casa sua. Mi vestiva con abiti di scena e io “recitavo”, avevo tre anni. Mi piaceva quando le persone che venivano a trovarla applaudivano e mi dicevano “sei proprio bravo…”. Più avanti, al college, frequentando un corso per parlare in pubblico (consigliatoli per superare una lieve balbuzie, ndr), l’insegnante mi ha offerto di recitare L’Opera da tre soldi e io ho accettato. Mi ha appassionato così tanto da darmi di nuovo una ragione per entrare in classe».

Era uno che marinava? «Spesso e volentieri, ma da quel momento mi sono sentito incoraggiato, ho percepito la serietà di quello che facevo e la chance di una carriera anche per me. È stata la luce in fondo al tunnel».

Proprio ai tempi del teatro fumava erba, beveva e usava l’LSD. «Ero fuori di testa per la maggior parte del tempo, ma avevo una buona reputazione, ero sempre in orario e sapevo le battute alla perfezione. Però avevo un problema di dipendenze ed ero stufo, è così che ho deciso di disintossicarmi. Nel mezzo della riabilitazione ho capito che avevo fatto tutto quello che mi era stato detto di fare, bevevo alle feste perché la gente di teatro lo fa, e poi perché i famosi si devono comportare così e così, ma io avevo una mia individualità. Mi sono detto “e se dessi il meglio di me, senza usare nessuna sostanza, cosa succederebbe?”. All’improvviso è cambiato tutto».

Non ha più sgarrato? «No perché ho compreso che essere sobrio ed essere me stesso erano due cose correlate, e che sgarrare avrebbe significato tornare a vivere come vivevo prima. Essendo chiaro cosa preferivo, non c’è più stato pericolo».

In Django Unchained ha incarnato il personaggio nero più detestabile della storia del cinema, e in genere sembra avere una specie di predilezione per i personaggi intelligenti con una forte inclinazione per la violenza: da dove viene questa attitudine? «Non so se i personaggi sono davvero intelligenti, di sicuro ce ne sono alcuni più intelligenti di altri. Osservo molto come si comportano le persone, lo faccio mentre guido, viaggio, cammino. Leggo moltissimi romanzi, saggi e science fiction, mi piace prendermi la libertà di immaginare il livello di istruzione e di intelligenza di una persona, captare se ho davanti un uomo di mondo, un viaggiatore, se ha avuto esperienze militari e quanto è sofisticato. È in base a questi elementi che decido di dare più o meno comprensione e compassione ai miei personaggi, li costruisco per poi incarnarli».

Definirebbe Tarantino è un regista “violento”? «La violenza è un ingrediente dei suoi film, ma c’è anche molto altro. Con lui si filosofeggia parecchio, le persone raccontano molto di sé, come si sentono, come vedono il mondo e tutti sembrano avere un punto rottura, cose o persone che non tollerano. E agiscono proprio su quello, in modo molto peculiare. La forza viene loro dall’avere un certo punto di vista».

Qual è il confine tra la forza e la violenza? «Una certa dose di contenimento mista a compassione per gli esseri umani. Una persona normale non assalirebbe fisicamente un suo simile perché capisce le conseguenze di ciò che fa. Questo include la comprensione di diversi aspetti, che non devi fare male all’altro, che il corpo ha una certa dose di fragilità, che le tue azioni hanno delle conseguenze. La comprensione e una certa compassione per la condizione umana segnano quel confine, e i valori della persona determinano se cadrà preda della furia cieca o meno».

In che modo gestisce gli impulsi violenti? «Non ne ho. Mi arrabbio, ma non ho mai dato un pugno in faccia a nessuno, né ho sentito il bisogno di sparare a qualcuno o fargli del male perché non riesco a fargli capire qualcosa. Eppure la gente mi insulta quotidianamente. Sono su Twitter e FB, e tutti si sentono in dovere di dirmi quello che gli passa per la testa. Ma non reagisco mai in modo duro, non alimento l’attenzione che vogliono».

La sua attitudine verso la sensibilità e la fragilità, invece? «Sono sensibile verso la gente che mi tratta diversamente, non voglio si pensi che mi aspetto un trattamento privilegiato. La fama ha aspetti positivi, non fai la coda per prendere un aereo o entrare in un ristorante, puoi guidare la tua macchina fino alla porta di un locale invece di arrivarci a piedi. Ma sono attento al mondo che mi circonda e so di poter usare la mia notorietà per creare un certo livello di consapevolezza. La gente non sopporta che gli attori abbiano visioni politiche, ma devo difendere quello in cui credo, e sono sempre stato un animale politico».

È vero che ha lasciato il college per un anno, è stato membro delle Black Panthers, l’hanno sospesa dal Morehouse College per aver preso in ostaggio alcuni membri del Consiglio di fondazione- tra cui il padre di Martin Luther King– finchè un giorno l’FBI non è venuta a casa di sua madre per dirle che ha rischiato che le sparassero? «Mi sono occupato di diritti civili ma non sono mai sto membro della Pantere Nere, anche se le ho sempre capite. Sono nero e lo sono da sempre, sono sensibile ai problemi razziali che non sono mai stati circoscritti né a un certo periodo storico né a una zona del mondo. Le razze sono sempre state un problema, lo sono tutt’ora».

Condivide l’opinione secondo cui con Obama le cose sono peggiorate? «No, se ne è solo parlato di più perché molte persone non sono state contente di avere un presidente nero. Fuori da questo paese avete pensato che fosse fantastico che l’America fosse finalmente abbastanza cresciuta da eleggere un presidente di colore, si sarebbe pensata la stessa cosa se avessimo scelto una donna per la Casa Bianca».

Invece? «L’America non ama le donne al comando, a prescindere dal fatto che la Clinton sarebbe stata ideale o meno. Ma il problema è che di Obama la prima cosa che è stata vista non è la sua intelligenza: hanno detto subito “wow, è un presidente nero”. Questo è il seme del razzismo».

 Su Twitter Trump ha detto di non conoscerla, ma pare non sia vero. «Abbiamo giocato a golf insieme due volte».

Perché lo nega? «È semplicemente la natura di quello che fa, crea una sua versione dei fatti. Uno potrebbe pensare che non se lo ricordi, invece lo ricorda benissimo».

C’è qualcosa che si aspetta da lui? «No, e credo che non mi occuperò di questioni politiche per un po’. Vediamo cosa succede».

Il King Kong del suo prossimo film è stato descritto come una bestia ferale e un essere incompreso. Ma è anche un re che se ne sta per i fatti suoi, sulla sua isola è una specie di dio: lei si sente un po’ così, a Hollywood? «Chi, io? (scoppia a ridere, ndr) ».

In 40 anni di carriera ha girato 150 film. «Vado a lavorare tutti i giorni perché sento che è quello che devo fare e soprattuto che amo fare. Il mio lavoro mi nutre, e non credo siano in molti a poterlo dire del proprio. In realtà non vedo nemmeno quello che faccio come un lavoro, ma come il privilegio di poter uscire e creare qualcosa. Come un pittore e uno scrittore, ho l’opportunità di raccontare storie e fingere di essere qualcun altro».

Ha girato anche cinque film in un anno, per caso è un workaholic? «Quando un pittore finisce un quadro e lo mette ad asciugare non aspetta tre mesi per passare a un altro, perchè dovrei farlo io? Il mio bisogno di creare, a modo mio, è appunto un bisogno. Posso finire un film un giorno e andare su un nuovo set il giorno dopo, senza problemi».

Non sente mai il bisogno di cazzeggiare? «Normalmente a luglio non lavoro, volo da voi in Italia o in Francia. Adoro Capri, Napoli e la riviera, mi piace spingermi giù, fino verso la Sicilia».

È vero che sognava di lavorare in mare? «Prima di quel corso in teatro volevo diventare il Jacques Cousteau nero. Adoro nuotare e mi piace guardare documentari sull’oceano. Credo che sia la nostra prossima forma di vita sostenibile. Stiamo distruggendo la terra, spero non faremo lo stesso con il mare…».

Storia di copertina pubblicata su Icon Panorama di marzo 2017.

© Riproduzione riservata 

 

 

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