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Cristiana Allievi

~ Interviste illuminanti

Cristiana Allievi

Archivi tag: New York

L’arte viva di Julian Schnabel

13 mercoledì Dic 2017

Posted by Cristiana Allievi in arte, cinema, Cultura, Miti, pittura

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Tag

artisti, cinema, creazione artistica, icone, Julian Schnabel, New York, Pappi Corsicato, pittori

Il film di Pappi Corsicato omaggio all’artista newyorkese. Due anni di lavoro che offrono allo spettatore la sensazione di aver conosciuto un gigante

«L’unica foto di me che mi piace davvero è una in cui sto surfando. Ogni volta che la guardo cerco di ricordare la sensazione che provavo in quel momento. È una sensazione unica e irripetibile, mentre stai cavalcando un’onda, è potentissima».

L’acqua, il surf, la natura sono elementi chiave per Julian. Così come lo sono i suoi figli, gli amici e l’atto del creare un’opera d’arte.

In questo senso L’arte viva di Julian Schnabel, nelle sale come evento speciale il 12 e 13 dicembre grazie Nexo Digital, racconta un uomo attraverso le sue autentiche passioni.

Si può chiamarlo un viaggio che parte dall’Italia, dall’isola di Li Galli, davanti a Positano, e finisce nell’empireo dell’arte.

Oppure si può vederlo come l’omaggio di un artista a un altro artista.

 

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Julian Schnabel nel film di Pappi Corsicato (Nexo Digital)

Pappi Corsicato conosce Julian Schanbel (nato a New York nel 1956) da molti anni. Prima come pittore, poi come amico con cui trascorrere le vacanze. E a un certo punto dev’essergli scattato qualcosa dentro, per cui ha deciso di raccontarlo attraverso il film prodotto da Buena Onda con Rai Cinema.

Ci sono voluti due anni per girarlo, e l’effetto è potente: si esce dalla sala con la sensazione di aver conosciuto davvero un gigante, in tutti i sensi. Ci sono il suo amato pigiama, la dimora di Long Island e il palazzo in stole veneziano nel West Village di New York, i figli, le mogli e l’amata natura.

Soprattutto c’è lui, un artista esploso nella New York degli anni Ottanta, con Andy Warhol e Jeff Koons, amico di Al Pacino, Bono e Lou Reed, che nel film vediamo ritratto mentre è intento a creare le proprie opere.

Si alternano in sottofondo le testimonianze di amici e galleristi, che creano un bellissimo affresco.

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Julian Schnabel all’opera, nella natura (courtesy of Nexo Digital)

«Ho lasciato che Pappi frugasse nei miei archivi, anche se non ero entusiasta di partecipare a un film su di me, né ero nel migliore degli umori, in quel periodo. Ma Pappi è una persona molto gentile, ha un modo di fare le cose che mi ha conquistato. È un’operazione delicata, ognuno ha la propria visione delle altre persone, e se lo avesse girato la mia seconda moglie, un film su di me, o mia figlia Lola, entrambe ottime registe, sarebbe stato un lavoro diversissimo».

Al centro di tutto sta l’arte, o meglio la creazione artistica, cuore della vita personale di Schnabel, declinata in giganteschi dipinti e film come Lo scafandro e la farfalla (Miglior regia al Festival di Cannes, due Gloden Globe e la nomination come miglor regista agli Oscar), oPrima che sia notte (Leone d’argento e Gran premio della giuria al Festival di Venezia).

E poi ci sono il mare, le onde, il surf.
Molta acqua. «Per me è una macchina contro la gravità. È terrorizzante e potente allo stesso tempo, mi rigenera. E poi l’acqua è l’incarnazione delle memorie. Nella mia vita ho passato moltissimo tempo in acqua. Ed è il ricordo di me da bambino, quando mia madre mi abbracciava: l’acqua è la mia giovinezza».

Articolo pubblicato su Panorama il 13 dicembre 2017

© RIPRODUZIONE RISERVATA

La libertà di correre, secondo Pierre Morath

03 sabato Giu 2017

Posted by Cristiana Allievi in cinema, Cultura, Personaggi, Sport

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Tag

corsa, Cristiana Allievi, Free to run, KAthrine Switzer, maratona, New York, Noel Tamini, Olimpiadi, Pierre Morath, Spiridon, Steve Prefontaine

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Pierre Morath, giornalista sportivo, regista, storico ed ex atleta (foto di Miguel Bueno).

 

Chi crede che infilarsi le sneakers e lanciarsi in una corsa al parco sia uno dei gesti più naturali che si possano immaginare, non crederà ai propri occhi. Davanti alle immagini di Free to run (al cinema), si resta di stucco e allo stesso tempo si esce galvanizzati. Si vedono i primi corridori “liberi” per le strade del Bronx a petto nudo, inseguiti dalla polizia come sovversivi. Ma anche la nascita della Maratona di New York, le battaglie di Steve Prefontaine -il James Dean della corsa-, le vittorie olimpiche di Franck Shorter e le prime Olimpiadi a cui parteciparono anche le donne.

Pierre Morath, 47 anni, svizzero francese, è l’autore di un vero e proprio inno alla libertà individuale attraverso la corsa. Il suo occhio di storico e giornalista ha voluto raccontare una storia sportiva facendola andare di pari passo con le trasformazioni sociali e, soprattutto, con gli step dell’emancipazione femminile. Perché per quanto surreale sia da credere, le donne hanno dovuto lottare persino per conquistarsi il diritto di correre, e hanno potuto partecipare alla prima Olimpiade solo nel 1984. «Sono state Bobbi Gibb e Kathrine Switzer a sfondare vere barriere ideologiche», racconta Morat, un incrocio perfetto tra Chris Martin, Vincent Cassel e Benedict Cumberbatch, «quando i preconcetti e l’ignoranza in fatto di medicina faceva si che esistessero slogan come “se corri diventerai un uomo” e “se ti spingi oltre gli 800 metri ti cadrà l’utero…” volte a scoraggiare le donne», ricorda questo runner che ha mancato le qualificazioni alle Olimpiadi di Atlanta del 1996 nei 1500 metri per colpa di una tendinite. Quello che mostra sembra un altro mondo. «Negli anni Sessanta lo sport non era visto come oggi, era una cosa utile nella misura in cui si gareggiava e si dava visibilità a un team e a una nazione, altrimenti non aveva senso. Inoltre la corsa era praticata solo in pista, in un’area chiusa, e la maratona non solo era vista come qualcosa per ottimi atleti, ma era la specialità dei lavoratori, contro la corsa sulla media distanza che vedeva tra i suoi runnes studenti di medicina». In pratica correre in mutande per strada, e senza essere dei campioni, era vista come una follia, e dal 1968 in poi, allo scoppio delle prime proteste, la libertà di correre viene presa anche in Europa come il simbolo di egualitarismo e di ribellione nei confronti di una società troppo conformista.

Nel 2002, quando viene folgorato dalla storia di Kathrine Switzer e Noel Tamini, Morath non è un regista ma sta scrivendo un libro sulla corsa su strada. Inizia a collaborare come giornalista con una tv di Ginevra e nel 2005 dirige il suo primo documentario, Les regles du jeu, ritratto del mondo dell’hockey su ghiaccio, Nel 2008 è la volta di Togo, ambientato nel paese africano. «Racconta la miracolosa qualificazione della squadra di football per la World Cup nel 2006, uno specchio di come il football in Africa fosse connesso alla politica: “se ci qualifichiamo tutti i problemi spariranno”, dicevano». E in effetti la qualificazione della nazionale ha evitato una guerra civile ormai alle porte. Più avanti, nel 2012, Morath fa una divagazione dal mondo dello sport con Chronique d’une mort oubliée, la ricostruzione del caso di Michel Christen, trovato nel suo appartamento a Ginevra a due anni dalla morte.

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Gli archivi olimpionici costano qualcosa come 20 mila dollari per un minuto di immagini, e allo stesso tempo mostrare un movimento “libertarian” che diventa liberalismo, come quello della corsa, diventa un’ossessione per Morath. Ma nel frattempo si è affermato come regista ed è riuscito a raccogliere il budget di un milione e mezzo di euro, così contta la donna che lo aveva folgorato anni prima. «Katherine era una teeneger americana a cui il padre consiglia di correre un miglio al giorno per diventare forte. Lei si allena, si sente sempre meglio, ma la federazione non vuole farla correre con gli uomini». A Boston nel 1967 si corre la prima maratona aperta a tutti, e lei riesce a farsi registare ufficialmente con il nome di un uomo. Ma Jock Semple, direttore della corsa, si presenta in pista per strapparle il pettorale numero 261 e farla ritirare dalla corsa. Stretta tra il fidanzato e il coach, la Switzer procede fino al nastro d’arrivo. «Quando ho contattato Kathrine è stata molto aperta, ma tempo dopo ho scoperto che era piuttosto scettica: da giornalista non credeva che saremmo riusciti a terminare il lavoro. Mi ha aiutato molto a fare le prime interviste, è diventata centrale nel film perché il problema delle donne lo è, in questa storia. All’epoca non esisteva la medicina sportiva, e la verità è che la società aveva paura che le donne lasciassero le case come mogli e madri, l’idea era troppo spaventosa». Mentre quella combatte la sua battaglia negli Usa, dall’altra parte del mondo, in Svizzera-dove il clima è ancora più inflessibile e le donne non hanno nemmemno diritto di voto- c’è Noel Tamini, fondatore della rivista Spiridon. È l’uomo a cui si deve la diffusione di una nuova visione della corsa a lunga distanza e il recupero del suo aspetto mistico in mezzo alla natura. E soprattutto è lui che mostra le prime immagini di donne che corrono e sono belle, femminili e in forma.

E se si vede Spiridon che contribuisce in modo fondamentale all’emancipazione dai sistemi federali per organizzare gare al di fuori degli stadi, una delle provocazioni di Free to run è mostrare gli Usa come pionieri di qualcosa di “libero”, per trasformarlo poco dopo in un business. In questo senso Fred Lebow, entusiasta della corsa e con grandi visioni imprenditoriali, è un personaggio chiave: è lui ad aver fondato la maratona di New York trasformando una corsa di poche centinaia di persone in una delle sfide più ambite al mondo, e in un affare da milioni di dollari. «Da storico è interessante chiedersi dove ci ha portati la rivoluzione. Nel 2017 abbiamo un senso idealistico degli anni Settanta, ma si dice che molti rivoluzionari dell’epoca oggi lavorino in banca. E la Nike, che era una società anti establishment, insieme a McDonald è diventata un simbolo del capitalismo moderno».

Le immagini finali del film trasportano lo spettatore in un’Etiopia in cui si corre di nuovo liberi nella natura. «Noel Tamini è il mio eroe, il mio modello. È l’uomo che ha creato un cambiamento di coscienza in Europa, ma appena ha visto il suo amore trasformato in business se n’è andato in Africa a “vivere con se stesso”». Non solo, a quanto pare. Perché lì ha fatto rivivere lo spirito originario e libero da cui era nata la maratona.

Articolo pubblicato su D La Repubblica  del 3/6/2017

© Riproduzione riservata 

 

 

 

 

 

 

Emma Stone, «Sognare è potere»

14 mercoledì Dic 2016

Posted by Cristiana Allievi in cinema, Mostra d'arte cinematografica di Venezia, Personaggi

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Tag

Amazing Spider Man, Andrew Garfield, Arizona, Birdman, Cabaret, Coppa Volpi, Cristiana Allievi, Damien Chazelle, Easy Girl, La La Land, Maniac, New York, Ryan Gosling, Steve Carell, The battle of the sexes, Woody Allen

CAMALEONTICA E IN CONTINUO MOVIMENTO: EMMA STONE È LA CREATURA DI HOLLYWOOD CHE PIU’ INCANTA PER IL TALENTO NEL CAMBIARE PELLE. E RUOLI. IN LA LA LAND SVELA IL SUO PUNTO FERMO: LA CERTEZZA CHE I SOGNI TI INDICANO SEMPRE LA STRADA.

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Sul tavolo davanti a noi c’è una Red Bull. Emma Stone racconta che berla sarà un evento speciale: «lo farò alla fine della nostra intervista», scherza. È un camaleonte, questa giovane donna. Basta guardare le sue foto per accorgersi che la sua personalità è in continua evoluzione. Torna con la memoria alle sue prime audizioni e al feeling di essere rifiutata, che dall’alto di venti film girati, con tanto di nomination all’Oscar e Coppa Volpi vinta all’ultima Mostra d’arte cinematografica di Venezia, sono ormai un ricordo lontano. «Non ho mai avuto un momento in cui ho pensato di fare le valigie e tornarmene a casa. Ma a essere onesta non mi sono mai esposta completamente». Non una frase a caso, perché in La La Land di Damien Chazelle, in cui la vedremo dal 26 gennaio accanto a Ryan Gosling, Emma incarna Mia, un’apprendista attrice che tenta di sfondare in teatro e intanto sbarca il lunario servendo cappuccini alle star del cinema. La relazione con Sebastian (Gosling), musicista jazz, dapprima aiuterà entrambi, poi il successo separerà le loro vite. «Mia è una donna che rischia molto. Passa sei anni a creare qualcosa di completamente suo. È la scrittrice, l’interprete e la regista di un one woman show: con queste premesse un rifiuto è devastante, e per fortuna non mi è mai successo di sperimentarlo. Ma sa cosa le dico? Ho imparato più dalle difficoltà, anche nelle mia vita privata, e dai film che non sono andati bene, che dalle esperienze che definiamo di successo. Le crisi ti costringono ad andare più in profondità, a essere migliore, a diventare più forte. E soprattutto a farti domande sul come hai fallito e su quanto tu stessa sia capacace di deludere gli altri. Tutto questo significa diventare davvero essere umani».

L’attrice nominata agli Oscar per Birdman, in cui era un’adolescente in difficoltà che rendeva la vita difficile a un padre ex celebrità decaduta, nelle vene ha sangue svedese (dal nonno paterno), inglese, tedesco, scozzese e irlandese. E non si definirebbe mai una ribelle. «Sono stata fortunata, non avevo da nascondere nulla perché ho sempre potuto parlare con mia madre. I miei genitori mi hanno fatto il miglior regalo che si possa fare a un figlio, non mi hanno vista come un’estensione di se stessi. Avevo sogni e obiettivi diversissimi dai loro, che hanno rispettato». Non ricorda la reazione di suo padre, quando gli ha presentato il primo ragazzo, «evidentemente era un tipo a posto», mentre ricorda un momento di felicità assoluta con lui, a cinque anni, seduta nel patio di casa, durante la stagione dei monsoni in Arizona, dove è cresciuta: se ne stavano lì a mangiare noccioline, indisturbati davanti allo spettacolo di una tempesta. Più avanti, a 15 anni, Emma ha convinto i suoi a farle mollare la scuola per trasferirsi a Hollywood: è bastata una presentazione in PowerPoint, con tanto di titolo, per farli cedere. È così che si è trasferita con la mamma a Los Angeles. Me lo racconta in una mattina di sole nel patio di un hotel italiano, senza perdermi un attimo con quei grandi occhi verdi. Se le si chiede come vede la strada fatta fin qui, oggi che è una delle attrici più ricercate su piazza, non ha dubbi. «Due anni fa ho letto in un’intervista qualcosa che mi ha colpita. Si diceva che i sogni sorgono per incontrarci, trasformandosi in opportunità, e sto scoprendo che è proprio così: è il mio lavoro, in un certo senso, a rivelarsi a me. Quando sono volata a Los Angeles volevo diventare attrice perché mi piaceva recitare in teatro e fare commedie. In questi ultimi tredici anni i miei sogni sono apparsi facendomi incontrare opportunità che non avrei mai immaginato. Oggi mi sento più radicata di quando ho iniziato, posso affrontare sfide più grandi». In effetti l’asticella si è alzata parecchio per lei, in una manciata di anni. Ha iniziato con un reality show che le ha portato piccole parti in tv, poi è venuto il cinema, fino al ruolo da protagonista che l’ha lanciata in Easy Girl. Da lì in avanti ci ha stupiti con il calore di Gwen Stacy in Amazing Spider-Man e soprattutto ha dimostrato che appena le danno più spazio è perfettamente capace di gestirlo, vedere alla voce Magic in the Moonlight e Irrational men, la doppietta con Woody Allen. Il personaggio che interpreta accanto a Gosling in La La Land (per i due attori è il terzo film insieme) è una lettera d’amore alla vecchia Hollywood sotto forma di musical che il regista di Whiplash ha scritto, oltre che diretto. La Stone recita, canta e balla. «Io e Ryan ci siamo allenati per due mesi col ballo e prendendo lezioni di canto. Ma la chiave della riuscita, quella che lei prima chiamava naturalezza, è stata Damien. Ci ha detto che non dovevamo sembrare ballerini di Broadway, quello che gli importava vedere erano gli errori e il feeling di essere vivi. Diciamo che ha tolto un po’ di pressione anche nei momenti in cui mi sentivo stonata».  Una delle frasi forti di Mia è “voglio essere vista”, che presto si trasforma in “voglio essere trovata”. «In me c’è una vulnerabilità che finalmente inizio ad accettare. Da giovane non mi sentivo abbastanza sicura per poter gestire tutti questi sentimenti, non li capivo, recitare mi ha dato spazio per farlo. Ero molto ansiosa, quindi le commedie erano perfette per me. Adesso quella fase è finita, e da adulta posso dire che è molto più terapeutico accettare me stessa. Sentirmi più sicura permette a emozioni “spaventose” di arrivare in superficie, e questo a sua volta mi fa crescere anche come artista. In un certo senso ho più paura ma ho anche molto più da dare al pubblico». Anche Cabaret, il musical di Broadway che l’ha impegnata fino a prima delle riprese con Chazelle, ha fatto la sua parte. Ha cantato otto volte alla settimana, 40 canzoni in tutto, perdendo spesso la voce, per altro profondissima. «Lavorare in teatro ti rafforza, mi ha fatto vedere la recitazione da un’altra prospettiva. Indipendentemente da come ti senti tutte le sere sei sul palco, dopo un po’ perdi la paura di sbagliare». È un tema su cui torna più volte, durante la conversazione, come quando le chiedi qual è la cosa più coraggiosa che ha fatto in vita sua. «Mi sento fiera quando riesco davvero a esprimere quello che sento, può essere anche dire di no a qualcosa o a qualcuno».

Cresciuta in Arizona a pane e musical (recitava con il Valley Youth Theatre), con il padre Jeff, imprenditore, e la madre Krista, casalinga, racconta che quando sua nonna ha visto La La Land si è messa a piangere. «Se penso che è sposata con il nonno da 55 anni significa che la storia d’amore che si vede sullo schermo tocca proprio tutti. C’è sempre qualcuno nella nostra vita per cui ti chiedi “perché non ha funzionato?” o “come sarebbe stato se fosse andata avanti?”. Anch’io quando ho letto la sceneggiatura ho pianto». La cosa la riguarda da vicino, tra l’altro. Quando è girata la voce che lei e Andrew Garfield si erano lasciati, nonostante i due non abbiano mai confermato né smentito la loro storia, durata almeno quattro anni, in molti hanno vociferato che fosse a causa dei troppi impegni presi su set distanti. «No, io e Andrew non ci siamo lasciati per questo motivo, ma preferisco non spingermi oltre su questo tema».

Come Matthew McConaughey, Nicole Kidman e molti altre celeb, Emma sarà presto protagonista anche del piccolo schermo. Il primo progetto di cui si mormora è  Maniac, una serie da 30 minuti a puntata con il collega di Superbad Jonah Hill. È un’altra pietra miliare per l’attrice, che si misurerà anche con il ruolo di produttrice. La prossima primavera, a Londra, inizierà le riprese di The favourite con Yorgos Lanthimos, il regista di quel capolavoro stravagante che è The Lobster. Ma prima avremo il piacere di vederla in The Battle of the sexes, diretta da Jonathan Dayton, il film che ricostruisce l’epico confronto sul campo da tennis del 1973 in cui si sfidarono Billie Jean King e Bobby Riggs, interpretato da Steve Carell. «È un film incredibile, ha lo stesso direttore della fotografia di La La Land, Linus Sandgren, e gran parte della troupe. È un film così diverso da quelli che ho fatto finora, non avevo mai recitato una persona davvero esistita come Billie Jean King. E quello che voglio portare a un regista, oggi, è un senso di apertura e di esplorazione, un’attitudine a immergermi nello sconosciuto».

Amica di Mila Kunis e Taylor Swift, ha due miti: Diane Keaton e Marion Cotillard, di cui ha ripetuto all’infinito le scene de La vie en rose nel privato della sua stanza. Mentre in pubblico ha imparato a fare i conti con la celebrità. «Per il novanta per cento del tempo riesco ancora ad andare al supermercato. Il restante dieci per cento del tempo mi trovo gente che mi fotografa fuori dalla porta di casa, lontano dal contesto di un festival o di una premiere. Può essere spaventoso e invadente, è come se sentissero che gli devi qualcosa perché ti vedono da qualche parte, vogliono strapparti qualcosa». Anche per questo motivo la Stone ha lasciato Los Angeles per New York, «almeno lì quando entri in un ristorante non ti guardano tutti per vedere chi sei, come succede a Los Angeles. Se sento la pressione del gossip perché lavoro con uomini meravigliosi? Certo, devo proteggere me stessa. Così come devo stare attenta a quello che leggo…».

Cover story D La Repubblica del 10 dicembre 2016 

© RIPRODUZIONE RISERVATA

 

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