«MANGIAVO SEMPRE, LA MIA ERA UNA FAME EMOZIONALE». DAL LOCKDOWN L’ATTRICE SI LASCIA ALLE SPALLE 40 CHILI. E SVOLTA: SI INNAMORA DI UNA DONNA, DIVENTA MAMMA, INTERPRETA UN FILM CHE FA (ANCHE) COMMUOVERE
di Cristiana Allievi
L’attrice e comica australiana Rebel Wilson, 42 anni.
Mettiamola così, se non avessimo avuto un appuntamento non credo che l’avrei riconosciuta. La regina di commedie hollywoodiane patinate come Le amiche della sposa e Pitch Perfect, con cui l’abbiamo scoperta, è distante mille miglia dalla donna che ho davanti. Siamo in un hotel di lusso a Zurigo, lei indossa una camicia in chiffon nero con pantaloni e tacchi di vernice in tinta. Il suo corpo è letteralmente la metà di quello quell’amica simpatica e in sovrappeso da cui tutti andavano a consolarsi a cui ci aveva abituati. L’anno della svolta è stato il 2020, quando ha iniziato a perdere i primi dei 40 chili che si è lasciata alle spalle. Mentre cercava un fidanzato, si è innamorata di Ramona Agruma, imprenditrice californiana con cui fa coppia dallo scorso febbraio. E pochi giorni fa, a completare questa specie di rivoluzione copernicana, è arrivata Royce Lilian, la figlia avuta con la maternità surrogata. Anche il cinema risponde a questo forte cambiamento, e dal 16 dicembre arriva The almond and the seahorse su piattaforma (Prime Video), che ha presentato all’ultimo Festival di Zurigo con la coprotagonista Charlotte Gainsbourg. È la storia drammatica (ma raccontata con leggerezza) di due coppie in cui un partner è affetto da una lesione cerebrale traumatica, e con il passare del tempo non riconosce più chi ha accanto e non ricorda la vita insieme.
Un bel salto, dalle commedie a cui ci aveva abituati. «In realtà con questo ruolo ritorno agli inizi, quando volevo diventare la prossima Judi Dench e mi esibivo a teatro con Shakespeare e Marlowe. Solo nel 2003, quando ho vinto una borsa di studio di Nicole Kidman, mi sono specializzata nella commedia, a New York».
Conosceva la malattia di cui parla il film? «Non sapevo molto ma ho avuto una nonna che ha sofferto di demenza senile e pian piano si è dimenticata di chi fossi, è stato tragico. Da quando ho girato il film non sa quante persone mi hanno detto “mio cugino ha avuto quella malattia…”, “mio marito ne soffre…”, è stata una scoperta».
Fra le altre cose, questo film ci mostra quanto non vogliamo che le cose cambino. «Il mio personaggio è un’archeologa, una metafora di tutte quelle persone che vorrebbero che il mondo tornasse a com’era prima della pandemia. Io non mi sento bloccata nel passato, sono fra i pochi che non vorrebbero mai tornare ai tempi del liceo».
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Intervista esclusiva pubblicata su F del 6/12/2022
CHE SIA IL GIOVANE DIVO PIU’ TALENTUOSO (E GLAM) DI HOLLYWOOD, NON SI DISCUTE. CHE SI METTA ALL A PROVA DI CONTINUO, NEMMENO. OGGI LO FA NELL’ATTESO BONES AND ALL, DI LUCA GUADAGNINO, DOVE È UN VAGABONDO ALLA RICERCA DEL PROPRIO POSTO NEL MONDO. TRA ROMANTICISMO E HORROR
di Cristiana Allievi
Pensando a lui, ci sono almeno due momenti difficili da dimenticare. Il primo è il pianto della scena finale di Chiamami col tuo nome, il film del 2017 di Luca Guadagnino in cui interpretava Elio, adolescente che si innamora di uno studente universitario americano ospite del padre, e quel ruolo insieme delicato e tormentato gli è valso la prima nomination agli Oscar, a soli 22 anni. Il secondo è il debutto alla mostra del cinema di Venezia: era il 2019, lui presentava The king, storia in costume del giovane Enrico V d’Inghilterra, e sul red carpet è arrivato con un completo grigio perla con fascia in vita di Haider Ackermann. Paradossalmente due momenti in cui ha segnato un nuovo modello di mascolinità, al passo con questi tempi fluidi. Oggi Timothée, a 26 anni, ha il curriculum di un divo consumato, forse anche grazie all’aiuto di Leonardo DiCaprio che nell 2018, in una specie di consegna del testimone si era raccomandato: “niente droghe e niente film di supereroi”. Lui ha avuto l’intelligenza di seguirlo, alternando film d’arte come Lady Bird e The French Dispatch, a titoli sbanca botteghino come Don’t look up e Dune, (di cui sta girando la seconda parte a Budapest). Oggi è il più desiderato, a Hollywood e dalle case di moda, senza mai aver fatto una campagna pubblicitaria: basta che indossi un capo scintillante (vedi anche l’ultimo red carpet di Venezia, con la blusa rosso fuoco sempre di Ackermann e la schiena completamente nuda), e sui social si scatena una febbre da rockstar. Padre giornalista francese, madre americana, ha per mentore Luca Guadagnino, che lo ha diretto di nuovo in Bones and all, in Concorso al Lido e nelle sale dal 23 novembre, di cui Chalamet è anche produttore. «Ha portato molte idee sul suo personaggio», ha dichiarato Guadagnino, «dimostrando di essere diventato un uomo».
Ha solo 26 anni ma… ricorda qual era il suo sogno di adolescente? «Lavoravo alla serie tv Homeland: caccia alla spia, e iniziavo a muovere i primi passi in teatro a New York. Il mio obiettivo era molto realistico, riuscire a mantenermi con la recitazione facendo qualche serie tv…».
Invece due anni dopo era sul set di Interstellar, con McCounaughey. «Matthew mi ha colpito per la sicurezza di sé che trasudava sul set. Posso dire lo stesso di Christian Bale, che ho incontrato per anni dopo in Hostiles: ostili. Quando mi ha chiesto di ripetergli il mio nome, per memorizzarlo, non sono riuscito a rispondergli. Ero paralizzato, non mi usciva la voce».
Ora però Luca Guadagnino dice che lei è diventato un uomo. «Girare di nuovo con lui una storia d’amore come Bones and All è stato un regalo. È ambientato nel 1980 in un’America ai margini. Ho cercato di immaginare cosa significasse essere lì senza telefoni, senza Google, ed entrare in quello che possono aver attraversato Lee e Maren (Taylor Russell, ndr). La loro è una storia di solitudine che ti fa andare fuori di testa e che assomiglia molto a quella che abbiamo vissuto nel lockdown, quando senza connessioni sociali si è allentata la nostra comprensione di chi siamo nel mondo».
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Intervista integrale pubblicata su Donna Moderna del 17 Novembre 2022
MAMMA COMUNISTA CONVINTA, FRATELLO CONSERVATORE DI DESTRA. LUI AFFASCINATO DA KARL MARX E OSSERVATORE DELLA REALTA’ ATTRAVERSO LA LENTE DI UNA SATIRA GRAFFIANTE. IL REGISTA SCANDINAVO RIVELA ANEDDOTI E RETROSCENA DEL SUO NUOVO TRIANGLE OF SADNESS (AL CINEMA) VINCITORE DELLA PALMA D’ORO A CANNES
di Cristiana Allievi
Il regista Ruben Ostlund, 48 anni, fotografato dalla moglie, la fotografa di moda Sina Ostlund. Ha vinto la seconda Palma d’Oro all’ultimo festival di Cannes.
È uno dei registi scandinavi più celebrati e premiati. In abito grigio, pochi minuti dopo che iniziamo a parlare sgranocchia pistacchi e non smetterà di scavare la coppa che c’è sul tavolo fino alla fine dell’intervista. 48 anni, due figlie avute da un matrimonio precedente e un figlio nato dal legame con la nuova moglie, la fotografa di moda Sina Görcz, Ostlund è noto per film provocatori che raccontano aspetti spiacevoli della natura umana. I due più recenti, The square e The triangle of sadness, hanno vinto la Palma d’Oro, rispettivamente nel 2017 e lo scorso maggio. Da quando gli sono arrivati i riconoscimenti più significativi del cinema, racconta a Panorama, ha ricevuto anche molte offerte, non ultime quelle dalle società di streaming. Finora le ha rifiutate perché non vuole rinunciare alla libertà di autodefinirsi che ha oggi con la sua società di produzione, la Plattform. Dopo essere stato accolto con ovazioni dalla stampa a stelle e strisce, The tringle of sadness è tra i film più visti. Intanto per il regista di Goteborg si parla di Oscar, addirittura in più categorie considerato che è di nuovo autore della sceneggiatura e che questo è il suo primo film in lingua inglese. Il punto di partenza, come sempre, è l’osservazione dei comportamenti comuni. I protagonisti, Carl and Yaya (interpretata dalla modella sudafricana morta all’improvviso lo scorso agosto a 32 anni,per una presunta infezione virale ai polmoni, ndr), modello e influencer, sono invitati per una crociera a bordo di un superyacht di ricconi al cui comando c’è un infervorato capitano marxista (Woody Harrelson). Sarà un’avventura dall’esito catrastrofico, con i sopravvissuti abbandonati su un’isola deserta e comandati a bacchetta da quella che prima del naufragio era la donna delle pulizie.
A cosa fa riferimento il triangolo del titolo? «È la zona fra le sopracciglia che è spesso corrucciata e crea rughe che il chirurgo estetico, usando il Botox, spiana in 15 minuti. La società contemporanea è ossessionata dall’immagine, molto meno dal benessere interiore».
Questo film è più duro del precedente. «Mentre terminavo le riprese ho pensato al personaggio di Christian di The Square e a quello di Thomas in Force Majeure. Sembra una trilogia sull’essere uomini, in cui tutti i personaggi cercano di cavarsela con l’idea di chi si suppone dovrebbero essere e ciò che ci si aspetta da loro. E io li metto in trappola per vedere come si comportano».
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Intervista integrale pubblicata su Panorama n. 47 del 16 Novembre 2022
Sette anni dopo l’attacco terroristico al Bataclan, l’attrice ci riporta in quella notte. E racconta come, per superare i traumi della vita, ci sia un’unica via da cui è vietato scappare. Lei ce l’ha fatta
di Cristiana Allievi
L’attrice e regista Noemie Merlant, 33 anni, in una foto di Gareth Cattermole (courtesy Vanity Fair).
Scavando bene a fondo nella nostra personalità rischiamo d’imbatterci in uno sconosciuto. Ed è un po’ quello che è successo a Noemie Merlant. Classe 1988, Parigina cresciuta nella Loira da genitori agenti immobiliari, comincia a lavorare come modella. Un’esperienza che no la convince, «mi sembrava sempre appartenere a qualcun altro», racconta. Il padre le suggerisce la recitazione, lei torna a sentire la linfa vitale. Ma il passaggio al cinema non è facile, per una ex indossatrice: troppi pregiudizi. Ma lei riesce comunque. Il debutto è nel 2011, seguono una serie di ruoli di ragazze più giovani della sua età, poi la svolta: Ritratto della giovane in fiamme, storia d’amore queer diretta da Celine Sciamma. «Quel film, insieme al movimento #metoo, ha cambiato la condizione di noi donne. Abbiamo ancora molti altri passi da fare, ma oggi ci sentiamo più legittimate a parlare e ad agire».
Dopo la corsa per la Palma d’Oro, a Cannes e le candidature ai Cesar, lei è addirittura diventata regista, a 33 anni, con Mi Iubita, Mon Amour, racconto (molto scoperto) del suo amore per il giovane rom Gimi Covaci, 13 anni di meno. Ora è al montaggio di un docu sulla sua famiglia, «mia sorella e mio padre sono disabili, voglio condividere con il pubblico l’armonia che vedo fra loro e mia madre, un figura invisibile che si dedica agli altri». L’anno prossimo, a febbraio, la vedremo in Tar, diretto da Todd Field: sofisticato lavoro di scrittura e regia che esplora la natura mutevole del potere, la sua durevolezza e l’impatto che ha sulle relazioni intime. Ma prima di calarsi nei panni di Francesca Lentini, l’assistente personale di una grande direttrice d’orchestra (Cate Blanchett) di cui sogna di seguire le orme, Noemie sarà Celine in Un anno, una notte, del regista spagnolo Isaki Lacuesta, in sala dal 10 novembre. Sette anni dopo l’attacco terroristico del Bataclan, il film racconta la storia di una coppia che quella sera del 13 novembre 2015 era proprio lì, al più tragico concerto di Parigi.
Lei interpreta una superstite che rifugge l’elaborazione del trauma. «In realtà, scappo solo all’inizio. La cosa incredibile di essere sopravvissuti a un attacco terroristico è che inizi a sentire di essere vivo. Questo ti permette di ricostruire l’amore che si era spezzato all’improvviso, dentro di te, e anche di tornare a dirigerlo verso un partner».
L’ha scoperto preparandosi per il ruolo? «Sì, ho studiato i dettagli della vita di chi era presente. Ramón Gonzalez, lo spagnolo che viveva a Parigi ed era al Bataclan insieme a due amici e alla sua ragazza, ha scritto il libro su cui si basa il film. È stato molto generoso nel raccontare cosa è successo in quella stanza, nel momento più difficile ed emotivo delle riprese è anche venuto sul set. E poi di traumi psicologici me ne intendo».
Li ha vissuti in prima persona? «Ricordo momenti d’ansia sin da bambina. E a 23 anni ho iniziato a soffrire di attacchi di panico».
Come ne è uscita? «Volevo trovare un modo per guarire senza prendere medicine, e ho incominciato a meditare. Ho imparato a guardare in faccia il pericolo».
Che cosa intende? «Di fronte a un pericolo il corpo produce un’adrenalina che ti serve a scappare via, ad andare il più lontano possibile. Ma se fuggi non scoprirai mai quello che ti fa paura. Lo stesso vale per l’angoscia, dove il pericolo è sconosciuto».
Una ragione latente, però, c’è sempre. «Sì, e devi “restare”, per scoprirla. Devi fermarti a guardare negli occhi la belva feroce. Non è la cosa più facile, ma è l’unica che funzioni. Poi scopri che ansia e panico sono sì problemi, ma anche motori che ti spingono fuori dalla comfort zone».
Lei ci si è abituata, a uscirne, visto il modo in cui spesso per lavoro ha dovuto rappresentare la sensualità. «Già. La meditazione è stata utile anche qui perché la sensualità, per me, ha a che fare con il momento presente, con la consistenza del tuo corpo in un preciso momento, tutte sensazioni che si percepiscono meditando».
Quanto spaventa gli uomini mostrare la sensualità e la potenza del desiderio femminile? «Parecchio. Decostruire dinamiche patriarcali fa molta paura, e quando cade l’immagine che abbiamo di un ruolo salta anche un equilibrio. La presa di potere da parte delle donne fa paura e genera diffidenza. Nel mio ambiente ti senti dire frasi come “Adesso vuole addirittura fare la regista?”».
Come reagisce? «All’inizio ero molto frustrata, sognavo di essere un’attrice e una regista ma non potevo parlare troppo ad alta voce per non disturbare. “Non diresti le parole giuste, sei una sconosciuta e rovineresti tutto…”, mi dicevoù».
Poi c’è stato il grande clamore di Ritratto della giovane in fiamme? «Quel film mi ha dato molta fiducia in me stessa, da lì in poi mi sono ascoltata di più, ho cercato di capire cosa volevo davvero. Ho lavorato il doppio di prima e ho iniziato a osare. Ho finalmente sentito di poter dire la mia e ho iniziato a farlo con i miei amici. Per me è già un bel cambiamento».
In Tar è l’assistente personale di una delle più grandi compositrici e direttrici d’orchestra viventi. Lo considera un film femminista? «Scegliere di mettere una donna al top di una carriera normalmente riservata agli uomini, e mostrare quanto sia talentuosa, mi farebbe dire di sì. Ma sarebbe dare una risposta a cosa è il film, e il suo intento è invece far nascere domande su dinamiche di potere profonde e sottili».
Quali dinamiche di potere si instaurano su un set in cui la protagonista è Cate Blanchett? «Per me Cate è un genio come la Lydia che interpreta. Nell’osservarla mentre faceva crescere il personaggio vivevo le stesse emozioni di Francesca, imparavo tanto quando Francesca impara da Lydia. Il carisma di Cate è qualcosa che non puoi spiegare a parole, ma lei è completamente diversa dal personaggio. Quando sei al top non è facile crerare un ambiente di rispetto per tutti, il processo creativo ti divora e non hai tempo per la gentilezza. Ma lei riesce ad essere molto attenta a che tutti vengano rispettati e ascoltati in ciò che hanno da condividere, è un modello importante».
Ne ha altri? «Mia madre, una helper di carattere che trova il senso della vita nel soccorrere gli altri. E io osservo che questa è un’idea figlia del patriarcato».
Sono argomenti di cui parlate? «Spesso. Lei non si è ha mai fatta certe domande, tutto era molto più rigido fino a poco tempo fa. Ma oggi analizza la sua vita e mi dice frasi come “non so più se è stata davvero una mia scelta, forse ho solo ceduto alle lusinghe…”, riferendosi a come è iniziata la storia fra lei e mio padre. A volte si spaventa, cerca rifugio in dinamiche conosciute. Mi dice “ho bisogno di qualcuno che mi protegga, e anche tu…”».
Cosa le consiglia? «Di prendere tempo per se stessa smettere di occuparsi degli altri, in questo caso di mio padre e di mia sorella che sono diversamente abili (il padre a seguito di un incidente, ndr). Le dico di non sentirsi in colpa quando si allontana».
E a se stessa, che consigli dà? «Di continuare a capire chi sono e cosa voglio. Sto iniziando a farlo a livello lavorativo: i prossimi due film da regista mi sono ben chiari. Il privato è un tasto più delicato. Più ci penso, più è dura capire cosa si vuole davvero nella vita. Ma, forse, è proprio il suo bello».
Intervista pubblicata su Vanity Fair del 9 Novembre 2022
CRESCERE LA BAMBINA CHE IL TUO COMPAGNO HA AVUTO CON LA EX. LO FA LA PROTAGONISTA DI I FIGLI DEGLI ALTRI, DI REBECCA ZLOTOWSKI. E LO HA FATTO ANCHE L’ATTRICE FRANCESE, «ESISTONO TANTI MODI DI ESSERE MADRE»
dI Cristiana Allievi
L’attrice Virginie Efira, 45 anni, alla Mostra di Venezia con il film I figli degli altri.
Ha un’aria complice, nel suo micro abito in velluto nero dalla scollatura profonda. Quando si siede davanti a me non posso fare a meno di notare gli slip in tinta che sbucano mentre accavalla le gambe. E di ricordare la celebre scena di Sharon Stone in Basic Instinct (in cui, però, gli slip non li indossava). Con quel film il regista Paul Verhoeven trent’anni rese l’attrice americana un’icona sexy. E siccome il caso non esiste, è stato lo stesso Verhoeven a trasformare Efira da mattatrice della televisione belga in una delle attrici piu’ quotate d’Oltralpe. In Elle era la moglie dell’uomo che veniva sessualmente soddisfatto dalla Huppert (premio Cesar e miglior film straniero ai Golden Globes del 2017). Poi, con Benedetta, nel 2021, ci ha fatto conoscere le fantasie erotiche della Carlini, suora italiana lesbica vissuta nel diciassettesimo secolo e accusata di blasfemia. Ora Virginie Efira cambia completamente registro. In I figli degli altri, di Rebecca Zlotowski, in Concorso all’ultima Mostra di Venezia, è una quarantenne che suona la chitarra, insegna al liceo, è bella e in ottimi rapporti con il suo ex. Quando pero’ si innamora di Ali (Roschdy Zem), vorrebbe diventare madre e non ci riesce, e si lega visceralmente a Leila, la bambina di 4 anni che lui ha avuto con la ex (Chiara Mastroianni).
Come definirebbe la Rachel che interpreta nel film? «È un misto fra me, la regista Rebecca Slotowski e il personaggio della sceneggiatura. Mi fa venire in mente una frase di Flaubert, “ogni cosa, se osservata per abbastanza tempo, diventa interessante”. Ed è cosi che accade con Rachel, la amiamo sempre piu’ mentre la vediamo attraverso molti prismi, nonostante sia una donna tutto sommato semplice.
Recitare con una bambina di quattro anni è difficile? «Ho fatto molti film accanto ai bambini, fino a oggi. Puo’ succedere che siano capaci di memorizzare le frasi e di restituirtele senza problemi, oppure non sanno le battute, e puoi indirizzarli in modo spontaneo nel dialogo. Nel caso della bambina del film io e Rebecca le parlavamo come se fosse una vera attrice. È speciale, non aveva i genitori alle spalle a spingerla, voleva davvero fare quello che ha fatto».
Quando si separa dal padre di Leila, spiega alla bambina che non farete più le vacanze insieme e non vi vedrete più cosi spesso. Quando finiscono le riprese è facile separarsi da un’attrice bambina? «Non puoi staccarti troppo brutalmente, come invece puoi permetterti di fare con un adulto. Sul set i piccoli a volte mi chiamano “mamma” e io rispondo “no, non sono tua madre, anche se sono qui con te…”. Pochi giorni fa una piccola mi ha detto “ci vediamo ancora, vero?”, le ho risposto “certo, mandami le tue foto…”. Poi non è che andiamo a prendere il gelato tutti i sabati, lei ha sua madre… Comunque dovrebbe vedere il mio cellulare, e’ pieno di messaggi di bambini non miei, e non solo di quelli conosciuti sui set».
Mi sta dicendo che e’ stata matrigna anche nella vita vera? «Molte volte. Ho 45 anni, chissà perché a 23 anni mi sono sposata con un uomo che ha tre figli (Patrick Ridremont, ndr). Ricorderò sempre la madre, per lei non è stato facile ma mi ha aiutata ad avere una buona relazione con le sue bambine, che non hanno mai fatto fatica a prendermi per mano, anche davanti a lei. Adesso sono madre, ma prima ho sempre avuto relazioni con uomini che avevano figli, evidentemente mi piaceva».
Le ex sono mai tornate indietro per riconquistare il compagno, come vediamo nel film? «Beh, conosco anche questa esperienza, con quel senso di sentirsi escluse che ne segue. Ma vede, io so anche quanto sia forte il legame, quanto sia delicata la posizione in cui ti metti scegliendo un uomo che ha gia’ avuto figli con un’altra donna. In qualche modo metti già in conto il fatto che se deludi qualcuno è naturale, perché dietro di te c’è sempre una “grande donna” che ti ha preceduta, e tu non sei la madre dei suoi figli. Questo solletica un certo senso di solitudine, infatti quando ho letto la sceneggiatura sono scoppiata a piangere».
(continua…)
Intervista integrale pubblicata su Donna Moderna del 22 settembre 2022
UN’INFANZIA DRAMMATICA DI TRAUMI E ABBANDONO. LA CARRIERA CONQUISTATA LOTTANDO PER OGNI SPAZIO. HOLLYWOOD CHE LA CHIUDEVA FUORI. SAMANTHA MORTON HA LAVORATO DURO, E CE L’HA FATTA. OGGI SI È MESSA NEI PANNI DI UNA REGINA CHE LE SOMIGLIA MOLTO
di Cristiana Allievi
Quanti dolori può contenere una persona dentro di sé? E dove trova la misteriosa forza che la fa continuare a vivere, addirittura a diventare genitore? «Io ho molta fede, e la fede guarisce anche le ferite più profonde». In un rovente pomeriggio di agosto la risposta mi arriva forte e chiara da Samantha Morton, mentre il giardiniere alle sue spalle inizia a tagliare l’erba. Per un verso una delle attrici e registe più significative del panorama indie contemporaneo, per un altro una sopravvissuta. Il perché è evidente. I suoi genitori si dividono fra abusi d’alcol e violenze varie quando lei ha solo tre anni. Poco dopo, a causa dell’incuranza di entrambe, inizia il suo peregrinare tra affidi e orfanotrofi. E proprio nelle case in cui avrebbe dovuto trovare protezione, a 13 anni subisce abusi sessuali da parte di due responsabili. La disperazione, però, è una forza potente, e Samantha la usa per passare il test di ammissione alla Central Junior Television Workshop, organizzazione che forma i giovani per entrare nel mondo del teatro, della radio e del cinema. Da lì cammina tanto da arrivare a lavorare con i migliori registi su piazza, come Steven Spielberg e Jim Sheridan, Woody Allen e David Cronenberg. Madre di tre figli avuti da due compagni diversi, è la donna perfetta per raccontare storie forti, come quelle in cui la vedremo nei prossimi giorni in anteprima mondiale alla Mostra del cinema di Venezia. The whale, il nuovo lavoro di Darren Aronofski, e She Said, di Maria Schrader, in cui veste i panni di Zelda Perkins, l’ex assistente di Harvey Weinstein. Prodotto da Brad Pitt, il film ha lo stesso titolo del libro delle due giornaliste del New York Times che hanno ricostruito e pubblicato la storia degli abusi sessuali del produttore cinematografico. Poi, dall’11 settembre, sarà nientemeno che la regina di Francia Caterina de Medici nella serie drammatica The serpent Queen (su STARZPLAY). «È riuscita ad avere un’enorme influenza politica per ben cinquant’anni», racconta a proposito della consorte di Enrico II, «e stiamo parlando del Seicento, un’epoca in cui le donne venivano bruciate come streghe, quando erano solo delle ostetriche».
Fino all’Ottocento l’italianissima Caterina è stata descritta come fredda, gelosa, vendicativa e avida di potere: lei che idea se n’è fatta? «Per me è una donna spirituale, una salvatrice che previene grandi disastri del tempo. Caterina vedeva molto lontano, è riuscita a quietare i conflitti fra cattolici e protestanti perchè aveva un modernissimo modo di permettere alle persone di seguire la propria fede. Chissà come sarebbe andata la storia se al potere non ci fosse stata lei».
Nella prima stagione scopriamo eventi della giovinezza e il percorso per arrivare a corte, poi cosa vedremo? «Da lì in avanti la storia si muoverà nella sua dimensione machiavellica. Si scoprirà come ha imparato a stare al gioco e a sopravvivere in famiglia, nel convento e infine a corte».
“Sopravvivenza” è una parola che le risuona? «Le racconto una storia. Molti anni fa ho chiesto al mio agente se potevo fare audizioni per i drammi in costume, ricordo che una regista donna in particolare mi rispose “non hai il sangue giusto, non sei l’animale giusto…”. Sono una persona comune, vengo dalla classe operaria dal nord dell’Inghilterra e non da una buona famiglia».
(continua…)
Intervista integrale pubblicata su Vanity Fair del 14 settembre 2022
L’attore, regista e produttore Sean Penn sul set del nuovo film da lui diretto e interpretato Una vita in fuga (Courtesy Lucky Red)
ARRIVA NELLE SALE UNA VITA IN FUGA, E RACCONTA LA VITA DEL PIU’ GRANDE FALSARIO DELLA STORIA USA. È IL DEBUTTO DI DYLAN PENN, PRIMOGENITA DI SEAN, CHE PER QUESTA VOLTA LA SEGUE MOLTO DA VICINO.
Ci sono almeno due volti di Sean Penn. Il primo è quello del (due volte) premio Oscar che si presenta all’intervista con le guardie del corpo. E quando entra dalla porta crea un misto di imbarazzo e meraviglia che fermano l’aria. Poi c’è l’altro Penn, quello della foto che ha fatto il giro del mondo nelle ultime settimane: cammina da solo con il suo trolley, sulla strada che dall’Ucraina lo porta in salvo in Polonia. A guidare entrambi i Penn è l’istinto, non fa differenza che si trovi a raccontare l’invasione russa in Ucraina, come sta facendo in questo momento, o i fili emotivi e misteriosi che legano un padre a una figlia, come vedremo nel suo Una vita in fuga (Flag Day) dal 30 marzo, dopo essere stato in Concorso a Cannes. È la storia del più noto falsario conosciuto in Usa, John Vogel, raccontata dalla figlia Jennifer nell’autobiografia Flim-Flam Man. Vogel (Penn) è un padre che insegna a vivere una vita avventurosa a Jennifer, ma man mano che lei cresce, le sue storie si scoprono sempre meno credibili e più dolorose, fino al tragico finale. A interpretare Jennifer è Dylan, la figlia che il divo americano ha avuto con la ex moglie Robin Wright. Quando parla di lei papà Penn si illumina.
Cos’ha di personale la storia di Una vita in fuga? «Ho sempre fallito nel rispondere a questa domanda, me ne sono accorto dopo svariati giorni da sobrio. È come spiegare perché mi piace quella donna, non ci riesco. Ho pensato raccontasse qualcosa che volevo approfondire, e quando mi è venuto in mente il volto di Dylan ho visto una grandiosa storia di verità e inganno, tutti aspetti dello stesso flag day (la festa che celebra la bandiera americana a stelle e strisce adottata il 14 giugno 1777, ndr).
È il primo film in cui recita e dirige insieme, oltre a guidare l’esordio di Dylan. Cercava una nuova sfida per i suoi sessant’anni? «Il multitasking mi ha sempre attratto e messo in ginocchio allo stesso tempo, non dirigermi era stata una specie di scelta religiosa. Sapevo che mi avrebbe fatto impazzire, e infatti è stata la cosa più dura che abbia mai fatto in vita mia».
L’ha anche costretta ad analizzare i suoi fallimenti come padre? «Da genitore devi riesaminare tutti i giorni il rapporto con i tuoi figli, è la cosa più vera che posso dirle. Ma sapevo dal primo giorno di riprese che sarei stato orgoglioso di Dylan, e che non sarebbe stato un fallimento».
Cosa, invece, non sapeva? «Quanto fosse sofisticata, quanta profondità avrebbe portato al racconto».
John Vogel amava molto la figlia, ma non riusciva ad essere sincero con lei… «La parte che ci siamo goduti io e Dylan riguarda certi aspetti della relazione, le cose che da padre vorresti credere che tua figlia conosca di te, e altrettante cose che una figlia vorrebbe che un padre capisse e sapesse di lei, nel bene e nel male».
Dylan Penn, interprete del film, al suo esordio da attrice e diretta dal padre Sean (courtesy Lucky Red)
(…continua)
Intervista pubblicata su Vanity Fair del 6 aprile 2022
L’attrice e regista Maggie Gyllenhaal su Vanity Fair.
Fa parte di una famiglia reale hollywoodiana, Maggie Gyllenhaal. Un vero e proprio clan di spiriti liberi che ha come capostipiti il padre Stephen, discendente di una famiglia aristocratica svedese, e la madre Naomi Foner, proveniente da una ricca famiglia ebrea newyorkese. Negli anni Settanta si sono trasferiti a Hollywood e sono diventati un riferimento, il pr9mo come come regista la seconda come sceneggiatrice. I loro due gemelli, Jake e Maggie, sono fra i più stimati attori in circolazione. Il marito di Maggie è l’attore statunitense Peter Sarsgaard, ed Emma Thompson e Jamie Lee Curtis sono amiche di famiglia. Rispetto al passato, Maggie è più rilassata davanti a una giornalista. Naviga fra i meandri sottili della psiche con una certa dimestichezza, mentre la conversazione prende una piega non casuale. Mi racconta come i bambini sviluppino una visione ambivalente della propria madre. Da una parte c’è quella buona, che nutre, consola e si prende cura, dall’altra c’è la versione “cattiva”, che non risponde quando la si chiama, è frustrata e vive in un suo mondo. In poche frasi, ecco spiegata l’attrazione per la Leda del suo primo film da regista, La figlia Oscura, adattamento del romanzo di Elena Ferrante al cinema dal 7 aprile. Ha già vinto una sfilza di premi, a partire da quello per la miglior sceneggiatura alla Mostra di Venezia, e con grande probabilità si aggiudicherà l’Oscar per lo stesso motivo. «Leda non è nè una madre mostruosa né una santa, è una figura ambivalente», racconta descrivendo la protagonista, una professoressa di letteratura italiana a Cambridge che si trova in vacanza in Grecia da sola. Osservando una giovane mamma (Dakota Johnson) con la figlia in spiaggia, inizia il suo viaggio fra i ricordi che la farà confrontare con le angosce e la confusione degli inizi della sua stessa maternità.
Cosa l’ha colpita del libro di Elena Ferrante? «A essere sincera non è stato solo La figlia oscura a colpirmi, ma tutto quello che Ferrante ha scritto. Dalle sue parole emerge un’esperienza, una domanda su cosa significhi essere una donna nel mondo, una madre che è allo stesso tempo un essere sessuale, emotivo e intellettuale. Si esprime con parole senza precedenti, disturbanti e allo stesso tempo confortanti, perché leggendole capisci che qualcun altro ha vissuto l’ansia e il terrore che hai vissuto tu».
In un certo senso, Ferrante ci dice che tutto quello che le donne desiderano a livello sessuale, professionale ed esistenziale è molto più di quanto non sia stato permesso loro anche solo di sperare. «È esattamente quello che penso, e il mio modo di mostrarlo è stato incollare la macchina da presa ai corpi di Olivia Colman e Dakota Johnson».
(continua…)
Intervista integrale pubblicata su Vanity Fair n. 12, 23 marzo 2022
NEGLI ANNI OTTANTA CI HA CONQUISTATI CON IL PRIMO BACIO. ORA AL CINEMA SOPHIE MARCEAU CI FA RIFLETTERE SULL’EUTANASIA. MA IL TEMPO NON L’HA CAMBIATA (O FORSE L’HA MIGLIORATA)
di Cristiana Allievi
L’attrice e produttrice Sophie Marceau come l’avevamo conosciuta nel film cult degli anni Ottanta, Il tempo delle mele. Si racconta nell’intervista uscita su Vanity Fair il 5 gennaio 2022.
Si avvicina con passo deciso. Quando me la ritrovo davanti fatico a credere che abbia 55 anni: ne dimostra dieci di meno. Avvolta in un tailleur color panna, l’attrice che negli anni Ottanta era l’idolo delle ragazzine grazie a Il tempo delle mele, accavalla le gambe in un modo che riesce solo alle dive francesi. Tra i suoi fan più appassionati c’è persino il regista Francois Ozon, che è riuscito ad averla in un suo film al terzo tentativo. La vedremo dal 13 gennaio in È andato tutto bene, adattamento del bellissimo libro di Emmanuèle Bernheim (Einaudi) in cui l’autrice condivide una parte di storia personale vissuta con suo padre. In Concorso all’ultimo festival di Cannes, il film vede Marceau interpretare la figlia di un uomo pieno di carisma e di successo, che però è stato un pessimo genitore. E dopo aver scoperto di essere malato, le gioca un ultimo colpo basso chiedendole di aiutarlo a morire.
Francois Ozon l’ha inseguita per anni. «In realtà prima di questo progetto ci eravamo incontrati di persona solo altre due volte. Non ho mai accettato di recitare per lui perché non mi sentivo a mio agio nei ruoli che mi proponeva. Ma amo i suoi film dal primo che ha diretto (Sitcom, la famiglia è simpatica, del 1998, ndr). Quando mi ha mandato la sceneggiatura di È andato tutto bene mi ha colpita la nettezza, quel non perdersi nelle emozioni. Abbiamo girato per due mesi, e anche se da attrice non sai mai quale sarà l’esito del tuo lavoro la collaborazione con Francois è stata perfetta».
Avete discusso di eutanasia, prima di girare questo film? «Certo, è importante sapere come la pensa un regista perché si possono vedere le cose molto diversamente. Ho provato ad approcciare il tema dal lato psicologico, visto il tema. Ma lui mi rispondeva “si ok, che cosa stavamo facendo?”. Ozon è un uomo che vede e capisce tutto, ma è di poche parole».
Però la ama: ha addirittura inserito nel suo lavoro precedente la scena de Il tempo delle mele in cui Pierre Cosso le mette le cuffiette del walkman… «Non lo ha fatto per me, semplicemente perché era innamorato dell’epoca incarnata dal film. È stata la nostalgia di quando eravamo giovani a ispirarlo, sappiamo tutti di cosa si tratta».
Oggi come vede Il tempo delle mele? «È stato un film super, grazie al quale abbiamo poi viaggiato in giro per il mondo. Non è stato solo turismo, in realtà ricordo molte stanze d’albergo. Però ho incontrato tante persone diverse, dal Giappone all’Italia, con cui discutere di un argomento universale: il primo bacio».
Anche in questo caso il tema è universale, se vogliamo… «Quello era il primo bacio, questa è la prima morte. Diciamo che è stato meno leggero da girare (ride, ndr)».
Che tipo di emozioni ha portato a galla, la morte? «Uno tsunami di emozioni, dalla risata alla disperazione. La perdita di una persona cara cambia gli equilibri delle vite di chi resta».
(continua…)
Intervista integrale pubblicata su Vanity Fair del 17/12/2021
Stringersi nei panni di una donna dell’Ottocento, soffrire per i lacci sociali, tirare un sospiro di sollievo per i tempi che cambiano: CÉCILE DE FRANCE e la bellezza dell’emancipazione
di CRISTIANA ALLIEVI
Cecile de France, 46 anni, è l’attrice belga più richiesta del cinema.
Mettiamola così: non è un caso che abbia appena finito le riprese di un film in cui vive in Bretagna e fa la pescatrice. I suoi occhi corrono veloci lungo il perimetro delle pareti della stanza in cui ci incontriamo. Dopo un’attenta analisi mi dice che l’orto che coltiva con i suoi figli è grande più o meno uguale: cinquanta metri quadri. E Lino e Joy, avuti con il marito Guillaume Siron, cantante e compositore del gruppo Starbilux, non vogliono più mangiare nemmeno un pomodoro uscito da un supermercato. Poi Cecile de France, 46 anni, passa ai racconti che ti aspetteresti dall’attrice belga più desiderata dal cinema internazionale, anche italiano (vedere alla voce Paolo Sorrentino, che l’ha volute nella serie The young pope). «Arrivavo da un piccolo villaggio, mi sono ritrovata in una scuola statale di Parigi, da sola, e la cosa non mi è piaciuta per niente», ricorda. Poi due frasi riassumono gli anni della sua educazione, «portavo i capelli rosso fuoco» e «facevo la ragazza alla pari per mantenermi». È dotata di una grinta che l’ha sempre spinta ad andare avanti, anche dopo che Clint Eastwood l’ha scelta per il suo Hereafter regalandole una fama di proporzione internazionale. All’ultima Mostra di Venezia è stata la nobile protagonista di Illusioni perdute, di Xavier Giannoli, adattamento di un romanzo di Honoré de Balzac, al cinema dal 30 dicembre in tutta la penisola. «Louise è una nobile che ama e protegge un giovane e promettente scrittore, e all’inizio mi ha molto confusa», racconta. «Perché sulle pagine di La Commedia umana, un vero e proprio classico dell’Ottocento era cinica, non aveva né cuore nè anima ed era quindi molto difficile da amare. Ma il regista l’ha trasformata, per il film l’ha resa sentimentale, drammatica, piena di passione e di sensualità. Molto più interessante da interpretare».
Però Louise è molto diversa dalle figure di donne indipendenti e libere a cui ci aveva abituati fino a qui. «È il contrario. Louise dipende da tutti, prima dal marito, poi dal giudice e soprattutto dalle regole sociali che non tollerano che una nobile ami un giovane di origini umili. Ma possiamo comprenderla, rinuncia all’amore solo per motivi di sopravvivere».
Come fa ad azzerare tutto e a pensare con la testa di una donna di duecento anni fa? «Mi lascio portare dall’abito. Il corsetto non fa respirare, infatti le donne dell’epoca non respiravano. E questo le fa ragionare di conseguenza».
Indossare il corsetto tutti i giorni le ha anche ricordato il percorso di emancipazione fatto fino a oggi?«Penso spesso a chi si è battuta per noi, a quanto dobbiamo ai sacrifici di vere e proprie eroine. Ma non è ancora finita, tutt’ora esistono ancora paesi in cui i padri scelgono i mariti per le loro figlie».
(continua…)
Intervista integrale pubblicata su Vanity Fair del 22 Dicembre 2021