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Cristiana Allievi

~ Interviste illuminanti

Cristiana Allievi

Archivi Mensili: settembre 2017

Human Flow: quando la bellezza racconta bene una realtà devastante

02 sabato Set 2017

Posted by cristianaallievi in cinema, Cultura, Mostra d'arte cinematografica di Venezia

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Tag

Ai Weiwei, arte, attivista, Cristiana Allievi, Human Flow, profughi, Venezia74

Meglio lasciarsi andare per apprezzare la forza del primo vero film dell’artista ribelle. Come Ai Weiwei si è lasciato andare per entrare nelle ragioni, speranze e potenzialità del grande flusso umano che attraversa questo secolo

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Davanti allo scorrere di immagini di straordinaria bellezza non si può che lasciarsi andare. Anche se, come nel caso dei 140 minuti di Human Flow, si tratta di un flusso umano di uomini, donne, bambini, che si spostano scappando dai luoghi del mondo devastati da guerra, carestie e cambiamenti climatici con zaini e sacchetti di plastica, coperti alla meglio per isolarsi dal freddo e diretti nei campi profughi.
Il paradosso del film di Ai Weiwei presentato in concorso alla Mostra di Venezia (e nelle sale dal 2 al 5 ottobre distribuito da 01 Distribution), è che tanta bellezza estetica racconta una situazione devastante. 65 sono i milioni di persone nel mondo che sono state costrette a lasciare le proprie case di cui 300.000, tra il 2015 e il 2016, erano bambini che viaggiavano da soli, senza adulti a guidarli o sostenerli. Quello che mette in luce l’occhio di Weiwei è la forza dei profughi, il loro mettersi alle spalle un passato per esplorare un futuro ignoto, in poche parole la loro umanità.

E a chi ha fatto notare che l’estetica della pellicola è troppo alta, per un simile tema, il regista cinese ha risposto senza esitazioni in un incontro per la stampa. «Nella storia del genere umano le grandi sofferenze non si contano, quella dei rifugiati è solo una parte. Ma la nostra evoluzione ha tratto forza proprio dal cercare la bellezza, principio per cui un artista deve riuscire a lottare: un documentario non è la realtà, è il racconto di una nuova realtà, quindi ha un’estetica lavorata».

Sessant’anni anni, Weiwei è un artista, designer e attivista celebrato, perseguitato e noto per uno spirito da fuorilegge. Suo padre, il poeta Ai Quing, è stato esiliato e la famiglia ha vissuto per 20 anni in un provincia sconosciuta della Cina, finché nel 1981 si è trasferito a New York. «So cosa significa essere torturati, il film è nato nel periodo in cui ero recluso, non avevo ancora il passaporto». Ha girato gli eventi che vediamo sullo schermo nel corso di un anno, attraverso 23 paesi, dal Bangladesh alla Turchia, dalla Grecia al Kenya, e questa è la sua opera prima da regista.

«Per me è stato un viaggio nella realtà, un’esperienza di studio da cui sono stato travolto, sono entrato nel progetto quasi per caso e senza preparazione. Ma il mio interesse era maggiore del raccontare una semplice storia: per illustrare una situazione così complessa occorreva fare riprese in vari posti, e raccontare la dimensione del fenomeno. Già a New York negli anni Ottanta avevo realizzato più di 10 mila ore di documentari sui diritti umani. E ci sono miei film sperimentali in cui con una sola inquadratura ho realizzato 150 ore di girato. Human Flow sembra lungo? Non è niente in confronto».

La produzione del film è vastissima, ha incluso 200 persone di troupe e ha avuto costi elevatissimi. «Come artista indipendente non ho mai usato il criterio del budget. Ho sempre detto “andiamo avanti”, anche a costo di interrompere un progetto a metà. Per fortuna in questo caso a metà strada si sono unite persone. Non importa quanto grandi sono stati gli investimenti, la possibilità di esprimere quel tema viene prima».
Crede che il nostro paese abbia un occhio giusto verso il problema dei profughi. «L’Italia ha una lunga storia di emigrazione e immigrazione. La vostra posizione politica vi fa gestire i rapporti col mondo in modo diverso dal resto del mondo, voi mantenete una cultura di comprensione del fenomeno».
C’è da chiedersi dove veda ancora la speranza, da uomo e artista, dopo tutto quello che ha visto in vita sua. «In tutti i paesi del mondo in cui sono stato ho incontrato differenze di povertà e di disastri ambientali. Ma ciò che mi ha colpito di più sono stati i bambini e la loro innocenza, quella voglia di correre dietro alla troupe e quell’innocenza che hanno negli occhi. Mi ha fatto rendere conto che da troppo tempo ci siamo dimenticati di quello sguardo. Credo nella fantasia, quando c’è esiste ancor una possibilità. Ecco perché continuo a fare arte».

Articolo pubblicato su GQ Italia

© Riproduzione riservata

Ethan Hawke, spirito e carne in First Reformed

01 venerdì Set 2017

Posted by cristianaallievi in cinema, Miti, Mostra d'arte cinematografica di Venezia

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Tag

Amand Seyfried, Ethan Hawke, First Reformed, Paul Schrader, ricerca di dio, spirito, Venezia74

La disperazione e la ricerca di Dio davanti allo sfacelo in un film preciso che incalza lo spirito senza tregua

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L’attore texano Ethan Hawke in una scena di First Reformed di Paul Schrader.

Dalle prime inquadrature arriva chiaro il messaggio: si tratta di un film riflessivo, intenso, senza scampo. Lo dicono la composizione delle immagini, studiatissima, e il gioco di luci dell’alba invernale, dominante del film. Come il volto del suo interprete, Ethan Hawke, inquadrato da vicino.

First Reformed di Paul Schrader, presentato in concorso, al secondo giorno di Mostra del cinema è la cosa più bella vista finora. E come altri film (ad esempio Downsizing di Alexander Payne), affronta il problema dell’emergenza del pianeta, tra clima, rifiuti, sfruttamento e mancanza generale di fiducia davanti alle demoniache multinazionali che inquinano. Ma qui la riflessione – che è anche una critica a Trump e alle sue posizioni sul clima- ruota innanzitutto intorno a domande di spiritualità, tema molto caro al regista di American Gigolò eMishima- Una vita in quattro capitoli e sceneggiatore di Taxi Driver.

Ernst Toller (Hawke) è un pastore protestante che in passato ha perso un figlio, da lui stesso spinto a entrare nell’esercito e poi morto in Iraq. L’angoscia che vive nel suo cuore, seguita anche alla fine del matrimonio, si svela a poco a poco grazie all’incontro con una coppia di attivisti ecologisti (lei è Amanda Seyfried), che gli chiedono aiuto. Toller decide di tenere un diario confessione per un anno, in cui annota le inquietudini più profonde che restituiscono allo spettatore un’analisi tagliente quanto necessaria. «Non avevo mai recitato una simile parte prima, ma sono stato circondato dalla religione per tutta la vita, mia nonna pensava sarei diventato prete», racconta un Ethan Hawke al top della forma. «Quello che si vede sullo schermo è un dialogo importante che ho sempre avuto nella testa, quindi sono molto grato di aver avuto l’opportunità di raccontarlo. Il film racconta di un movimento trascendentale che cerca una connessione con il mondo esterno più grande di quanto non faccia la comunità religiosa rispetto alla crisi ambientale».

Si capisce che Schrader, calvinista, mastica bene la materia di quello che forse è il miglior film della sua carriera, potente quanto Silence del suo amico Scorsese.

«Non pensavo di fare un film del genere, ma due anni fa mentre cenavo con Ida Pavelaski ho pensato fosse il momento giusto, e mi sono messo al lavoro». E se gli si chiede perché ha avvolto il suo protagonista nel fil di ferro, ferendolo, lo spiega così. «L’idea di lavare le pene con il sangue, come Cristo, è molto radicata. Si ispira all’idea che con il sangue si possono espiare grandi colpe».

Il titolo del film si riferisce all’unica chiesa ancora attiva nella contea di Albany, stato di New York. Il grande merito è far riflettere su Dio e le domande più profonde che scatena, sulla vocazione e sul senso della preghiera. “Il coraggio è la risposta alla disperazione, e la ragione non è d’aiuto”, mentre la chiesa è ridotta a merchandising di magliette e cappellini.

Il finale, imprevedibile, farà discutere appena messo piede fuori dalla sala.

Articolo pubblicato su GQ Italia

© Riproduzione riservata

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