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Cristiana Allievi

~ Interviste illuminanti

Cristiana Allievi

Archivi Mensili: dicembre 2017

Bambini diversi

22 venerdì Dic 2017

Posted by cristianaallievi in cinema

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Tag

bambini meravigliosi, cinema, emozioni, Film di Natale, Jacob Tremblay, Julia Roberts, Natale 2017, Owen Wilson, rai cinema, Wonder

CHE SIANO PRODIGIO O MOLTO FRAGILI, SONO UNA MERAVIGLIA. CE LO INSEGNA UN FILM DI CUI È PROTAGONISTA  LO SPLENDIDO JACOB TRAMBLEY, DI ANNI 11

 

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Jacob Trambley, 11 anni (courtesy BuzzFeed)

 È una certezza. Perché non c’è dubbio che a Natale ci farà piangere tutti, grandi e piccoli. In Wonder di Stephen Chbosky, il film delle feste di Rai Cinema con Leone Film Group nelle sale dal 21 dicembre, Jacob Trambley è Auggie. Un bambino speciale, una “meraviglia”, come suggerisce l’omonimo best seller del 2012 di R.J. Palacio da cui è tratto il film, nonostante la rara malattia che lo ha colpito sin dalla nascita sfigurandogli il volto. Riuscirà ad attraversare la scomodità dell’ingresso a scuola e a conquistare un posto nel mondo, oltre che nel cuore dei suoi compagni, grazie alla sua intelligenza brillante e alla gentilezza innata. Ma anche grazie a una mamma e un papà (Julia Roberts e Owen Wilson) che con la sorella (Izabela Vidovic) non smettono un minuto di amarlo e sostenerlo. Jacob, il bambino che sta dietro a questo personaggio, nonostante le protesi che indossa per questioni di copione, riesce a creare una forte empatia con lo spettatore. Del resto quando di anni ne aveva solo nove aveva già interpretato Jack, il figlio di Brie Larson in Room. Da lì in avanti ha girato un film dopo l’altro, tra cui Il libro di Henry con Naomi Watts e nientemeno che La mia vita con John F. Donovan, il prossimo film di Xavier Dolan che vedremo prossimamente. Insomma, ha solo 11 anni ma di fatto quella che incontriamo è già una (piccola) star.

 Cosa ci racconti del tuo personaggio, come descriveresti Auggie? «È un bambino con una faccia diversa da quella degli altri, a causa di una malattia che si chiama sindrome di Treacher Collins. Riceve un’istruzione a casa, finchè la mamma decide di mandarlo in una scuola pubblica e per lui inizia una grande avventura. Dovrà superare la vergogna e il bullismo, è una storia bellissima!».

Come ti sei preparato? «Ho incontrato alcuni bambini del SickKids Hospital di Toronto. E soprattutto sono andato due volte di fila al raduno annuale della Children’s Craniofacial Association, che si occupa delle famiglie con bambini affetti da quel tipo di malattia. Ci siamo divertiti, abbiamo mangiato cose buonissime e ho scattato alcune foto che ho radunato in un libro, insieme alle lettere che mi hanno scritto. Con questa esperienza ho compreso davvero che tutti i bambini sono normali, e vogliono essere trattati con gentilezza».

Cosa consiglieresti ad altri che incontrano qualcuno come Auggie, che è un po’ diverso dagli altri? «Suggerirei di non stare a fissarlo, è davvero scortese. E poi direi di non farsi influenzare e di essere amici di tutti».

Hai dovuto indossare protesi per il film? «Ogni giorno mi sottoponevo a due ore di lavoro per trasformare la mia faccia. Ma la cosa bella è che avevo un enorme iPad su cui ho guardato molti film».

Ad esempio? «La storia fantastica, parecchi lavori di Adam Sandler e Star Wars, sono patito della saga. Nella mia camera ho cinque grandi costruzioni di Star Wars fatte col Lego, un’altra mia passione, quando viaggio mi regalano sempre nuove scatole».

Da due anni lavori con le star del cinema, com’è andata con Julia Roberts e Owen Wilson? «Owen è molto divertente, ed è bravissimo. Julia è molto carina, e poi è sempre allegra! L’ho osservata con attenzione e credo di aver imparato molto da lei».

Avete cercato di creare una relazione madre-padre-figlio, per il film? «Ci siamo conosciuti prima ma non moltissimo, il mio lavoro con le protesi portava via parecchio tempo tutti i giorni».

La tua vita è cambiata da quando hai girato Room? «Moltissimo, faccio interviste, conosco tante persone nuove e viaggio spesso. Sono stato in Europa, Messico, Africa, Asia, il Giappone mi è piaciuto moltissimo per il cibo e per le piante fiorite».

 

(…continua)

Intervista pubblicata su F del 21 dicembre 2017 

© RIPRODUZIONE RISERVATA

 

L’arte viva di Julian Schnabel

13 mercoledì Dic 2017

Posted by cristianaallievi in arte, cinema, Cultura, Miti, pittura

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Tag

artisti, cinema, creazione artistica, icone, Julian Schnabel, New York, Pappi Corsicato, pittori

Il film di Pappi Corsicato omaggio all’artista newyorkese. Due anni di lavoro che offrono allo spettatore la sensazione di aver conosciuto un gigante

«L’unica foto di me che mi piace davvero è una in cui sto surfando. Ogni volta che la guardo cerco di ricordare la sensazione che provavo in quel momento. È una sensazione unica e irripetibile, mentre stai cavalcando un’onda, è potentissima».

L’acqua, il surf, la natura sono elementi chiave per Julian. Così come lo sono i suoi figli, gli amici e l’atto del creare un’opera d’arte.

In questo senso L’arte viva di Julian Schnabel, nelle sale come evento speciale il 12 e 13 dicembre grazie Nexo Digital, racconta un uomo attraverso le sue autentiche passioni.

Si può chiamarlo un viaggio che parte dall’Italia, dall’isola di Li Galli, davanti a Positano, e finisce nell’empireo dell’arte.

Oppure si può vederlo come l’omaggio di un artista a un altro artista.

 

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Julian Schnabel nel film di Pappi Corsicato (Nexo Digital)

Pappi Corsicato conosce Julian Schanbel (nato a New York nel 1956) da molti anni. Prima come pittore, poi come amico con cui trascorrere le vacanze. E a un certo punto dev’essergli scattato qualcosa dentro, per cui ha deciso di raccontarlo attraverso il film prodotto da Buena Onda con Rai Cinema.

Ci sono voluti due anni per girarlo, e l’effetto è potente: si esce dalla sala con la sensazione di aver conosciuto davvero un gigante, in tutti i sensi. Ci sono il suo amato pigiama, la dimora di Long Island e il palazzo in stole veneziano nel West Village di New York, i figli, le mogli e l’amata natura.

Soprattutto c’è lui, un artista esploso nella New York degli anni Ottanta, con Andy Warhol e Jeff Koons, amico di Al Pacino, Bono e Lou Reed, che nel film vediamo ritratto mentre è intento a creare le proprie opere.

Si alternano in sottofondo le testimonianze di amici e galleristi, che creano un bellissimo affresco.

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Julian Schnabel all’opera, nella natura (courtesy of Nexo Digital)

«Ho lasciato che Pappi frugasse nei miei archivi, anche se non ero entusiasta di partecipare a un film su di me, né ero nel migliore degli umori, in quel periodo. Ma Pappi è una persona molto gentile, ha un modo di fare le cose che mi ha conquistato. È un’operazione delicata, ognuno ha la propria visione delle altre persone, e se lo avesse girato la mia seconda moglie, un film su di me, o mia figlia Lola, entrambe ottime registe, sarebbe stato un lavoro diversissimo».

Al centro di tutto sta l’arte, o meglio la creazione artistica, cuore della vita personale di Schnabel, declinata in giganteschi dipinti e film come Lo scafandro e la farfalla (Miglior regia al Festival di Cannes, due Gloden Globe e la nomination come miglor regista agli Oscar), oPrima che sia notte (Leone d’argento e Gran premio della giuria al Festival di Venezia).

E poi ci sono il mare, le onde, il surf.
Molta acqua. «Per me è una macchina contro la gravità. È terrorizzante e potente allo stesso tempo, mi rigenera. E poi l’acqua è l’incarnazione delle memorie. Nella mia vita ho passato moltissimo tempo in acqua. Ed è il ricordo di me da bambino, quando mia madre mi abbracciava: l’acqua è la mia giovinezza».

Articolo pubblicato su Panorama il 13 dicembre 2017

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Noomi Rapace: «Ora che non sono più Lisbeth».

01 venerdì Dic 2017

Posted by cristianaallievi in cinema, Cultura, Personaggi, Torino Film Festival

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Tag

cinema, Cristiana Allievi, Grazia, Millennium, Noomi Rapace, Seven Sisters, Star, Torino Film Festival

 

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L’attrice Svedese Noomi Rapace, 37 anni (courtesy Pinterest)

«Quando ero ragazza giocavo solo con i maschi. Poi a 13 anni mi sono infuriata quando ho capito che mi guardavano con un occhio più sessuale. Allora ho preso una decisione: “sarò io quella al comando, mi amerete ma non mi avrete mai…”». Noomi Rapace è un incrocio fra ghiaccio e fuoco, e questo la rende una donna unica nel suo genere, prima che un’artista fuori dai canoni. Figlia di un’attrice svedese e di un cantante di flamenco gitano, il suo carattere mascolino venato di una forte femminilità è un cocktail esplosivo che l’ha resa l’attrice svedese più famosa del mondo dai tempi della Bergman. 37 anni, nata a Hudiksvall, nel nord della Svezia, a sette era già sul set del primo film. La fama mondiale arriva nel 2009, grazie al ruolo di Lisbeth Salander, l’hacker geniale e violenta protagonista degli adattamenti cinematografici della trilogia Millennium, scritta dallo svedese Stieg Larsson.

Oggi vive a Londra, con il figlio Lev avuto dal primo marito, Ola Rapace. E tanto quanto si concede completamente sul set, nella vita reale è riservatissima: da quando si è seprata dal campione di kickboxing Sanny Dahlbeck, due anni fa, non si sa praticamente nulla delle sue relazioni sentimentali. Il futuro lavorativo, invece, la vede impegnata in film importanti, come Bright di David Ayer, con Will Smith e Joel Edgerton, e soprattutto Stockholm, accanto a Ethan Hawke. Nel 2018 interpreterà Ferrari di Michael Mann, in cui è Linda, moglie del fondatore della casa automobilistica. Ma già in questi giorni affronta una grande sfida: interpretare le sette sorelle di Seven Sister, presentato al Torino Film Festival. Siamo nel 2073, in Cina, sotto un regime che costringe le famiglie ad avere un solo figlio e a ibernare quelli in più. L’amore di un nonno (Willem Defoe), però, potrebbe costituire un’eccezione. Quando la figlia muore di parto dando alla luce sette gemelle, lui decide di nasconderle escogitando un modo geniale per salvarle tutte: usciranno a turno, una volta alla settimana, fingendo di essere la stessa persona. Le donne sono tutte interpretate da Noomi Rapace.

Come è riuscita a calarsi in sette personalità differenti? «È stata un’esperienza molto fuori dall’ordinario. Per un lungo periodo ho vissuto in una realtà parallela, non sono mai uscita di sera, non ho visto nessuno, dentro di me non c’era spazio per nient’altro che non fossero queste sette donne. Mi venivano a prendere all’alba, e prima ancora andavo in palestra. Dopo questa interpretazione ho rifiutato molti film, ho avuto bisogno di un lungo stacco».

Era completamente sola, sul set? «Per due mesi e mezzo sì. Poi mi ha raggiunta Willem ed è stato un sogno. Ricordo di essere scoppiata a piangere, mi ha fatto molto effetto avere qualcuno vicino».

Interpreta spesso donne difficili, che tengono tutto dentro. «Il mio temperamento è caldo ma ho imparato a controllare le emozioni, perché nella cultura svedese non sono apprezzate, si aspettano che non mostri troppo di te. Ho dovuto imparare a controllarmi, ed è diventato un lavoro».

Però dopo aver interpretato la Lisbeth di Millennium ha dichiarato di essere stata male. «Finite le riprese sono corsa in bagno a vomitare, il mio corpo l’ha letteralmente rigettata. È stato come un esorcismo».

In Seven sister cambia identità, intenzione e look in modo sorprendente. Riesce ad essere sofisticata e ambiziosa, new age, atletica, sensibile, un maschiaccio e molto altro ancora. «Sono tutte parti di me, e quando l’ho riconosciuto il lavoro è diventato più semplice. Per anni ho praticato boxe e arti marziali, era la mia parte combattente, ma sono stata anche una punk, i piercing di Lisbeth erano i miei. E poi c’è una parte di me che sembra fredda ed egoista, ce n’è una selvaggia, insieme a quella sexy e più femminile».

[…]

L’intervista integrale è pubblicata su Grazia del 30/11/2017 

© Riproduzione riservata

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