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Cristiana Allievi

~ Interviste illuminanti

Cristiana Allievi

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Into the Leto (Jared)

16 venerdì Apr 2021

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30 seconds to Mars, Blade Runner 2049, Denzel Washington, Fino all'ultimo indizio, House of Gucci, interviste illuminanti, Jared Leto, Rami Malek, Warner Bros, WeCrashed

HA VISSUTO PER GIORNI ISOLATO DAL MONDO. UNA VOLTA TORNATO JARED LETO HA SCOPERTO UN ALTRO TALENTO (OLTRE A QUELLO DI ATTOR EE MUSICISTA). BASTARE A SE STESSO

DI Cristiana Allievi

L’attore e musicista Jared Leto è protagonista del film Fino all’ultimo indizio (Amazon Prime video), poi lo vedremo in WeCrashed e House of Gucci.

Vi è mai capitato di lasciare casa vostra per dodici giorni, ritirarvi in un luogo sperduto e tornare trovando un mondo che è andato per aria? A Jared Leto è successo e lo racconta con nonchalance. «Ho deciso di fare un ritiro di silenzio in un momento in cui in tutta l’America si contavano 126 casi: non si sapeva che eravamo all’inizio di una pandemia. Mi sono ritirato nel deserto, senza né internet né telefono. Quando sono tornato sono rimasto scioccato: il mondo era in uno stato di caos ed emergenza totali». Sembra la trama di uno dei suoi film, visto che ha sempre interpretato personaggi ai confini della realtà, psicopatici, disagiati, mutilati o sfigurati. E nel nuovo thriller anni Novanta che John Lee Hancock aveva scritto 30 anni fa e dimenticato in un cassetto, non è diverso. In Fino all’ultimo indizio un sergente di polizia (Rami Malek)  chiede a un vicesceriffo (Denzel Washington) di sostenerlo con il proprio intuito nella caccia a un serial killer, interpretato da Leto (il film è già disponibile in digitale per l’acquisto e il noleggio premium: su Amazon Prime Video, Apple Tv, Sky Primafila e Infinity). Si fatica a riconoscerlo con gli occhi marroni e la camminata un po’ meccanica, nei panni di Sparma. «È un personaggio sarcastico e ironico, diverso dai serial killer canonici. Per me è addirittura adorabile», racconta. «Non ho fatto ricerche su figure specifiche di killer, c’è troppa ambiguità in quel campo. Ho preferito leggere trascrizioni dell’FBI,  guardare documentari, leggere crime. E passare molto tempo a pensare alla personalità di Sparma, il mio è un lavoro in cui devi farti domande e trovare delle risposte». Piace, a Leto, parlare di outsider, persone che non si integrano nella società e per cui  non esistono regole. E ammette che accettare un altro personaggio disturbato è stato un azzardo. «Mi sono spinto in zone abbastanza buie, durante la mia carriera, c’è stato un momento in cui mi sono detto “è il caso di non continuare a farlo”. Ma questa opportunità era impossibile da rifiutare, l’ho accettata mettendo una protesi ai denti e al naso, e lavorando moltissimo sulla fisicità». Il maglione che indossa dall’altra parte dello schermo, bianco con striature violette, sembra un retaggio della comunità hippie in cui è cresciuto con madre, padre adottivo e fratello. Nato in Louisiana, Leto ha viaggiato tutta l’infanzia e ha cambiato varie strade prima di fondare una band con il fratello Shannon, i 30 seconds to Mars, che ha un manager di alto profilo, lo stesso di The Eagles, Christina Aguilera e i Van Halen. Ha frequentato la scuola di arti visive a New York, poi L’accademia d’arte a Philadelphia e una scuola di recitazione a NY. Quindi è volato a Los Angeles per dedicarsi alla musica, con l’idea che il cinema sarebbe stata un’attività marginale per lui. Ma le cose sono andate diversamente, a partire da La sottile linea rossa di Terrence Malik. Subito dopo, grazie a Fight Club e American Psyco, ha preso il volo. Colossi come Blade Runner 2049, Dallas Buyers Club, che gli vale l’Oscar, e Mr. Nobody, fanno il resto. Anche se – parole sue – è stato il Joker di Suicide Squad il ruolo della sua vita: non è un caso che sia coinvolto in ben due progetti proprio in questa veste, essendo il primo attore a interpretare questo personaggio in più di un film.

(…continua)

Intervista integrale pubblicata su D La Repubblica del 10 aprile 2021

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Lea Seydoux, «Seduco quando voglio»

29 martedì Set 2020

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007, Abdellatif Kechiche, Arnaud Desplechin, Bond Girl, Grazia, interviste illuminanti, La vita di Adele, Lea Seydoux, Louis Vuitton, No time to die, Roubaix une lumiere

NELL’ARCO DI UN MESE PASSERA’ DALL’ESSERE UNA DONNA DISPERATA AL RUOLO DELLA BOND GIRL. MA SEMPRE LEA SEYDOUX SA COME CATTURARE LO SGUARDO DEL PUBBLICO. L’ATTRICE FRANCESE HA POSATO IN ESCLUSIVA PER GRAZIA E HA SPIEGATO CHE PER VINCERE, IN AMORE E IN CARRIERA, BISOGNA SEMPRE DETTARE LE REGOLE DEL GIOCO

di Cristiana Allievi

L’intervista di copertina a Lea Seydoux è accompagnata dalle foto di Eric Guillemain (courtesy of Grazia).

Se si dovesse scegliere una frase che la rappresenta bene sarebbe “amo scomparire”. Parole, quelle dell’attrice Lea Seydoux, che non si riferiscono solo alla vita sotto i riflettori di un personaggio pubblico. Lea è una donna che ama nascondersi dietro i personaggi che interpreta. E fuori dallo schermo è estremamente riservata, oltre che timida. Essere cresciuta con due genitori che si sono separati quando aveva tre anni, età che oggi ha suo figlio George, avuto con il compagno, André Meyer, ha lasciato un’impronta. L’attrice, però, ha imparato a mettere questo aspetto del carattere al servizio del suo carisma. In Francia di lei si parla anche per le radici del suo successo, ovvero l’appartenere alla più importante famiglia del cinema nel Paese. Una madre attrice diventata poi filantropa, Valerie Schlumberger, e un padre, Henri Seydoux, magnate delle telecomunicazioni. Ma soprattutto un nonno che è stato il fondatore della Pathé, e un prozio che ha creato Gaumont: parliamo delle due più grandi e antiche case di produzione cinematografica di Francia. Cresciuta vicino ai giardini Luxembourg, in Saint-­Germain-des-Prés, con sei fratelli, in realtà Lea avrebbe voluto fare tutt’altro nella vita. Sognava di diventare una cantante d’Opera, ma il grande amore le ha fatto cambiare idea. È stato quel “lui” attore che non viene mai nominato, a farla invaghire del cinema. Ed è stata una fortuna per tutti, se pensiamo al suo viso, che ammiriamo nel servizio esclusivo delle pagine di Grazia, realizzato sui tetti di Parigi, in cui Lea veste Louis Vuitton, maison di cui è amica da quattro anni. Seydoux ha brillato in tanti film, da Bastardi senza gloria, di Quentin Tarantino, a Robin Hood di Ridley Scott, passando per La vita di Adele, con cui ha vinto la Palma d’Oro a Cannes nel 2013. Da lì in avanti, Seydoux ha continuato a miscelare film d’autore con grandi blockbuster. Una formula che si ripresenta adesso: dall’1 ottobre arriva Roubaix, une Lumiere di Arnaud Desplechin, film d’autore in Competizione a Cannes nel 2019, e di seguito l’attrice sarà per la seconda volta la Bond Girl nel nuovo James Bond di No Time to Die.Occorre tempo, per entrare in sintonia con lei. «Non sono una persona che spinge le situazioni, preferisco attrarle. È il mio modo di essere educata», racconta descrivendo la propria timidezza. Mentre colpisce subito vederla povera, alcolizzata e senza trucco, amante di un’altra donna, nel thriller che la vede accusata di omicidio in un paesino sperduto nel Nord della Francia. 

(continua…)

L’intervista di copertina è su Grazia del 24 settembre 2020

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James Marsden, «Il tempo rende migliori»

17 mercoledì Apr 2019

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Al Pacino, Brad Pitt, C'era una volta a Hollywood, interviste illuminanti, IWC, James Marsden, Laureus, Leonardo di Caprio, Montecarlo, Quentin Tarantino, Sport

L’evoluzione di James Marsden, l’uomo che dalla trilogia di X-Men e Superman passa direttamente a Quentin Tarantino.

«Grazie per non avermi chiesto quale supereroe vorrei essere nella vita». La fine della conversazione con James Marsden illumina tutto ciò che è venuto prima. Siamo a Monaco, dove ha appena presentato la Laureus World Sports Awards, la notte degli Oscar dello Sport. Un universo a cui è stato introdotto dal marchio del lusso IWC, «da cinque anni sono come una famiglia per me, e voglio guardare alla mia carriera con lo stesso orgoglio con cui loro guardano alle loro creazioni».  46 anni e altrettanti film all’attivo, è stato uno degli eroi della trilogia di X-Men e di Superman. Ma invece di una conversazione su sport e cinema, come ti aspetteresti da un uomo con il suo fisico, gli occhi color blu mare e i denti di un bianco scintillante, lui rilancia. E snocciola visioni esistenziali più ampie, passando dal baseball ai suoi tre figli, senza schivare il doloroso divorzio, (anche se preferisce non menzionare la parola). Dettagli che spiegano come mai uno come Quentin Tarantino lo abbia voluto in C’era una volta ad Hollywood, il film in cui lo vedremo a fine agosto accanto a Leo DiCaprio, Brad Pitt e Al Pacino.

Che sport ha praticato, da ragazzo? «Sono cresciuto in Oklahoma, lì c’erano molto basket, calcio e baseball. Io ero piccolino di statura in confronto a quei giganti del Midwest, e finivo spesso nelle linee laterali. Ma a dire il vero all’epoca mi interessavano più l’arte, il teatro e la musica. È stato dopo il liceo che ho iniziato ad appassionarmi davvero allo sport, scoprendo di essere molto portato».

E cosa è successo? «Sono diventato molto competitivo, il mio ego è uscito allo scoperto. Le dico solo che la mia fidanzata oggi non vuole nemmeno fare un gioco di società con me, dice che devo sempre vincere». 

Le sue più grandi conquiste, fino a qui? «I miei tre figli, la ragione per cui faccio tutto quello che faccio. Imparo tanto quanto insegno loro, se non di più, essere padre è il cuore della mia identità. Il più grande ha 18 anni, in lui vedo il buono che c’è in me».

Cosa l’ha sorpresa di più di loro, fino a oggi? «Io e la mia ex moglie, con cui oggi c’è per fortuna una buona amicizia, li abbiamo cresciuti tutti allo stesso modo. Ma abbiamo dovuto adattarci leggermente a ciascuno di loro, perché arrivano con un codice personale. E soprattutto ti devi ricordare che quando vengono al mondo non sono più tuoi».

(continua…)

Intervista esclusiva per GQ Italia di marzo 2019.

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Laetitia Casta, «Il matrimonio è stato un atto di ribellione»

10 mercoledì Apr 2019

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coppie, Cristiana Allievi, fashion, interviste illuminanti, L'uomo fedele, Laetitia Casta, lavorare in coppia, Lily-Rose Depp, Luois Garrel, tradimento

Laetitia Casta, attrice e regista, 40 anni (photo by Philip Gay/F).

HA SPOSATO L’UOMO CHE AMA, FREGANDOSENE DEI PREGIUDIZI E DELLE ASPETTATIVE FAMILIARI. «MI SONO PRESA UN RICHIO», DICE L’ATTRIC E E MODELLA FRANCESE. CHE OGGI TORNA SUL SET DIRETTA DLA MARITO E CONFESSA: «NON È STATO SEMPLICE, HO LOTTATO PER FARMI RISPETTARE, IL CINEMA È UN MONDO ANCORA DOMINATO DAGLI UOMINI».

«Com’è stato girare un film con mio marito? Un’esperienza eccitante e ricca. E per fortuna è durata solo quattro settimane». Me la ricordavo così Laetitia Casta. Simile a un gatto che sembra sonnecchiare ma che, quando meno te lo aspetti, fa un incredibile balzo in avanti.  «Non ci conoscevamo come attrice e regista, in una situazione in cui lui lottava per il suo film e il suo personaggio, e io per il mio. Entrambi dovevamo sopravvivere». Dal momento che il marito di cui sta parlando è Louis Garrel, e che rappresenta una novità su più fronti, c’era da aspettarsi questo fuoco e fiamme. È l’uomo a cui ha detto finalmente sì, dopo anni di interviste in cui dichiarava che lei, il matrimonio, mai. E nel film in cui la vedremo dall’11 aprile Garrel la dirige ma è anche l’uomo che lei tradisce (per copione): di carne al fuoco ce n’è parecchia. Grazie all’escamotage del triangolo amoroso, L’uomo fedele indaga la natura dei sentimenti umani attraverso una storia densa, ironica e autoironica. La Casta è Marianne e vive con Abel (Garrel), finché non scopre di essere incinta del miglior amico di lui, Paul. A complicare le cose c’è la sorella di quest’ultimo, Eve (Lily Rose-Depp), che vuole strappare Abel a Marianne. Mentre me ne parla faccio un veloce ripasso mentale. Da top model planetaria Laetitia è finita su almeno un centinaio di copertine, fra cui ci sono Sport Illustrated e il nudo integrale su Elle. È diventata famosa grazie a un paio di jeans di Guess? di cui è testimonial dal 1993, ha conquistato l’attenzione nientemeno che di Yves Saint Laurent e in Francia la adorano tanto da averla scelta come “Marianne” nazionale (la donna simbolo della repubblica francese).

(continua…)

Intervista integrale pubblicata su F del 17 Aprile 2019

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Pierre Niney, «Se ami tuo figlio lascialo libero»

02 martedì Apr 2019

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Charlotte Gainsbourg, diventare genitori, GQ Italia, interviste illuminanti, La promessa dell'Alba, Pierre Niney

Appoggiato al muro accanto a una grande finestra che affaccia sulla Torre Eiffel, mani in tasca, il suo sguardo viaggia lontano. Si capisce che è completamene assorbito dai suoi pensieri. Quando si accorge che è entrato qualcuno nella stanza saluta con modi gentili, e la prima parola che viene in mente incontrandolo, è “elegante”. Non c’entra Yves Saint Laurent, lo stilista che ha interpretato magistralmente qualche anno fa e che gli è valsa un César: Pierre Niney emana la grazia di chi vive un senso diverso del tempo. La sensazione è che non lo rincorra mai, nemmeno quando scava fra i ricordi alla ricerca di sensazioni vissute a 11 anni, quando annunciò ai suoi genitori- critico di cinema e documentarista il padre, consulente d’arte la madre- che avrebbe fatto l’artista. «Per fortuna erano aperti alla creatività, mi hanno incoraggiato a darmi al cento per cento in quello che avrei scelto. Se non lo avessi fatto me ne sarei pentito per il resto della vita», racconta. Nato a Boulogne-Billancourt e cresciuto a Parigi, inizia a recitare da bambino, e a soli 21 anni è il più giovane attore di sempre a unirsi alla Comédie-Française, un’istituzione fondata addirittura da Luigi XVI. Non sorprende sentirlo elogiare Molière e Shakespeare, quanto scoprire che avrebbe voluto fare il giocatore di basket professionista, ma non aveva l’altezza adatta. Ma gioca con il suo club tutte le settimane, da quando era un teenager. Grande colpo di fulmine  anche quello avuto sette anni fa per il surf da onda, scoperto grazie alla compagna australiana, Natasha Andrews. «Ogni volta che posso corro in Portogallo, nello Sri Lanka e a Biarritz. La chiave del surf non è l’allenamento fisico, ma la perseveranza. E il fatto di non poter controllare la marea e le onde ti insegna ad arrenderti alla natura e a contemplare invece di agire. Qualcosa da ricordare anche nella vita…».

I temi cambiano, la riflessione resta  profonda. «Divento molto triste quando sento giovani che vorrebbero diventare attori, pittori o cantanti, ma mi dicono che si iscrivono a Legge o a Economia solo perché i loro genitori non li supportano. È un peccato, le scelte fatte per rassicurare la famiglia non funzionano».

(continua….)

Intervista pubblicata su GQ, n. Marzo 2019

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Charlotte Gainsbourg: «La famiglia che mi porto dentro»

18 lunedì Mar 2019

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Charlotte Gainsbourg, Eric Barbier, giornalismo, Grazia, interviste illuminanti, La promessa dell'Alba, Pierre Niney, Rest, Yvan Attal

DOPO TANTI RUOLI AL LIMITE, ORA L’ATTRICE FRANCESE AL CINEMA È UNA MADRE CHE FA DI TUTTO PER SUO FIGLIO. UNA PARTE, DICE A GRAZIA, CHE L’HA RICONCILIATA CON L’AMORE, GLI ERRORI E GLI ADDII DEI SUOIO GENITORI STAR, IL CANTANTE SERGE E L’ATTRICE JANE BIRKIN

Ho appena visto Charlotte Gainsbourg nel suo prossimo film, La promessa dell’alba di Eric Barbier. Sono certa che sia l’interpretazione  cinematografica migliore della figlia di Serge Gainsbourg e Jane Birkin. Non ci sono scene di sesso, o di morte, e nemmeno atroci  torture, come ci aveva abituati nei film Antichrist e Nymphomaniac del regista Lars Von Trier. Ma nonostante questo, la donna che vedremo sugli schermi dal 14 marzo nei panni di una madre eccessiva e lievemente mitomane mi è sembrata molto più estrema che in passato. Gainsbourg è Nina, madre coriacea, ebreo polacca, che dalla Lituania, fra mille peripezie, porta  il figlio nel sud della Francia per fuggire dalle conseguenze della presa di potere di Hitler in Germania. La storia è tratta dal bestseller autobiografico sulla straordinaria vita di Romain Gary (interpretato da Pierre Niney), uno dei più famosi romanzieri francesi, l’unico ad aver vinto due volte il Goncourt Prize. «Ho girato il film mentre registravo il mio ultimo disco, Rest, non ho mai avuto un parte come questa, in cui presto il volto a una donna fra i 30 e i 60 anni. Avere un altro corpo, un’altra voce, parlare il polacco, sono stati una liberazione per me, ho potuto esplorare un’identità diversa.  Questo film mi ha resa più forte». Libertà è una parola che questa attrice e cantante dalla voce eterea pronuncerà molte volte durante la nostra conversazione. La sensazione è abbia trovato la serenità  e che i tempi in cui si torturava con i personaggi di Lars von Trier siano alle spalle. Così come il lutto che l’ha colpita quando la sorella Kate Barry si è tolta la vita, cinque anni fa: era la persona a cui era più legata in assoluto. Subito dopo si è trasferita a vivere a New York con la famiglia, il regista Yvan Attal e  tre figli Ben, Alice e Joe, 21, 16 e 7 anni. «Non riuscivo più a respirare a Parigi, troppi ricordi dolorosi. Per un po’ di tempo starò via dall’Europa, poi si vedrà».

(Continua…)

Intervista integrale su Grazia del 7 Marzo 2019

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Reinout Scholten van Aschat: L’arte della quiete

11 lunedì Mar 2019

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Capri Revolution, D La repubblica, interviste illuminanti, Jim Taihuttu, Karl Diefenbach, Martone, Reinout Scholten Van Aschat, The east

FRA CALMA E COMPOSTEZZA NATURALE, LO STILE NORDICO DELL’ATTORE E MUSICISTA CHE CI HA INCANTATI CON CAPRI REVOLUTION DI MARTONE. E LO FARA’ DI NUOVO, A BREVE…

L’attore e musicista fiammingo Reinout Scholten Van Aschat fotografato da Philip Riches per D La Repubblica


«Quando mi sono sdraiato su quel materasso, posando per queste foto, mi sono sentito catapultato sul set di Martone». Siamo ad Amsterdam, la luce fuori che filtra dalle grandi finestre è ancora invernale. Nello studio di artista ci sono fogli e colori ovunque, e le risonanze con Capri Revolution, in concorso all’Ultima Mostra di Venezia, sono molte. Lì era il magnifico Seybu, personaggio ispirato al pittore Karl Diefenbach che a Capri creò una comune fra il 1900 e il 1913. Il film spostava i fatti più avanti, però, collocandoli alla vigilia della prima Guerra mondiale. E il suo protagonista allargava l’orizzonte, diventando un artista performativo che inglobava la danza moderna, la natura, la musica e soprattutto l’idea di una radicale rivoluzione umana in cui il rapporto con la natura è di nuovo al centro.  In tutto questo Reinout Scholten van Aschat, «un nome altisonante, ma non sono un nobile», è una specie di Cristo e indossa solo una veste bianca. Ironia vuole che il film che sta per girare sia di natura tutt’altro che pacifista. The East, di Jim Taihuttu, racconta la Guerra d’Indipendenza dell’Indonesia, avvenuta fra il 1945 e il 1949. «Quando i giapponesi furono cacciati, gli indonesiani avrebbero voluto essere indipendenti ma il governo olandese mandò qui molti giovani facendoli combattere per mantenere la sua colonia. Non erano preparati a nessun livello, ma il governo diceva loro “cacciate i terroristi”. Come è accaduto in Afganistan, Iraq e Siria, in realtà i terroristi erano solo uomini che combattevano per la libertà.  I nostri nonni hanno fatto quella guerra ma non ne parlano, è stata un trauma». Da olandese cresciuto in una famiglia di artisti, era il minimo che finisse su quel set, penseresti. «Ma è un caso, non conoscevo il regista né lui sapeva che ho una madre indonesiana, anche se non si direbbe. I geni sono nascosti, forse se avrò dei figli si vedrà in loro».

(continua…)

Intervista integrale su DLui, inserto di La Repubblica, numero di Marzo 2019

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Pedro Almodovar, «A cuore aperto»

08 venerdì Mar 2019

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cinema, Dolor Y Gloria, Dolore e Gloria, GQ Italia, intervista esclusiva, interviste illuminanti, Mina, Pedro Almodovar, stile, uomini

LA FAMIGLIA È AL CENTRO DEL SUO CINEMA. VENT’ANNI FA HA VINTO A CANNES CON TUTTO SU MIA MADRE. ORA PEDRO ALMODÓVAR ESPLORA LA SUA VITA CON DOLORE E GLORIA

Il regista Pedro Almodovar, 70 anni (foto di Nico Bustos per GQ Italia).

Colpo di teatro di Pedro Almodóvar. Che stesse girando il suo ventunesimo film, Dolor y gloria, si sapeva. Un po’ meno invece sulla storia e la data di uscita nelle sale. Ma all’improvviso annuncia che è tutto pron- to, che il 22 marzo gli spagnoli potranno ammirare il suo lavoro, che a maggio sarà in Italia. Storiona di famiglia, molto auto- biografica. Proprio 20 anni dopo (gli stessi che compie quest’anno GQ), quel Tutto su mia madre che gli fece vincere il premio per la miglior regia sulla Croisette.


Perché questo film adesso? In Italia ci fa pensare a 8 1⁄2 di Fellini. Spero che non mi paragoniate a 81⁄2, perché perderei il confronto. Tutti i miei film mi rappresentano, ma di sicuro Dolore e gloria mi rappresenta più profondamente. Non so perché l’ho scelto proprio ora, ho l’impressione di non aver scelto io il tema del film, ma che sia stato il tema del film a scegliere me. Generalmente non sono consapevole del perché giro un certo film o un altro; sono consapevole della necessità di affrontare determinati argomenti in determinati momenti, ma non dei motivi.

Il suo ottavo film con Banderas dà un’immagine diversa di questo attore?

Secondo me sì. Quando ho lavorato con lui negli anni Ottanta, era molto giovane e quel che mi interessava di Antonio Banderas era la sua passionalità, la follia travolgente che dava ai suoi personaggi. Ora Antonio ha sessant’anni, continua a essere un uomo molto affascinante, ma sul suo viso vedo i due o tre interventi al cuore che ha subito negli ultimi anni, la sua esperienza con il dolore. In Dolore e gloria Antonio offre un’interpretazione per me inedita, gesti mi- nimi, emozioni controllate, una solitudine interpretata con grande economia di risorse. Per me è una sorta di nuova nascita per Antonio Banderas, o quanto meno l’inizio di una splendida tappa di maturità.

E Penélope Cruz sarà sua madre?

Penélope Cruz interpreta la madre di Antonio Banderas negli anni Sessanta, quand’è bambino. Penélope fa nuovamente la casalinga di campagna, in un momento in cui la Spagna non è ancora uscita dal dopoguerra. Per questo il suo look e la sua interpretazione sono molto diversi dalla madre che interpretava in Volver – Tornare.

Nel film c’è una canzone di Mina. Perché ha scelto proprio questa?

La scena si svolge all’inizio degli anni Sessanta e Come sinfonia appartiene a quell’epoca ed evoca la luce e la sensualità dell’estate mediterranea. E inoltre Mina è quasi parte della mia famiglia e io volevo che nel film tutto mi risultasse familiare: gli attori, le opere d’arte che si vedono alle pareti, le canzoni e, naturalmente, le emozioni, le emozioni più profonde.

Non ha studiato cinematografia, ma è diventato uno dei registi più famosi del mondo. Come ha fatto emergere il suo stile?

Quando arrivai a Madrid nel 1969, il generale Franco aveva appena chiuso la Scuola di Cinema. Avevo pensato di studiare lì, ma non essendo possibile, acquistai una videocamera Super 8 e nel corso degli anni Settanta girai molti cortometraggi di diverso minutaggio: 5, 10, 30 minuti; e riuscii anche a girare un film. Questa fu la mia unica scuola e si rivelò molto utile. Il Super 8 non è come il video, il Super 8 è cinema, viene girato in negativo. E io presi molto sul serio sia la parte relativa alla scrittura della sceneggiatura, sia la direzione degli attori e quant’altro. Le mie preoccupazioni principali e le tematiche che avrei affrontato anni dopo erano già presenti in questi film. Lo stile, come ogni processo di presa di coscienza, si scopre con il tempo e ci si arriva – almeno nel mio caso – in modo spontaneo, prendendo decisioni di pancia.

Come il regime di Franco influenzò lo stile degli uomini?

Fino al momento in cui il regime non iniziaa indebolirsi, il modo di vestire, i colori, le acconciature dei capelli degli uomini spagnoli dipendevano da convenzioni sociali molto repressive. Chi non si adeguava, rischiava di finire alla polizia solo per il suo aspetto. C’era pochissimo spazio per coltivare personalità e gusti nel vestire. Nonostante sia stato un Paese intrappolato dalla dittatura, la Spagna cominciò a raccogliere influenze dal resto del mondo dopo il 1965, quando ebbe inizio il processo di sviluppo della nazione. Alla fine degli anni Sessanta irruppe lo stile hippy, soprattutto nelle grandi città, con l’influsso di Carnaby Street. Questo cambiò radicalmente il look dei giovani spagnoli, che divenne più colorato e audace. Chi sognava di lavorare in banca indossava un noioso abito con giacca e cravatta (do- minavano i colori grigio, beige e marrone) e coloro che si sentivano liberi dal consumismo e volevano non solo l’amore libero ma il recupero del rapporto con la natura, si vestivano in un modo ritenuto insolito fino ad allora; inoltre arrivano il pop e la psichedelia. La rottura in termini di look maschile è radicale. Tutti i tipi di stampe possibili e accessori per tutto il corpo. Sono stati gli anni del trionfo della bigiotteria e dei colori e dei tessuti sgargianti e luminosi. Negli anni Settanta, delusi dagli hippies, i giovani spagnoli divennero politicizzati, specialmente nelle università.

(…continua)

L’intervista esclusiva per GQ è sul numero di marzo 2019

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Golden Globes 2019, ecco i candidati

06 giovedì Dic 2018

Posted by cristianaallievi in arte, cinema, Golden Globes, Miti, Moda & cinema

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Ecco i candidati ai Golden Globes 2019 per il cinema nelle principali categorie

 

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Miglior film drammatico:

Black Panther

BlacKkKlansman

Bohemian Rhapsody

Se la strada potesse parlare

A Star is Born

 

Miglior film commedia o musicale:

Crazy Rich Asians

La favorita

Green Book

Il ritorno di Mary Poppins

Vice

 

Miglior regista:

Bradley Cooper per A Star is Born

Alfonso Cuaron per ROMA

Peter Farrelly per Green Book

Spike Lee per BlacKkKlansman

Adam McKay per Vice

 

Miglior attrice in un film drammatico:

Glenn Close per The Wife

Lady Gaga per A Star is Born

Nicole Kidman per Destroyer

Melissa McCarthy per Can You Ever Forgive Me?

Rosamund Pike per A private War

 

Miglior attrice in un film commedia o musicale:

Emily Blunt per Il ritorno di Mary Poppins

Olivia Colman per La favorita

Elsie Fisher per Eight Grade

Charlize Theron per Tully

Constance Wu per Crazy Rich Asians

 

Migliori attore in un film drammatico:

Bradley Cooper per A Star is Born

Willem Dafoe per Van Gogh – At Eternity’s Gate

Lucas Hedges per Boy Erased

Rami Malek per Bohemin Rhapsody

John David Washington per BlacKkKlansman

 

 

Miglior attore in un film commedia o musicale:

Christian Bale per Vice

Lin-Manuel Miranda per Il ritorno di Mary Poppins

Viggo Mortensen per Green Book

Robert Redford per The Old Man & the Gun

John C. Reilly per Stanlio e Ollio

 

 

Miglior attrice non protagonista:

Amy Adams per Vice

Claire Foy per First Man

Regina King per Se la strada potesse parlare

Emma Stone per La favorita

Rachel Weisz per La favorita

 

Miglior attore non protagonista:

Mahershala Ali per Green Book

Thimotée Chalamet per Beautiful Boy

Adam Driver per BlacKkKlansman

Richard E. Grant per Can You Ever Forgive Me?

Sam Rockwell per Vice

 

Miglior film straniero:

Cafarnao

Girl

Opera senza autore

ROMA

Un affare di famiglia

 

Miglior Sceneggiatura:

Alfonso Cuaron per ROMA

Deborah Davis e Tony McNamara per La favorita

Barry Jenkins per Se la strada potesse parlare

Adam Mckay per Vice

Nick Vallelonga, Brian Currie e Peter Farrelly per Green Book

 

Miglior canzone:

“All the Stars” in Black Panther

“Girl in the Movie” in Dumplin’

“Requiem for a Private War” in A Private War

“Revelation” in Boy Erased

“Shallow” in A Star is Born

 

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Alla ricerca c’è Juli Jakab

12 lunedì Nov 2018

Posted by cristianaallievi in cinema, Cultura, Moda & cinema, Mostra d'arte cinematografica di Venezia

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Il figlio di Saul, interviste illuminanti, Juli Jakab, Laszlo Nemes, Venezia75

«Tutto era molto più lento di oggi, e questo dava alla vita uno stile e una grazia che mi piacerebbe esistessero ancora». Con grandi occhi blu e una calma apparente, Juli Jakab racconta l’atmosfera del film di cui è stata interprete all’ultima Mostra del cinema di Venezia e nelle sale dal 15 novembre. Lei il cuore di Tramonto, è quella che lo spettatore segue, quasi sempre di spalle, in una storia personale che si trasforma in un declino sociale globale a ridosso della Prima Guerra mondiale. Siamo nell’Impero Austro-ungarico, Vienna e Budapest sono il centro culturale del mondo, ma sotto una superficie di benessere e prosperità ci sono vorticose tensioni sociali.  Una giovane donna, Irisz Leiter, arriva a Budapest in quello che era stato il negozio dei suoi genitori, creatori di cappelli leggendari.  Respinta dal nuovo proprietario, senza conoscerne il motivo, avvolta dal mistero e completamente sola, non cede: inseguirà indizi molto flebili che la riporteranno sulle tracce del fratello, unico legame col suo passato.

La nostra conversazione avviene mentre la stanno preparando per un servizio fotografico, sulla terrazza di un hotel veneziano in stile Art déco, e fuori dallo schermo la protagonista è minuta e parla in modo delicato.  La truccatrice le chiede se vuole che le metta il gloss sulle labbra, lei accenna a un no con la testa. Ma quando la domanda passa al mascara, è indecisa: la make up artist non capisce che Juli le sta chiedendo un consiglio, e procede spedita caricandole le ciglia.  Ascoltandola parlare ci si sente ancora immersi nel film in costume che uscirà nelle sale il 15 novembre, il secondo in cui a dirigerla è Laszlo Nemes, dopo la piccola parte avuta in Il figlio di Saul.

Ma partiamo dall’inizio. Jakab nasce a Budapest 30 anni fa e  si laurea in sceneggiatura all’Università di Teatro e Belle Arti nel 2013, senza che la recitazione sfiorasse i suoi pensieri. «Da bambina era molto timida, il palcoscenico mi terrorizzava. Ma all’Università è normale partecipare ai progetti di altri studenti e mi sono ritrovata in molti ruoli. Ricordo il giorno in cui a dirigermi è stato un compagno di scuola. Era un suo corto di cui avevamo scritto insieme la sceneggiatura. All’ultimo momento mi ha voluta al posto dell’attrice che avevano scelto, e all’improvviso tutta la mia timidezza è sparita, lì ho capito che stare davanti alla macchina da presa mi piaceva moltissimo». Una serie di coincidenze e vari corti dopo, arriva un piccolo ruolo in Il figlio di Soul, passato dal festival di Cannes tre anni fa per vincere poi un Oscar come miglior film straniero. «Avevo incontrato Laszlo 10 anni fa, ma il direttore del casting di Tramonto all’inizio non mi aveva considerata. È capitato però di incontrarci in uno dei peggiori periodi della mia vita. era nel 2014, me ne stavo sdraiata su un divano,  sfatta. Mi ha vista e mi ha detto “dovresti provare la parte di Juli…”. Così è arrivato il mio secondo film».

Diversamente da Il figlio di Saul, che aveva un approccio di tipo documentaristico, Tramonto assomiglia a un mistero a cui lo spettatore viene invitato a partecipare per 142 minuti accanto alla sua protagonista, senza trovare una via d’uscita da quello che sembra essere un labirinto stratificato. «Il processo di casting è durato 10 mesi, ho avuto il tempo di familiarizzare con la storia di Irisz Leiter, abbiamo percorso la sceneggiatura in lungo e in largo, parlando molto, ed eravamo d’accordo su tutto. Ho iniziato a capire presto che non dovevo pensare ma focalizzarmi sui sentimenti, una volta accettatolo abbiamo iniziato a lavorare bene da subito». Lei che fa la sceneggiatrice per la Hungarian national film fund, e che quindi oltre a recitare è impegnata attivamente sul fronte della scrittura di film, ha preso una decisione radicale prima di girare Tramonto: non partecipare alla stesura della storia. «Nel mio primo lavoro da protagonista volevo focalizzarmi completamente su questa donna, che per molti aspetti mi somiglia: è una persona che sente di dover risolvere un mistero e non molla. Conosco persone come lei, che riescono sempre a scivolare via e a risolvere ogni situazione. Hanno una certa determinazione e sono devote a una causa, questo rende tutto più facile. E prima o poi tutti nella vita ci confrontiamo con qualcosa di inevitabile, è successo anche a me: occorre resistere e aiutare le persone intorno a noi». Indagare su cosa sia stato quel momento drammatico a cui alludeva poco fa è impossibile: significa vederla sparire davanti a i propri occhi.  «I miei genitori sono insegnanti e amano i film, in casa non avevamo la tv ma andavamo sempre al cinema». Poi, il muro, sulla semplice domanda se ha fratelli o sorelle: «Ho un fratello e una sorella, ma ho avuto una tragedia personale di cui non voglio parlare».

(…continua)

Intervista integrale pubblicata su D La Repubblica del 10 novembre 2018

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