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Quando un’ingombrante genitore smette di essere un demone? Charlotte Gainsbourg affronta i suoi fantasmi con un docufilm super-emozionante. In cui, a Jane Birkin, fa (quasi tutte) le domande scomode
di Cristiana Allievi

Il pudore e una macchina da presa. Ecco le due sole cose che restano tra loro, una madre e una figlia che, dopo decenni di distanza e di incomprensioni, si ritrovano nello steso letto, a passeggiare, a tavola, accanto finalmente e quasi se fosse la prima volta. È la magia di Jane By Charlotte, il docu film con cui èunritratto personale e molto casual, una scusa artistica con cui Charlotte Gainsbourg debutta alla regia, presentato in anteprima al festival di Cannes e che sta facendo il giro delle rassegne cinematografiche del mondo, riscuotendo ovunque successo. La incontro alla Mostra di Venezia, dove ha presentato due film, Sundown di Michel Franco e Le cose umane, diretta dal partner Yvan Attal, attore regista e sceneggiatore di origine ebraica, l’uomo che l’ha raccolta a 19 anni, quando stava crollando in pezzi per la perdita del padre Serge, rockstar di Francia. Ivan è stato il terreno solido su cui costruirsi una dimensione esistenziale e una cifra propria, smarcandosi da fantasmi ingombranti. Con lui ha avuto tre figli (Ben, Alice e Joe), ha iniziato a firmare le canzoni con il suo vero nome e soprattutto a cantare in francese, la lingua che l’avvicinava vertigi- nosamente al mito del genitore. C’è voluto anche Lars Von Trier, per farle trovare se stessa. Il regista danese l’ha svestita e martoriata per bene nel corpo e nello spirito, e con Antichrist le ha regalato la Palma d’Oro e una fama allargata. Un nuovo equilibrio sembrava ritrovato, poi otto anni fa l’amata sorella Kate si è tolta la vita a Parigi. Lei è fuggita a New York, lasciandosi alle spalle la Francia e le sue ferite. Ora è tornata a casa. Incontrandola, si sente che qualcosa è cambiato. Charlotte ha finalmente posato lo sguardo sulla madre, accettando il delicato confronto con lei. La madre è la modella e cantante inglese Jane Birkin, un’icona di 74 anni (mentre scriviamo queste righe, è in convalescenza dopo aver avuto un ictus) che ha avuto una figlia per ogni suo amore: Charlotte da Serge, Kate dal primo marito John Barry (compositore di cult come la saga di 007) e Lou dal regista Jacques Doillon. Con Jane by Charlotte, ritratto personale e bellissimo, una figlia in- contra la propria madre e le fa domande molto scomode.
esordisce.
Cosa ha provato alla fine delle riprese? «Riguardando il mio film da regista con il pubblico, mi sono sentita male. Ne ho percepito tutti i punti deboli e soprattutto mi sono detta: “Ma perché mai la mia famiglia dovrebbe interessare a qualcuno? Quello che hai fatto è una cosa indecente!”. Hanno tentato di farmi notare che gli spettatori erano molto toccati, ma ero troppo nervosa per accorgermene».
Come è nata l’idea di un film su sua madre? «Volevo condividere la stessa vicinanza che lei aveva con le mie sorelle, Kate e Lou. Eravamo molto diverse. Con i film mi sono creata una famiglia tutta mia – ho iniziato che avevo solo 13 anni – e questo ha creato una distanza fra noi. I miei si erano separati quattro anni prima, e io ero molto vicina a mio padre. Sono stata privilegiata per- ché vivevo con lui nei weekend continuando a essere la sua figlia unica… Con mia madre era tutto diverso».
Poi suo padre è morto... «Per anni questo è stata il mio grande buco da colmare, tutto ciò che ho mostrato di me al mondo. Quando nella mia vita è arrivato Yvan abbiamo creato una nuova famiglia tutta nostra, “vera”, sono capace di vivere una persona alla volta in modo esclusivo».
Tagliando fuori sua madre… «Me ne sono accorta molto tempo dopo, infatti questo mio interesse di adulta per lei l’ha spiazzata. Mi sono sentita male per averla sempre amata senza darlo a vedere, non le ho mai fatto capire quanto avessi bisogno della sua presenza e vicinanza. E purtroppo non è stato il mio unico errore».
Quello successivo? «Le ho proposto di girare un film su di lei per poterla incontrare. E quando le ho fatto la prima intervista, durante un suo tour, le mie domande troppo dirette l’hanno fatta ritirare. Ha pensato che stessi cercando di farla sentire in colpa, cosa che le capita molto di frequente (ride, ndr). Invece è stata la mia timidezza, mi ha creato difficoltà, non sapevo come chiederle le cose, finché lei mi ha fermata: “Odio il Giappone e odio quello che stai facendo”».
(continua…)
Intervista integrale pubblicata sul numero 41 di Vanity Fair (12 ottobre 2021)
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