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Laetitia Casta, «Il matrimonio è stato un atto di ribellione»

10 mercoledì Apr 2019

Posted by cristianaallievi in arte, cinema, Moda & cinema, Personaggi

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coppie, Cristiana Allievi, fashion, interviste illuminanti, L'uomo fedele, Laetitia Casta, lavorare in coppia, Lily-Rose Depp, Luois Garrel, tradimento

Laetitia Casta, attrice e regista, 40 anni (photo by Philip Gay/F).

HA SPOSATO L’UOMO CHE AMA, FREGANDOSENE DEI PREGIUDIZI E DELLE ASPETTATIVE FAMILIARI. «MI SONO PRESA UN RICHIO», DICE L’ATTRIC E E MODELLA FRANCESE. CHE OGGI TORNA SUL SET DIRETTA DLA MARITO E CONFESSA: «NON È STATO SEMPLICE, HO LOTTATO PER FARMI RISPETTARE, IL CINEMA È UN MONDO ANCORA DOMINATO DAGLI UOMINI».

«Com’è stato girare un film con mio marito? Un’esperienza eccitante e ricca. E per fortuna è durata solo quattro settimane». Me la ricordavo così Laetitia Casta. Simile a un gatto che sembra sonnecchiare ma che, quando meno te lo aspetti, fa un incredibile balzo in avanti.  «Non ci conoscevamo come attrice e regista, in una situazione in cui lui lottava per il suo film e il suo personaggio, e io per il mio. Entrambi dovevamo sopravvivere». Dal momento che il marito di cui sta parlando è Louis Garrel, e che rappresenta una novità su più fronti, c’era da aspettarsi questo fuoco e fiamme. È l’uomo a cui ha detto finalmente sì, dopo anni di interviste in cui dichiarava che lei, il matrimonio, mai. E nel film in cui la vedremo dall’11 aprile Garrel la dirige ma è anche l’uomo che lei tradisce (per copione): di carne al fuoco ce n’è parecchia. Grazie all’escamotage del triangolo amoroso, L’uomo fedele indaga la natura dei sentimenti umani attraverso una storia densa, ironica e autoironica. La Casta è Marianne e vive con Abel (Garrel), finché non scopre di essere incinta del miglior amico di lui, Paul. A complicare le cose c’è la sorella di quest’ultimo, Eve (Lily Rose-Depp), che vuole strappare Abel a Marianne. Mentre me ne parla faccio un veloce ripasso mentale. Da top model planetaria Laetitia è finita su almeno un centinaio di copertine, fra cui ci sono Sport Illustrated e il nudo integrale su Elle. È diventata famosa grazie a un paio di jeans di Guess? di cui è testimonial dal 1993, ha conquistato l’attenzione nientemeno che di Yves Saint Laurent e in Francia la adorano tanto da averla scelta come “Marianne” nazionale (la donna simbolo della repubblica francese).

(continua…)

Intervista integrale pubblicata su F del 17 Aprile 2019

© Riproduzione riservata

Ana Beatriz Barros: «Ritorno per conquistarvi».

04 giovedì Ott 2018

Posted by cristianaallievi in Moda & cinema, Personaggi

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Ana Beatriz Barros, beauty, Brazil, Cristiana Allievi, fashion, interviste illuminanti, Karim El Chiaty, model

 

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La modella brasiliana Ana Beatriz Barros, 36 anni. 

«Da quando ho avuto mio figlio porto il 42 di scarpe, mi è cresciuto il piede di un numero». Scherza, Ana Beatriz, mentre prova gli stiletti per il servizio fotografico. Voce profonda e un marcato accento brasiliano nel suo inglese, quello di queste pagine è il primo lavoro che accetta da quando è rimasta incinta di Karim, avuto con l’imprenditore egiziano Karim El Chiaty, sposato nel 2016 a Mykonos. «Mio figlio ha nove mesi ed è la mia priorità assoluta. Ricordo quando viaggiavo quattro giorni alla settimana, dormivo sugli aerei e passavo il resto della giornata sui  set fotografici. Quando sei molto giovane lo puoi fare. Devi essere capace di stare da sola, non sa quanti compleanni ho passato in una stanza d’albergo… Ma ero molto focalizzata: io il successo l’ho cercato, da subito». Barros modella lo è nelle viscere, nonostante la sua vita di moda sia iniziata come quella di tante colleghe: è stata scoperta da un agente dell’agenzia Elite in spiaggia che aveva solo 13 anni. Poi ha vinto vari concorsi di bellezza, finché Guess l’ha lanciata con una campagna. Da lì in avanti ha lavorato per i più grandi della moda, da Victoria’s Secret a Chanel, da Gucci a  Dolce & Gabbana, finendo sulle copertine delle riviste di moda più importanti al mondo nonché fra le divine del calendario Pirelli.  Siamo nella suite veneziana dell’hotel Aman Venice, fuori vorrebbe piovere ma non succederà, mentre  Ana mi racconta che sono già passati 23 anni da quando  ha iniziato a fare la modella.

Cosa ricorda della sua infanzia? «Mio padre è un ingegnere meccanico, sono cresciuta in Brasile cambiando città ogni due anni. Uno dei miei ricordi più belli sono le vacanze dai nonni, nella loro fattoria a Mina Gerais, nel centro del Brasile. Andavamo a cavallo nella campagna, era meraviglioso».

Cosa è rimasto nei suoi occhi, di quell’epoca? «Il fiume, gli animali, il colore verde… Ancora oggi le amo stare dove ci sono l’acqua e il verde, è la cosa che preferisco al mondo».

Soffrirà, a vivere a Londra…«La nostra casa in South Kensington è piena di arte colorata, abbiamo  molti dipinti e statue di artisti brasiliani, è una casa allegra».

Quanto è stata ferma per la maternità? «Un anno e mezzo, e mi mancava il lavoro. Adesso che  Karin ha nove mesi posso tornare a lavorare, non con i ritmi che avevo prima di lui, naturalmente».

Sta allattando Karim? «L’ho fatto fino a sei mesi, poi ho perso il latte, altrimenti sarei andata avanti».

Com’è essere madre? «Tutti mi avevano detto che avere un figlio è bellissimo, ma finché non provi la sensazione in prima persona non puoi capire quanto sia magico. Per me essere madre è la cosa più bella che mi sia successa fino a qui».

Ha la sua famiglia intorno che l’aiuta? «Ho partorito in Brasile, poi siccome mio marito lavora in Egitto, a Londra, in Arabia, siamo dovuti venire via. Abbiamo una tata che ci aiuta».

Come vi siete conosciuti lei e suo marito? «In un bar di New York, mi ha chiesto come mi chiamavo e un suo amico gli ha detto “ma non si chi è?”.  Dopo quella volta ci siamo incrociati in altre due occasioni, se le racconto come non ci crede».

Sono tutta orecchi. «Stavo prendendo un caffè a Soho, e me lo sono ritrovato davanti. Qualche giorno dopo, ero a nord di Manhattan, dove non vado mai, e una mia amica stava facendo shopping. Stava provandosi non so quante paia di scarpe,  ci metteva così tanto che le ho detto “io vado a fare due passi”.  Ed ecco che lui passa di nuovo davanti a me… ».

A quel punto cosa gli ha chiesto se la stava seguendo. «No, ho pensato che forse era il caso di scambiarci i numeri di telefono! Sono abituata a chi cerca di attaccar bottone, non do confidenza a nessuno. Ma la terza volta… non potevo far finta di niente, infatti Karim mi ha chiesto il numero di telefono».

(… continua) 

Intervista di copertina pubblicata su Grazia, n. 42 del 4/10/2018 

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Samuel L. Jackson: «Io violento? No, mi dipingono così».

16 giovedì Mar 2017

Posted by cristianaallievi in cinema, Miti, Personaggi

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black power, cinema, fashion, Icon, icona, interviste, Quentin Tarantino, Samuel L. Jackson, Skull Island, stile, uomo, Warner Bros

VOLEVA ESSERE IL JACQUES COUSTEAU NERO. E SI SENTE UN PITTORE DELLA RECITAZIONE. CONVERSAZIONE CON UN’ICONA DEL CINEMA CHE HA GIRATO PIU’ DI 150 FILM. E CHE NON TEME DI “SVUOTARE IL SACCO”, NE’ DI SBANCARE IL BOTTEGHINO

«Sono cresciuto nel Tennesse, il clima caldo e umido mi piace moltissimo. Alle Hawaii ci sono ottimi green e io sono un avido giocatore di golf. Inoltre vivendo a Los Angeles apprezzo molto quei quindici minuti al giorno di temporale. Ho vissuto per tre mesi in una casa sull’Oceano circondata da rocce, osservavo i fulmini arrivare dal cielo e sentivo la tempesta che batteva sulle vetrate, era una meraviglia». Siamo sulla terrazza di un hotel nel cuore di Beverly Hills. Dalla strada arriva il rombo delle auto di lusso che scorazzano sulla Sunset Boulevard, mentre questo uomo alto, elegante e dai modi raffinati mi racconta dei viaggi per le riprese dell’ultimo Kong: Skull Island, il film di Jordan Vogt-Roberts nelle sale dal 9 marzo. Ci sono almeno due aspetti che sorprendono incontrando Samuel L. Jackson di persona. Il primo è che l’icona di Spike Lee e Tarantino parla a ritmo di rap. La seconda è che dimostra quindici anni meno di quelli che ha. Nel prossimo film sarà il tenente colonnello Packard che sta per tornare a casa con i suoi soldati alla fine di un conflitto dall’esito non chiaro. Riceve una telefonata con la richiesta di scortare un gruppo di scienziati su un’isola del Pacifico, e sarà la sua ultima spedizione. Jackson si trasformerà in una specie di capitano Achab e King Kong- che sull’isola scopriremo essere un vero re- sarà la sua balena bianca. «Dopo le Hawaii e l’Australia le riprese si sono spostate in Vietnam, e lì ho visto una vera magia», continua. «Hanoi è come essere a New York, ma fatti di crack, e nella campagna circostante trovi una pace speciale. Andavo a lavorare alle cinque del mattino e vedevo centinaia di bambini dirigersi a scuola in bicicletta, gli uomini che si muovevano dalle risaie con i loro bufali d’acqua. Quello stile di vita comune, là fuori, ti da la sensazione che il comunismo non può essere così tremendo. Intendo il comunismo come lo vivono loro». Indossa coppola e giacca di una renna molto leggera, con pantaloni in lino color petrolio, e in poche frasi mi ha già detto tutto del suo mondo: golf, droghe, recitazione e politica sono temi che affronteremo poco dopo. Nel frattempo ho rintracciato il suo terzo marchio di fabbrica: l’attore che ha pronunciato 171 volte e in 27 film la parola “mother fucker” è talmente articolato nella conversazione da far pensare che i dialoghi proverbiali di Jules Winnfield (Pulp fiction), del Maggiore Marquis Warren (The Eightful Eight) o di Purify (Jungle Fever) li abbia scritti lui.

Tra poco vedremo le nuove avventure di King Kong, l’anno scorso era in Tarzan, un’icona del cinema accetta grossi blockbuster solo per denaro? «Scelgo questi film perché erano quelli che volevo vedere da bambino ed erano fatti della stessa materia dei sogni. Da piccolo vuoi stare con Tarzan, vivere nella giungla e vederlo combattere i leoni. È un ambiente piacevole in cui recitare, lo faccio molto volentieri».

Il film visto da bambino che le ha cambiato la vita? «Ne guardavo moltissimi nei weekend. Ero figlio unico, ho sempre fantasticato. Ero costantemente in un altro mondo e in un altro tempo, fino al punto in cui ho capito che non avrei mai vissuto dove mi trovavo, e che sarei stato un altro. Eppure fare l’attore non era realistico per la persona che ero, per chi ero sarebbe stato ipotizzabile diventare avvocato, insegnante o medico».

Invece è finito nel Guinness dei primati per aver realizzato il record di incassi al botteghino: com’è successo? «Ho pensato molto a come sono arrivato qui. Credo che il seme risalga alla sorella di mia madre. Era un’insegnante di arti performative e da molto piccolo ho vissuto in casa sua. Mi vestiva con abiti di scena e io “recitavo”, avevo tre anni. Mi piaceva quando le persone che venivano a trovarla applaudivano e mi dicevano “sei proprio bravo…”. Più avanti, al college, frequentando un corso per parlare in pubblico (consigliatoli per superare una lieve balbuzie, ndr), l’insegnante mi ha offerto di recitare L’Opera da tre soldi e io ho accettato. Mi ha appassionato così tanto da darmi di nuovo una ragione per entrare in classe».

Era uno che marinava? «Spesso e volentieri, ma da quel momento mi sono sentito incoraggiato, ho percepito la serietà di quello che facevo e la chance di una carriera anche per me. È stata la luce in fondo al tunnel».

Proprio ai tempi del teatro fumava erba, beveva e usava l’LSD. «Ero fuori di testa per la maggior parte del tempo, ma avevo una buona reputazione, ero sempre in orario e sapevo le battute alla perfezione. Però avevo un problema di dipendenze ed ero stufo, è così che ho deciso di disintossicarmi. Nel mezzo della riabilitazione ho capito che avevo fatto tutto quello che mi era stato detto di fare, bevevo alle feste perché la gente di teatro lo fa, e poi perché i famosi si devono comportare così e così, ma io avevo una mia individualità. Mi sono detto “e se dessi il meglio di me, senza usare nessuna sostanza, cosa succederebbe?”. All’improvviso è cambiato tutto».

Non ha più sgarrato? «No perché ho compreso che essere sobrio ed essere me stesso erano due cose correlate, e che sgarrare avrebbe significato tornare a vivere come vivevo prima. Essendo chiaro cosa preferivo, non c’è più stato pericolo».

In Django Unchained ha incarnato il personaggio nero più detestabile della storia del cinema, e in genere sembra avere una specie di predilezione per i personaggi intelligenti con una forte inclinazione per la violenza: da dove viene questa attitudine? «Non so se i personaggi sono davvero intelligenti, di sicuro ce ne sono alcuni più intelligenti di altri. Osservo molto come si comportano le persone, lo faccio mentre guido, viaggio, cammino. Leggo moltissimi romanzi, saggi e science fiction, mi piace prendermi la libertà di immaginare il livello di istruzione e di intelligenza di una persona, captare se ho davanti un uomo di mondo, un viaggiatore, se ha avuto esperienze militari e quanto è sofisticato. È in base a questi elementi che decido di dare più o meno comprensione e compassione ai miei personaggi, li costruisco per poi incarnarli».

Definirebbe Tarantino è un regista “violento”? «La violenza è un ingrediente dei suoi film, ma c’è anche molto altro. Con lui si filosofeggia parecchio, le persone raccontano molto di sé, come si sentono, come vedono il mondo e tutti sembrano avere un punto rottura, cose o persone che non tollerano. E agiscono proprio su quello, in modo molto peculiare. La forza viene loro dall’avere un certo punto di vista».

Qual è il confine tra la forza e la violenza? «Una certa dose di contenimento mista a compassione per gli esseri umani. Una persona normale non assalirebbe fisicamente un suo simile perché capisce le conseguenze di ciò che fa. Questo include la comprensione di diversi aspetti, che non devi fare male all’altro, che il corpo ha una certa dose di fragilità, che le tue azioni hanno delle conseguenze. La comprensione e una certa compassione per la condizione umana segnano quel confine, e i valori della persona determinano se cadrà preda della furia cieca o meno».

In che modo gestisce gli impulsi violenti? «Non ne ho. Mi arrabbio, ma non ho mai dato un pugno in faccia a nessuno, né ho sentito il bisogno di sparare a qualcuno o fargli del male perché non riesco a fargli capire qualcosa. Eppure la gente mi insulta quotidianamente. Sono su Twitter e FB, e tutti si sentono in dovere di dirmi quello che gli passa per la testa. Ma non reagisco mai in modo duro, non alimento l’attenzione che vogliono».

La sua attitudine verso la sensibilità e la fragilità, invece? «Sono sensibile verso la gente che mi tratta diversamente, non voglio si pensi che mi aspetto un trattamento privilegiato. La fama ha aspetti positivi, non fai la coda per prendere un aereo o entrare in un ristorante, puoi guidare la tua macchina fino alla porta di un locale invece di arrivarci a piedi. Ma sono attento al mondo che mi circonda e so di poter usare la mia notorietà per creare un certo livello di consapevolezza. La gente non sopporta che gli attori abbiano visioni politiche, ma devo difendere quello in cui credo, e sono sempre stato un animale politico».

È vero che ha lasciato il college per un anno, è stato membro delle Black Panthers, l’hanno sospesa dal Morehouse College per aver preso in ostaggio alcuni membri del Consiglio di fondazione- tra cui il padre di Martin Luther King– finchè un giorno l’FBI non è venuta a casa di sua madre per dirle che ha rischiato che le sparassero? «Mi sono occupato di diritti civili ma non sono mai sto membro della Pantere Nere, anche se le ho sempre capite. Sono nero e lo sono da sempre, sono sensibile ai problemi razziali che non sono mai stati circoscritti né a un certo periodo storico né a una zona del mondo. Le razze sono sempre state un problema, lo sono tutt’ora».

Condivide l’opinione secondo cui con Obama le cose sono peggiorate? «No, se ne è solo parlato di più perché molte persone non sono state contente di avere un presidente nero. Fuori da questo paese avete pensato che fosse fantastico che l’America fosse finalmente abbastanza cresciuta da eleggere un presidente di colore, si sarebbe pensata la stessa cosa se avessimo scelto una donna per la Casa Bianca».

Invece? «L’America non ama le donne al comando, a prescindere dal fatto che la Clinton sarebbe stata ideale o meno. Ma il problema è che di Obama la prima cosa che è stata vista non è la sua intelligenza: hanno detto subito “wow, è un presidente nero”. Questo è il seme del razzismo».

 Su Twitter Trump ha detto di non conoscerla, ma pare non sia vero. «Abbiamo giocato a golf insieme due volte».

Perché lo nega? «È semplicemente la natura di quello che fa, crea una sua versione dei fatti. Uno potrebbe pensare che non se lo ricordi, invece lo ricorda benissimo».

C’è qualcosa che si aspetta da lui? «No, e credo che non mi occuperò di questioni politiche per un po’. Vediamo cosa succede».

Il King Kong del suo prossimo film è stato descritto come una bestia ferale e un essere incompreso. Ma è anche un re che se ne sta per i fatti suoi, sulla sua isola è una specie di dio: lei si sente un po’ così, a Hollywood? «Chi, io? (scoppia a ridere, ndr) ».

In 40 anni di carriera ha girato 150 film. «Vado a lavorare tutti i giorni perché sento che è quello che devo fare e soprattuto che amo fare. Il mio lavoro mi nutre, e non credo siano in molti a poterlo dire del proprio. In realtà non vedo nemmeno quello che faccio come un lavoro, ma come il privilegio di poter uscire e creare qualcosa. Come un pittore e uno scrittore, ho l’opportunità di raccontare storie e fingere di essere qualcun altro».

Ha girato anche cinque film in un anno, per caso è un workaholic? «Quando un pittore finisce un quadro e lo mette ad asciugare non aspetta tre mesi per passare a un altro, perchè dovrei farlo io? Il mio bisogno di creare, a modo mio, è appunto un bisogno. Posso finire un film un giorno e andare su un nuovo set il giorno dopo, senza problemi».

Non sente mai il bisogno di cazzeggiare? «Normalmente a luglio non lavoro, volo da voi in Italia o in Francia. Adoro Capri, Napoli e la riviera, mi piace spingermi giù, fino verso la Sicilia».

È vero che sognava di lavorare in mare? «Prima di quel corso in teatro volevo diventare il Jacques Cousteau nero. Adoro nuotare e mi piace guardare documentari sull’oceano. Credo che sia la nostra prossima forma di vita sostenibile. Stiamo distruggendo la terra, spero non faremo lo stesso con il mare…».

Storia di copertina pubblicata su Icon Panorama di marzo 2017.

© Riproduzione riservata 

 

 

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