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Cristiana Allievi

~ Interviste illuminanti

Cristiana Allievi

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Il senso di un percorso

23 domenica Ago 2020

Posted by cristianaallievi in Cultura, giornalismo, Quella volta che

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Cosmopolitan, Cristiana Allievi, editori, giornalismo, Hearst, interviste illuminanti, maestri di giornalismo, Mondadori

di Cristiana Allievi

RITROVARE NEL CASSETTO L’INVITO A UNA FESTA A CASA DI LEONARDO MONDADORI, MI HA FATTO FARE IL PUNTO DEGLI ULTIMI 20 ANNI DI APPASSIONATO LAVORO

Per raccontare questo invito devo fare un passo indietro.
Tutto iniziò alla fine del 1999, che già sembra un titolo di fantascienza. Gli americani sbarcarono in Italia per riaprire un giornale che negli anni Settanta e soprattutto Ottanta nel nostro paese fu un cult. Una rivista  che tutti compravano e tutti leggevano, ma di nascosto,  avvolgendola nel quotidiano per non farsi notare: era troppo trasgressiva, sexy ed emancipata per il pubblico di allora.Alla fine del 1999 l’idea di riaprire la testata in team con la Mondadori fu un evento clamoroso per l’editoria. L’allora vicedirettore di Io Donna, Silvia Brena, scelse un pool di giovani donne fidate con cui lavorava da tempo nella redazione del femminile del Corriere della Sera, fra cui me. Una delle cose più incredibili che ricordo erano le riunioni con gli americani di Hearst, che in Usa avevano fondato il giornale a fine Ottocento, partendo con un rotocalco per famiglie. La sterzata su sessualità, carriera ed emancipazione femminile con Helen Gurley Brown, che ha tolto i pannolini da casa e ha rivestito le donne a colpi di  gioielli  e scollature profonde.  Tornando alle riunioni, per me furono la scoperta di un modo completamente nuovo di pensare e  quindi di scrivere. Passavo le giornate a smontare e rimontare i pezzi perché quello che era il must del giornale era una specie di tabù per il resto dell’editoria: dare del TU ai lettori. Non si trattava solo di un cambio di pronomi personali. Venendo dal rigore di Io donna significava ribaltare un modo di comunicare, con se stessi e con il pubblico. Bisognava andare al cuore delle cose, scoprire se valevano per sé e poi condividerle come si fa quando si ha un consiglio prezioso da dare a un amico. Ci feci anche una tesi di giornalismo, tanto fu forte l’impatto che ebbe su di me questa direzione. Quando finalmente il primo numero fu pronto per andare in edicola eravamo elettrizzate. Figuriamoci quando l’editore in persona ci invitò una ad una per andare a festeggiare l’evento con la redazione internazionale made in Usa, a capo di 56 edizioni nel mondo. Andai da un sarto di Viale Piave a Milano che mi confezionò un abito in shantung di seta che ho ancora nell’armadio.
Ne approfitto per ringraziare i maestri che ho incontrato agli inizi della carriera, che mi hanno insegnato tutto e hanno tirato fuori il meglio di me preparandomi a quella  nuova fase. All’epoca non ero così consapevole  della fiducia e degli incarichi, a volte incredibili, che mi avevano affidato. Oggi onoro il percorso. 

Quella volta che McConaughey mi ha parlato di suo padre (e di bellezza)

24 giovedì Ago 2017

Posted by cristianaallievi in cinema, Personaggi, Quella volta che

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belli del cinema, Camila Alves, Dallas Buyers Club, Gold, Golden Globe, Grazia, Matthew McConaughey, Oscar, padre, stile

 

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L’attore texano Matthew McConaughey, 47 anni e un Oscar all’attivo (courtesy of Grazia Italia). 

Vedo chiaramente affiorare due bicipiti perfettamente disegnati, sotto la camicia rosa. E nonostante l’infelice capello castano (tinto per ragioni di copione), ha occhi blu molto difficili da dimenticare. Matthew McConaughey, in fondo, non è molto diverso dal ragazzo di tanti anni fa, dal figlio del proprietario di una pompa di benzina che aveva anche un business nel petrolio, dall’aspirante avvocato che ha sfondato nel cinema grazie al fisico bestiale.

All’improvviso, però, eccolo grasso, sfatto, stempiato e con quelle camicie a manica corta che spegnerebbero ogni sguardo femminile. Sto guardando Gold – La grande truffa, ora nelle sale, il film diretto dal regista di Syriana Stephen Gaghan, in cui l’attore e produttore Matthew McConaughey interpreta la vera storia di Kenny Wells, un uomo d’affari che per anni ha cercato la fortuna senza successo finché, con l’aiuto di un geologo, sembra trovare il più grande giacimento d’oro del secolo.

In pratica McConaughey incarna lo spirito imprenditoriale dell’America nel 1988, alla fine di quello che è conosciuto proprio come il “secolo americano”. Per quanto si tratti della sua ennesima “umiliazione” fisica, non posso non ammirare la tenacia di Matthew, un uomo che da un giorno all’altro è fuggito dalla gabbia delle commedie romantiche e ha costruito un cambiamento radicale, centimetro dopo centimetro, fino all’apice raggiunto grazie al ruolo di malato terminale scheletrico in Dallas Buyers Club, che gli è valso un Oscar, un Golden Globe e chelo ha trasformato da oggetto del desiderio in attore di culto.

Non meraviglia che questo texano di Uvalde, 47 anni,abbia trovato la forza in valori veri, come la famiglia. Nel 2012 ha sposato la modella brasiliana Camila Alves, con cui ha avuto tre figli. E diventare padre gli ha portato molta fortuna, anche nel lavoro.

Chi è il suo personaggio in Gold e soprattutto che cosa vuole?
«Kenny Wells di mestiere fa il prospettore, cioè qualcuno che studia i terreni e fa ricerche minerarie. Nessuno sa mai in anticipo se le risorse ci siano effettivamente, ma un prospettore, in genere, raccoglie i soldi, mette insieme una squadra. E se non si trova niente e finiscono i soldi, si perde la squadra e si rimane soli. Ma Kenny Wells è il tipo che segue una voce interiore che gli dice di non mollare. Il 99 per cento dei prospettori non trova mai ciò che sta cercando. Kenny Wells sì, grazie alla forza della pura volontà».

Sembra più un’ossessione, non trova?
«Che tipo di ragazzo inizia da un bar polveroso e sull’orlo del fallimento a Reno, Nevada, e finisce a viaggiare nelle giungle dell’Indonesia, arrivando ad avere una società quotata a Wall Street? Sono molto attratto da personaggi come lui, dal loro spirito puro. Kenny aveva un’ossessione singolare, era un outsider, un sopravvissuto, un uomo al collasso. E, posso dirlo?».

Prego.
«Era un uomo che aveva due palle così. Ha avuto il coraggio di fare un biglietto di sola andata per IPAl’Indonesia per inseguire il suo sogno In un certo senso è qualcosa che ho fatto anche io».

Il 2010, infatti, è stato l’anno della sua svolta: era il fidanzato di ogni film romantico e da lì in avanti l’abbiamo vista in ruoli tostissimi come Killer Joe, Mud, Interstellar. Che cosa l’ha spinta a un cambiamento radicale?
«Una commedia è una favola, sai che cosa accadrà. Io cercavo un riconoscimento diverso e profondo da parte di chi mi guarda. Perché ho voluto smuovere le acque? Non lo so, nonostante abbia amato tutto quello che ho fatto in vita mia, qualcosa si è acceso. Ho iniziato a ricevere proposte di film indipendenti e a sentirmi attratto da gente e personaggi fuori da ogni tipo di convenzione».

In poche parole ha tolto di mezzo il fisico. Eppure lei resta uno degli attori più fisici in circolazione.
«Ero un atleta e vengo da una famiglia dove i muscoli contano. Una delle cose che mi piacciono di più al mondo è il movimento, usare il corpo. Ma ci sono almeno tre tipi di fisicità. La prima è nella testa, la seconda nel cuore e solo l’ultima è nei quadricipiti. E comunque è vero, sono un uomo molto fisico. Mi piace la vicinanza, il contatto, come amico, amante e persino sconosciuto, mi piace stare vicino alle persone».

La sua trasformazione in Gold è importante e radicale come quella fatta per Dallas Buyers Club.
«Il personaggio di Ron Woodroof era nell’ultima fase di una malattia terminale, ho praticamente smesso di mangiare e perso 30 chili. Con Kenny Wells ho iniziato il processo inverso, cercando di vedere il mondo attraverso i suoi occhi. Ho cominciato a bere birra e frullati e mangiare cheeseburger. Sei settimane dopo non riuscivo più ad abbottonarmi i pantaloni e in sei mesi ho preso 22 chili. Ho pensato a tutte le persone che avevo incontrato da piccolo, mio padre mi ha presentato molti uomini come Kenny Wells, lavoravano con lui nel settore petrolifero, lui stesso assomigliava molto a Kenny».

Che tipo di uomo era suo padre?
«Corpulento, del genere che non si guarda mai allo specchio perché non ha tempo. Ha investito in una miniera di diamanti in Ecuador, e non c’erano diamanti. È andato lì, ha preso il suo machete e si è fatto strada attraverso la giungla. Dicevamo sempre a papà che, se c’era di mezzo un affare fallimentare, lui si lanciava. Lui rispondeva che preferiva lavorare con persone divertenti e vivere un’avventura, piuttosto che fare davvero un buon affare con un gruppo di cadaveri».

Il film è stato girato nella giungla della Thailandia, nella stagione dei monsoni. Anche questa dev’essere stata una bella sfida.
«I nostri set sono stati letteralmente inondati e trascinati via dalle correnti. Siamo rimasti chiusi nelle roulotte per molto tempo. C’erano serpenti velenosi praticamente ovunque, ma soprattutto i nostri piani non contavano: un minuto pioveva, e giravamo alcune scene, e quello dopo sbucava il sole e allora facevamo tutt’altro. L’eccitazione e il mistero erano palpabili, in una simile situazione nessuno poteva nascondere la fatica».

Nel film molte scene sono state girate a Reno, in Nevada, dentro un bar chiamato The Three Greenhorns, che Kenny e i suoi collaboratori usavano come ufficio.
«Mio fratello maggiore è diventato multimilionario a 21 anni. L’attività petrolifera gli ha fruttato tantissimo, ma non aveva un ufficio. Soggiornava in un hotel a Houston o a Dallas quando faceva affari, si svegliava a mezzogiorno, bevendosi una caffettiera intera e poi si dirigeva verso un posto simile a quello che si vede nel film. Dalle due del pomeriggio a mezzanotte potevi guadagnare fino a 150 mila dollari, il denaro scorreva a fiumi e tanti come lui hanno fatto affari con i ragazzi con cui si andavano a bere una birra».

Lei nel film ha una fidanzata di lunga data, Kay, il classico rapporto iniziato da ragazzi.
«La storia è meravigliosamente semplice e questo ha a che col fatto che siamo nel 1988: i due non si sono mai lasciati, non hanno il lusso di poter discutere con l’analista o di dire: “Non voglio vederti mai più”. Lui è il ragazzo di cui lei si è innamorata, e lui la ama. Colpisce anche un certo rispetto tra i due, l’amore senza troppe elucubrazioni. Ne ho viste tante di storie così quando ero giovano in Texas».

Pensa ci sia una connessione tra il suo essere diventato padre, nella vita vera, e la buona sorte che accompagna la sua carriera?
«Hollywood è un mondo pieno di paure, sei sempre lì a chiederti quando lavorerai ancora, come andranno le cose, se procederanno bene e per quanto. Da padre ti senti più coraggioso, hai la forza di attraversare le zone buie. Se sei felice a casa, e io in famiglia sto molto bene, ti senti più libero di volare. O forse, di volare più in alto».

Intervista pubblicata su Grazia del 4 maggio 2017 

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Gli sherpa: «Noi, sopravvissuti sull’Everest».

01 mercoledì Feb 2017

Posted by cristianaallievi in Mostra d'arte cinematografica di Venezia, Quella volta che

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Baltasar Kormakur, Cristiana Allievi, Everest, Helen Wilton, Jack Gyllenhaal, Jan Arnold, Josh Brolin, sherpa

EVEREST: I SOPRAVVISSUTI SI RACCONTANO AL FESTIVAL DI VENEZIA


Helen Wilton, Jan Arnold, gli sherpa: ricordi della tragedia della scalata del 10 maggio 1996 in cui morirono 8 persone. Il cuore del film di Baltasar Kormakur

di Cristiana Allievi

“Di solito sappiamo bene come uscire dalle tempeste sull’Everest. Ma quella è stata fuori dall’ordinario…”.

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Jack Gyllenhall (a sinistra) e Josh Brolin (destra) in Everest, del regista islandese Baltasar Kormakur.

A parlare, a margine della presentazione del film Everest di Baltasar Kormakur alla 72esima edizione del Festival di Venezia, è uno degli sherpa sopravvissuti alla tragedia del 10 maggio del 1996 in cui persero la vita otto persone appartenenti alle due spedizioni che stavano scalando il tetto del mondo.

A ricordare quei momenti tremendi ci sono altre persone. Helen Wilton, la manager del campo base della Adventure Consultants,  a 5534 metri di quota, e la dottoressa Jan Arnold, moglie di Rob Hall, capo della spedizione, morto assiderato dopo aver cercato invano di assistere un cliente esausto: non avendo più forze per scendere a valle, è rimasto solo, esposto alle intemperie.

La Arnold, che ha conquistato l’Everest la prima volta nel 1993, è stata la dottoressa al seguito di varie spedizioni del marito. Quell’anno era casa dove ha ricevuto la tragica telefonata in cui la Wilton la metteva in collegamento con Rob per l’ultima volta. “Le sue ultime parole sono state: dormi bene tesoro, e non preoccuparti troppo di me… Dopo averlo sentito ho dormito per tutta la notte, non mi sentivo sola perché ero incinta della nostra bambina, ero molto protetta. Mi ci sono voluti diciotto mesi prima di crollare davvero”.

E ammette che certe cose, dentro di sé, si sentono. “Quando sposi uno scalatore degli 8mila speri di passarci insieme la vecchiaia, ma una parte di te sa che forse non succederà”. Ricorda quando è arrivata in cima a quegli 8848 metri la prima volta. “Vedevo quelle vette taglienti sotto di me, il cuore mi scoppiava. Ho dovuto aprire l’ossigeno, e Rob ha detto al povero sherpa di stare con me… Sapevo di essere una privilegiata, basta che sbagli il giorno e non ce la fai: è il destino che decide, al di là di tutti i dettagli logistici”.

E il giorno in cui il destino si è messo di traverso, al campo base c’era Helen Wilton che, disperata nel sentire la voce di Rob via radio senza più forze, ha tentato un gesto estremo: fargli sentire la moglie appunto. “La mia tragedia è stata l’attesa. Ho aspettato di sentire la voce dei dispersi per un tempo infinito, che il film non può rendere per questioni di durata complessiva. Quel vuoto non uscirà mai dalla mia mente. Come le immagini dei sopravvissuti arrivati al campo, sembravano tornati dalla trincea, erano esausti, congelati, piangevano…  Dopo averli soccorsi sono rimasta una settimana in più per portare giù tutte le attrezzature con gli sherpa, ma la mente non riusciva ad accettare che stavamo lasciando lì altri cadaveri. Non so quante volte mi sono voltata, sperando di vedere Rob tornare, per un miracolo”.

Gli sherpa sono elementi chiave di queste spedizioni, e anche quel giorno hanno constatato che la parte più pericolosa del loro lavoro non sono le slavine. “Per scalare una montagna simile devi sapere tutto sulla tua resistenza, sulle tue riserve. Il nostro rischio è l’ambizione delle persone quando non è supportata dall’esperienza: quando l’ego diventa la parte dominante di chi siamo, e non ne siamo consapevoli, arriva il pericolo”.

Si congedano raccontando com’è cambiato il Nepal, dopo l’ultimo grande terremoto. “È un paese traumatizzato, ma questo film sarà un grosso aiuto. Farà tornare il nostro paese  al centro della cronaca, e noi non desideriamo altro che il turismo riprenda quota. E anche se non vai sull’Everest, sei comunque nel paese in cui si trova quell’incredibile vetta…”.

Intervista pubblicata su Icon/Panorama  

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Woody Allen «A scuola ero un asino»

14 mercoledì Dic 2016

Posted by cristianaallievi in cinema, Miti, Quella volta che

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ipocondria, Woody Allen


Il grande regista e attore americano racconta a OK il suo passato di studente per niente modello. E smentisce la leggenda sul suo essere ipocondriaco, definendosi al massimo «un allarmista»

Tutti credono che io sia un intellettuale. Penso dipenda dal fatto che porto gli occhiali. In realtà non lo sono mai stato, a scuola ero un pessimo studente, mi hanno persino buttato fuori dall’Università. Tutti i miei amici sono diventati dottori e avvocati, io da giovane non sapevo cosa fare. Immagino che se non avessi avuto il dono di far ridere le persone sarei finito a riparare ascensori, non avrei potuto fare niente di creativo. Ci ho messo tempo a capire di avere un dono, un’abilità diversa. E la scoperta che si trattava di divertire le persone è stata lenta anche perché sono molto timido e l’ultima cosa che pensavo di fare era trovarmi su un palcoscenico o su un set cinematografico.
Spesso mi chiedono come faccio a fare un film dopo l’altro. Io rispondo: «È l’unica cosa buona che faccio, tutto il resto è sbagliato!».

Nessuno è un disastro totale, tutti possono fare qualcosa: io sono un disastro in tutto, ma sono produttivo. È stata questa la mia vera cura, più dell’analista. Spesso i giornali associano il mio nome alla psicanalisi e alla psicoterapia. Io ho sempre raccontato barzellette sull’argomento perché in America è molto facile far ridere schiacciando quel tasto.

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Se si parla di sesso la gente ride immediatamente, lo stesso succede con la psicanalisi. Comunque ci ho flirtato sin da giovanissimo e mi sono avvicinato alla materia con risultati a volte buoni e altri meno buoni. Diciamo che ho pensieri positivi in merito, credo che faccia bene a moltissimi e ad altri no.

NON SONO IPOCONDRIACO
E sempre in merito ai miti che mi riguardano personalmente, non è vero che sonoipocondriaco, semmai sono un allarmista: non mi sento ammalato di continuo, è che quando io mi ammalo penso sempre sia la volta buona.

Dicevo della produttività, la mia vera terapia e la mia fortuna. Trovo che chiunque si impegni in un’attività faccia la cosa giusta, a me serve a non seguire pensieri catastrofici. Se non ci si tiene occupati, la mente fa viaggi strani e poco sani. Ma non è l’unico motivo per cui faccio un film all’anno. Ho capito col tempo che inventare storie è la mia passione e serve a mantenermi a un buon livello di energia generale. Non credo che per fare questo occorra essere attori o registi: essere occupati e avere un lavoro creativo sono due cose diverse.
Ci si può mantenere impegnati anche dipingendo il proprio appartamento, non è indispensabile avere quel dono speciale della creatività che hanno un pittore, un compositore, uno scrittore. Per quello si deve essere fortunati. E anche qui occorre precisare: con essere fortunati non intendo essere famosi, ma nascere con un talento. Picasso è nato con un talento, Mozart anche.

GIRARE FILM È LA MIA TERAPIA Quando mi ricordano che anche io sono musicista, sorrido e dico che le cose sono diverse da come sembrano.

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La gente viene ad ascoltarmi suonare perché mi conosce come regista e attore, altrimenti non verrebbe nessuno! Non so se per me quale attività sia più terapeutica. Dirigere un film non è pesante, fanno tutto gli attori, basta ingaggiarne di bravi… Anche suonare al mio livello è facile, mi alleno solo un’ora al giorno, mentre i veri musicisti suonano cinque volte di più. Mentre scrivere sceneggiature è allucinante: sei solo nella stanza, non succede nulla. Dimenticavo, dirigere film mi fa bene anche perché mi permette di viaggiare. Parigi è il luogo in cui vivrei se non fossi a New York. Adoro anche Londra ma, se dovessi scegliere, Parigi è come casa, ha lo stesso nervosismo, la stessa cultura. Se non fossi stato così codardo da giovane, sarei andato a viverci. Ero spaventato dal perdere le mie radici. Che invece non dovevano essere così profonde, visto dove mi trovo adesso.

Articolo pubblicato su Ok Salute del 24 febbraio 2014

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Sarah Ferguson «Voglio combattere il cyberbullismo».

05 mercoledì Ott 2016

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Belstaff, Castagneto Carducci, Children in crisis, Cristiana Allievi, Elisabetta II, Franco Malenotti, Gaddo della Gherardesca, Grazia, Little Red, principe Andrea, Royal Lodge, Sarah Ferguson, Verbier

ALL’INIZIO È DIFFIDENTE, «CON TUTTO QUELLO CHE I GIORNALISTI SCRIVONO DI ME…». MA SARAH FERGUSON SA LASCIARSI ANDARE, E RACCONTA LA SUA NUOVA VITA. IN CUI NON “AFFOGA” PIU’ NEL CIBO, HA PERSO 14 CHILI E HA RITROVATO TUTTA LA SUA FORZA.  COME C’È RIUSCITA? «FINALMENTE NON SONO PIU’ ARRABBIATA CON ME STESSA».

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Sarah Ferguson, Duchessa di York, 56 anni, scrive libri, produce film e segue varie attività benefiche  (courtesy Timothywhite.com)

«Parlerò con lei, ma le chiedo lo stesso rispetto nei miei confronti che io avrò nei suoi». Premessa strana, quella della Duchessa di York. Mi spiegherà poco dopo, con calma, che ha dovuto allontanare dei colleghi che «si sono spinti troppo oltre, perché sono sincera, e rispondo a tutte le domande». Di “Fergie la rossa” e dei suoi scandali, sentimentali e finanziari, si è scritto e detto di tutto, ma è evidente che la duchessa di York non si è abituata al trattamento riservatole dai tabloid in generale e da quelli del Regno Unito in particolare. Ma oggi siamo in Italia, al Casale Ugolino di Castagneto Carducci, che per Sarah Ferguson è sinonimo di rifugio. Nella terra del Bolgheri vent’anni fa ha avuto una liason durata cinque anni con Gaddo della Gherardesca, e il clamore delle loro apparizioni ha fatto la fortuna del luogo. Lui è nei paraggi e la cura a vista, e sempre in zona c’è un altro amico comune, Franco Malenotti, ex patron di Belstaff, che ha voluto un Museo Sensoriale e Multimediale del Vino e lo ha fatto creare al tre volte premio Oscar Dante Ferretti, proprio in un ex granaio appartenuto ai conti Della Gherardesca. Sarah è qui a fare da madrina all’inaugurazione. 56 anni, abito nero a disegni bianchi, ballerine e giacca di jeans beige chiara, la migliore amica di Diana d’Inghilterra (e la più scatenata tra le due), ha uno sguardo intenso, e tutt’altro che sfuggente. Essere stata allontanata dalla vita di corte dopo il divorzio dal Principe Andrea, con cui è stata sposata alla fine degli anni Ottanta e da cui ha avuto due figlie, è stata una specie di toccasana per lei: ha messo al riparo quella ingenuità congenita che è un po’ il suo marchio di fabbrica. Oggi ha la sua residenza a Verbier, in Svizzera, dove lei e Andrea possiedono uno chalet, ha un appartamento a Eaton Square, a Londra, e una stanza nella Royal Lodge del Castello di Windsor. Non più “sua altezza reale”, ma semplicemente Sarah, duchessa di York, e ha da poco terminato il faticoso percorso che l’ha riportata a corte. Ultimo atto lo abbiamo visto l’anno scorso, è stata l’apparizione pubblica accanto ad Andrea per il Royal Ascot Meeting, sigillo della riconciliazione definitiva con la regina. Peccato che ad aprile il suo nome sia finito nella Panama Paper list, tra quelli di Putin e del figlio dell’ex premier britannico Margaret Thatcher, creandole altri pensieri. «Mi scusi se non ho il rossetto», mi dice, «la mia auto non è qui e non ho il beauty con me».

 Che effetto le fa tornare in Italia, come fa spesso? «Quando diciassette anni fa ho toccato il fondo, e i giornali inglesi sono stati a diro poco crudeli con me, qui mi avete dato amore e io ci ho creduto. Voi italiani mi trattate come Sarah, siete sempre stati molto gentili con me. E oggi sono qui per per l’amicizia che mi lega alla famiglia Della Gherardesca, a Castagneto e al suo castello. Anche la famiglia Malenotti, che ha fatto una cosa grandiosa pensando a un museo del vino».

Lei è spesso sui giornali, ma non sono in molti a sapere cosa fa nella vita. «Avrà letto molto su di me, ma oggi sono una donna forte, lo sa? Ho scritto 54 libri, di cui 22 per bambini, e Little red (una serie di cinque volumi, ndr) diventerà presto un film di animazione e Budgie the Little Elicopter tornerà a volare. Presto produrrò il sequel di The young Victoria, e poi ci sarà quello sul principe Alberto. Il principe consorte voleva che l’Inghilterra vedesse il mondo, con la Grande Esposizione Universale di Londra ha fatto costruire un palazzo di cristallo ad Hyde Park… Se si pensa a cosa può aver significato costruire una cosa simile a quei tempi, si può dire che Alberto ha anticipato di parecchio Zuckeberg nell’idea di connettere il mondo: era un social media vivente nel 1851!».

La Children in crisis è la sua fondazione più nota ed è focalizzata sull’educazione. Cosa l’ha spinta a spendersi tanto in questo senso, come faceva la sua amica Diana? «Seguo 122 scuole nel mondo, e ne costruiremo altre. Ho iniziato nel 1992 perché la mia bisnonna un giorno mi ha detto “quando ti senti male con te stessa, vai fuori e dai qualcosa agli altri. Ti renderai conto di quanto sei fortunata”. Sono andata nella zona più inquinata della Polonia, dove i bambini morivano per l’aria che respiravano. Li portavo in montagna per 20 giorni e questo gli regalava due anni di vita. Da lì non mi sono più fermata».

Come si sente oggi, con tutte le esperienza che ha attraversato? «Non come una cinquantaseienne, ma come una teeneger, per me tutto è un pò magico. Prima stavo passeggiando e osservavo le forme degli alberi, mi chiedevo se le mucche sono felici per come sono gli alberi… Guardavo un bambino e mi colpiva quanto era felice a saltare in una pozza, anche senza acqua dentro. Ho chattavo con mia figlia dicendole quanto oggi sia una giornata meravigliosa».

È sempre stata così? «Sì, ma a un certo punto mi sono persa per strada, e la mia vita è diventata il cibo. Ho dovuto rimettere le cose a posto, ho deciso di guarire me e la mia mente, e una volta fatto non hai più bisogno del cibo».

Ha scritto cinque libri di lifestyle per la Weight Watchers… «Quello che faccio nella vita è sempre frutto della mia esperienza. Sono andata in Svizzera in un resort, fuori stagione, e ho vissuto con quello che offriva la stagione. Non ho fatto palestra ma ogni giorno andavo a camminare in montagna e bevevo un’emulsione, che a differenza di un succo mantiene le fibre. Ho creato un macchinario in cui metti tutto dentro, ginger, mele, ananas, carote, e bevi tutto insieme».

I risultati dei sui sforzi sono notevoli. «Ho perso 14 chili in tre mesi, ma soprattutto ho cambiato il mio mind set. Ho scoperto di essere stata molto arrabbiata con me stessa, per molti anni, mi volevo punire mangiando. A tre anni di distanza mi sento più forte».

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A Verbier con l’ex marito, il principe Andrea, e le loro due figlie (courtesy bbc.com)

È vero che ha creato anche una linea di bevande speciali, dietetiche? «Ho creato due linee, al momento le sto usando solo io ma sto cercando investitori. Una linea sono hot diet drinks, con gusti come fragole e panna, torta al cioccolato, e golosità simili. La seconda è per le donne che si accorgono di bere troppo vino, ma non vogliono entrare in un ristorante e chiedere acqua. È troppo triste, meglio un te al gusto di gin and tonic, o come preferisce mia figlia un “whiskey mac”, con ghiaccio!».

So che è legatissima a Beatrice e Eugenia, le sue figlie. «In questi giorni sono sotto attacco dei social media, sono distrutta per loro e trovo tutto molto sbagliato (si commuove, ndr): le mie figlie sono donne umili, non meritano tutto questo. Le hanno chiamate “le sorelle brutte”…. Non si può fare una cosa simile, voglio combattere il cyber bullismo, è davvero pericoloso».

Nonostante tutto, lei manda sempre messaggi positivi, dai giornali. «Sempre, sa perché? Sono la donna più fortunata del mondo. Ho vissuto il sogno di ogni ragazza, sono entrata nella carrozza di vetro e ho sposato un principe, che ha addirittura disegnato il nostro anello di fidanzamento con le sue mani. La vita mi regala tantissimo, ogni giorno».

 Come va con la regina Elisabetta? «La adoro, come adoro Papa Francesco e chiunque sostenga qualcosa con il cuore, e sia coerente. La regina è così, c’è sempre, è sempre gentile, perdona sempre. E trova sempre un modo suo per essere speciale, è la donna più coraggiosa che conosca».

Articolo pubblicato su Grazia del 14 luglio 2017

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Quella volta che Chad McQueen mi ha detto: “Il mio è stato un padre difficile da digerire”

08 martedì Mar 2016

Posted by cristianaallievi in Festival di Cannes, Miti, Quella volta che

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Bullit, Chad McQueen, Cristiana Allievi, Ford Mustang GT, Le Mans, Steve McQueen, Steve McQueen: Una vita spericolata

Chi era davvero Steve McQueen

A 35 anni dalla sua morte, esce il docu-film “Steve McQueen: Una vita spericolata”. Abbiamo chiesto al figlio Chad i raccontarci le passioni del padre: donne e corse (ma non solo)

I motori erano la sua ossessione. Dal vivo e sul set. Steve McQueen non si accontentava di correre, voleva girare il più grande film di sempre sulle corse. E per farlo mise a repentaglio la carriera, il matrimonio, forse la sua stessa vita. Lo rivela un docu-film, Steve McQueen: Una vita spericolata, presentato in anteprima al festival di Cannes e nei cinema il 9-10-11 novembre, in cui Gabriel Clarke e John McKenna hanno messo insieme i retroscena delle riprese di Le Mans (1971), il film realizzato da Lee H. Katzin su una delle più massacranti corse automobilistiche del mondo. E soprattutto lo racconta aGQ il figlio di McQueen, Chad, 55 anni, ex attore, produttore e pilota professionista a sua volta, che oggi cura tutto ciò che ruota intorno all’immagine del padre, “The King of Cool”. Un tremendo incidente durante le prove della 24 Ore di Daytona, nel 2006, gli ha lasciato addosso un mucchio di cicatrici, ma non ha spento il suo amore per lo sport: sembra elettrizzato quando torna sul circuito di Le Mans per descrivere l’estate del 1970, quella in cui il padre si consumò per realizzare un sogno.

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Seicento scatole con materiale di scarto delle riprese di Le Mans hanno dato vita, quarant’anni dopo, a Steve McQueen: una vita spericolata. Il docu-film mostra luci e ombre di un padre che è anche una leggenda: difficile da sopportare?
«Ci sono stati vari aspetti scomodi per me. Prima di tutto aver dovuto risentire la sua voce mentre era malato di cancro, in Messico: il materiale inedito, però, era straordinario e mi sono fatto coraggio. Poi riscoprire il momento in cui ha iniziato ad andare con altre donne, motivo per cui ha divorziato da mia madre dopo 16 anni di matrimonio. Me lo ha fatto vedere sotto un’altra luce: lì ho sentito che forse non era un brav’uomo, ed è stata dura, perché per me lo era sempre stato».

Suo padre teneva a Le Mans più di ogni altra cosa al mondo. Perché non ha continuato a correre, invece di fare l’attore?
«E chi lo sa? Quando uscì il film, fu molto criticato. Nel primo weekend incassò la stessa cifra di Ispettore Callaghan, il caso Scorpio è tuo, con Clint Eastwood, poi crollò. Era noto che mio padre aveva voluto il pieno controllo del film, e lui si prese tutta la colpa, ma col passare degli anni quel titolo è diventato la pellicola più iconica di sempre sul mondo delle corse. Ho visto i dati di vendita: a fronte di un investimento di 6 milioni di dollari, la Paramount ha fatturato tre volte tanto».

Che uomo era Steve, ai suoi occhi?
«Uno davvero incasinato dentro. Non ha mai conosciuto suo padre, la madre era una figura assente e beveva molto. Mi ha raccontato che la scuola di correzione in cui era finito, la Junior Boys’ Republic, a Chino Hills,  in California, gli aveva cambiato la vita, “perché aveva struttura, lì ho imparato a occuparmi di me stesso”. Aveva un forte senso della famiglia, nonostante si sia separato da mia madre quando io avevo 13 anni. Era un padre amorevole, prima di girare qualsiasi film si assicurava che io e mia sorella Terry (morta a 38 anni per un’emocromatosi, ndr) potessimo raggiungerlo sul set: aveva bisogno che fossimo uniti».

Come spiega la fascinazione di suo padre per le corse e la velocità?
«Sembrerà paradossale, ma guidare a 350 chilometri all’ora fa sentire molto rilassati. Credo che mio padre andasse a correre per svuotarsi la testa».

Ovviamente ha lasciato l’impronta dei motori anche su di lei.
«La sua prima macchina è stata una Porche 1958 Speedster, che io posseggo ancora, poi sono venute la Jaguar XKSS e la Lotus Race. È arrivato ad averne in tutto 36. Quando ho compiuto 15 anni, e quindi non avrei potuto ancora guidare, mi ha costruito una Indian Chief del 1947 con un sidecar».

Era più dotato come pilota di moto che di auto?
«Dopo Le Mans, che è stata la sua ultima corsa in auto, si è dato alle moto d’epoca. Sono arrivate le Harley, le Indian, le Miracle, pezzi dal 1911 al 1952: toccava a me pulirle tutte. Quando è mancato, a 50 anni, aveva collezionato qualcosa come 130 esemplari».

Dov’è finita la Ford Mustang GT con cui scorrazzava per le strade di San Francisco in Bullit?
«Non lo sa nessuno. Mi ha telefonato un tipo dal Kentucky dicendo di averla, ma non voleva mostrarmela. Gli ho detto che l’avrei comprata e donata al Museo Petersen di Los Angeles. Mi ha risposto “No, no…”. Credo fossero balle. Secondo me, l’hanno rottamata, era troppo conciata».

Come spiega un mito inossidabile al tempo?
«Con il fatto che mio padre era un diverso. Se guarda i close up, nei suoi occhi passa così tanta merda. La pessima infanzia da cui viene gli ha regalato uno sguardo per cui sembra sempre stia covando qualcosa, impossibile da replicare. I Brad Pitt e i Ryan Gosling di oggi non hanno quella faccia».

I suoi occhi restano impressi, guardando Una vita spericolata.
«Poteva anche non dire niente, ma restavi inchiodato a fissarlo. Chi è capace di fare quell’effetto, oggi? Clooney? Non credo».

Se Steve McQueen fosse ancora in circolazione cosa farebbe, secondo lei?
«Non farebbe più film, perché ne aveva già abbastanza, ma sarebbe a bordo di qualche vecchio macchinario. Nel 1978 comprò un ranch di sessanta chilometri quadrati a Santa Paula. Aveva sette autocarri, costruiti tra il ’47 e il ’53, aveva iniziato a collezionare anche quelli. Mi ci sono voluti anni per occuparmi di tutti i magazzini che teneva sparsi praticamente in tutta l’America».

Una vita spericolata inizia e finisce con una delle ultime conversazioni che suo padre ha avuto prima di morire di cancro, il 7 novembre 1980, con il dottor W. Brugh Joy.
«Quella conversazione è avvenuta mentre si stava sottoponendo a trattamenti sperimentali in Messico: la malattia lo spinse a rivalutare la sua vita e la sua carriera. Sei settimane prima di andarsene, disse di essersi ammalato per lo stress a cui si era sottoposto con le riprese di Le Mans. La più grande passione di mio padre è stata anche il motivo della sua morte».

(testo di Cristiana Allievi)

 

articolo pubblicato su GQ Italia

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Quella volta che Mick Jagger mi ha detto “Quando sei giovane corri molto, invecchiando devi usare l’intelligenza”

15 martedì Dic 2015

Posted by cristianaallievi in Miti, Quella volta che, Senza categoria

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Apocalypse Now, Beatles, Bianca Perez Morena, Carla Bruni, Chet Baker, Exile on main street, Francis Ford Coppola, Jarry Hall, Keith Richard, Let’s get lost, Mick Jagger, Stephen Kijak, Stones in Exile, Villefranche-sur- Mer

Certo non siamo qui per parlare di musica. Non mi aspetto nemmeno di scoprire certe verità sulle relazioni clandestine avute con modelle e donne più o meno blasonate di ogni nazionalità (c’è stata persino Carla Bruni, mentre era ancora sposato con Jarry Hall). Né forse mi rivelerà qualcosa di nuovo sulle sregolatezze di un uomo che è sulla cresta dell’onda da 46 anni: Mick Jagger è la leggenda del rock, sarà allenato a dissimulare almeno tanto quanto lo è (tutt’ora) a fare i balzi che fa sul palco durante un concerto con i Rolling Stones. Cosa mi aspetto, allora, dall’incontro con un mito? Di essere in fibrillazione- come sono – e di sentire l’energia che sprigiona dal vivo, di vedere com’è quella faccia così impertinente, quella bocca gigante che ha segnato la storia del rock, a due metri di distanza. Ho appena assistito all’anteprima mondiale del documentario Stones in Exile, di Stephen Kijak, presentato al Festival di Cannes, docu film che racconta gli inizi degli anni Settanta, quando la band ha lasciato l’Inghilterra per problemi di fisco e si è ritirata a Villefranche-sur- Mer, in una villa affitata da Keith Richards. Jagger ha appena attraversato la folla in delirio che lo aspettava da ore sulla Croisette. Indossa un elegante giacca grigia leggermente cangiante su jeans neri scoloriti, camicia bianca e sneakers color argento. Gli occhi brillano come due stelle, di una luce che non accenna a spegnersi. Il viso è scavato, sì, ma tutt’altro che appassito: Mick Jagger è in un certo senso un uomo senza età. Quando parla muove le mani nello stesso modo in cui le agita sul palco mentre canta, e sorride spesso in modo contagioso. Alla faccia della coerenza, decido di partire proprio dalla musica.

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Il cantante Mick Jagger, 72 anni, frontman dei Rolling Stones (courtesy of gds.it)

Il film che ho appena visto racconta del disco registrato nel 1971, Exile on Main Street: il decimo album degli Stones oggi è giudicato leggendario (è uscita in questi giorni la versione rimasterizzata ed è in testa alle classifiche dei dischi più venduti in Inghilterra) , ma all’epoca non era stato tanto compreso… «Al momento della pubblicazione non era stato accolto così male, ma non era stato capito. Il motivo credo fosse che era davvero lungo, quindi ci voleva molto tempo per assorbirlo, e così è stato».

Come si sente una star come lei a riguardarsi in immagini di quarant’anni fa? «Eravamo giovani, belli e stupidi, adesso siamo solo stupidi (ride, ndr). In quel momento Nixon era il presidente, c’era la guerra in Vietman, Eddy Merckx aveva vinto il Tour de France… Ma noi non sapevamo niente di tutto ciò, eravamo chiusi tutto il giorno a suonare».

Ma rivedere lei e i suoi compagni quando eravate praticamente ragazzi che effetto le ha fatto? «È come aprire un album di famiglia, con foto che non vedevi da secoli: dici “che bella”, oppure “che orrore”… Se però lo fai per lavoro devi essere professionale, superiore (ride, ndr)».

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Mick Jagger ai tempi di Exile on main street, nel 1971 (courtesy of Sequenza21.com)

Keith Richards ha detto che nella coppia che formate lei è “rock” e lui “roll”… «Diciamo che io sono “wrote”, e lui roll (la battuta allude al fatto che Mick scrive i testi e Richards è l’uomo degli estremi, ndr)».

A proposito, ma come riuscivate a lavorate con tutto quell’alcool e il fumo di cui non fate mistero anche nel film? «(ride, ndr) Noi ce l’abbiamo fatta benissimo! Non dico che sia una cosa grandiosa, o ideale, ma ci siamo riusciti…».

E come si dura per più di 40 anni? «È come in una partita di calcio. Quando sei giovane e c’è rischio di perdere corri molto, quando invecchi invece devi usare più l’intelligenza… Il lavoro da fare è tantissimo, e allo stesso tempo non si deve perdere la visione d’insieme. Ma soprattutto, mi creda, conta molto la fortuna, essere al momento giusto nel posto giusto».

La leggenda vuole che i Beatles e gli Stones siano sempre stati rivali, ma ho visto che Ringo Starr e Paul McCartney erano nei paraggi della villa in Francia, quando lei e Bianca Perez Morena (modella nicaraguese e prima moglie) vi siete sposati, a confermare che non era vero… Come vi siete sentiti quando i vostri colleghi si sono sciolti? «La cosa ci ha intristito, ma a dire la verità i Beatles non si esibivano dal vivo da anni, mentre noi lo abbiamo sempre fatto, ed è stata la nostra forza».

Infatti Martin Scorsese, che ha girato un altro film su di voi, Shine a light, ha scelto di riprendervi in un live, in un teatro newyorkese. Poi c’è Jean Luc Godard nel 1968 aveva girato One plus one-Sympathy for the devil: chi ha ritratto meglio gli Stones? «Difficile da dire, sono due punti di vista molti diversi e mi piacciono entrambi».

Lei guarda i documentari? «Mi piacciono quelli di Bruce Weber. Ce ne sono di stupendi, come quelli su Chet Baker (Let’s get lost, ndr) o quelli girati su vari set cinematografici».

 Chi è il suo regista preferito? «Amo molto Francis Ford Coppola, Apocalypse Now è uno dei miei film preferiti».

 

Articolo pubblicato su Grazia del 7 giugno 2010

© Riproduzione riservata

Quella volta che Brad Pitt mi ha detto: “Non ho più paura della morte”

10 mercoledì Dic 2014

Posted by cristianaallievi in cinema, Festival di Cannes, Quella volta che

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brad pitt; angelina Jolie; cinema; Croisette; Terrence Malik; produttore; Cannes; famiglia; figli

Per Malick doveva essere solo un produttore, poi ha deciso di metterci anche la faccia (“altrimenti chi avrebbe guardato un film così impegnativo?”). Recita senza copione, viaggia di notte  (per i paparazzi) e ha un’idea chiara in testa: i momenti migliori della vita sono quelli che non ha mai pianificato

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La coppia Jolie-Pitt sulla Croisette

È stato la star indiscussa del festival di Cannes. Si è presentato sul red carpet della Croisette con capelli ingellati, pizzetto sale e pepe, occhiali tartarugati e completo bianco. Tocco finale, le catene d’oro bene in vista. Segno che anche quello del sex symbol è un ruolo da interpretare con cura. Perché poche ore dopo, sul red carpet della proiezione ufficiale di The tree of life  – il film scritto e diretto da Terrence Malick che ha vinto la Palma d’oro al Festival di Cannes e che lo vede in veste anche di produttore- Brad Pitt si presenta in smoking, ma con la stessa bellezza magnetica.

La nostra intervista si svolge in un lussuosissimo albergo sul mare. L’attore americano, nel film, è protagonista assieme a Sean Penn e a Jessica Chastain (vedi pagina 52). Arriva nella suite in pantaloni color ghiaccio, maglietta bianca. Stessa catena d’oro e occhiali tartarugati.

La mia leggera tachicardia, mai manifestatasi prima davanti a un attore, mi conferma che probabilmente ho davanti l’uomo più bello del mondo (il quale, tra l’altro, sembra essere perfettamente a conoscenza della cosa). Ma un difetto, mi chiedo, lo avrà? Potrebbe non essere interessante, mi dico, mentre vedo i suoi occhi brillare come diamanti, dietro le lenti gialle degli occhiali.

La storia del film, ambientato negli Anni 50,  è quella di una famiglia e degli eventi che affronta. Lei è il signor O’Brien, un padre autoritario, che ama i suoi figli, ma che ha anche molte aspettative…
«Direi che il mio personaggio è un uomo molto triste, uno che non sente di farcela, oppresso dal sistema che lo circonda. O’Brien è in un circolo vizioso che ha un impatto forte su chi gli sta intorno».

Lei, invece, che padre è? 
«Uno che sta molto attento a non scaricare sui bambini le sue frustrazioni. Quando torno a casa, i miei figli sono incredibilmente consapevoli di quello che mi passa per la testa, ma io non voglio coinvolgerli. Voglio che siano liberi. Quello che desidero per tutte le persone, vale ancora di più per loro».

Ha dichiarato più volte che la morte la spaventa: diventare padre l’ha resa più timoroso o più forte? 
«Ha cambiato tutto. Anche i film in cui recito, altro non sono che un’estensione della direzione presa dalla mia vita. Oggi mi preoccupo molto di più, mi chiedo sempre se i ragazzi sono al sicuro, in ogni momento. La paternità ha cambiato anche il mio modo di scegliere i copioni: adesso so che, un giorno, i miei figli li vedranno. E ci penso due volte prima di accettare una parte».

Il regista del film, Terrence Malick, cinque film in quasi 40 anni di carriera e pochissime interviste, è una specie di figura mitica nel mondo del cinema. Com’è lavorare con lui?
«Malick è un mito, gli voglio molto bene. Gli interessa girare quello che

succede, non ha una tabella di marcia. I bambini del film, per esempio, erano alla loro prima esperienza cinematografica, avevano un armadio pieno di vestiti e lui li lasciava liberi di indossare ciò che volevano. Voglio dire che tutto, con Terrence, è molto autentico. Persino le luci sono quelle naturali».

Sembra che nel film ci sia molta poesia e poca “azione”… 
«Nessuno di noi aveva un copione. Ogni giorno il regista ci dava tre o quattro pagine e dovevamo sviluppare qualcosa a partire da lì. Se vedeva i ragazzi che inseguivano una farfalla, tutto il suo interesse andava lì. Non so se potrei rifare un’esperienza simile».

Perché?
«È sfinente, ma davvero incredibile».

Come influenzerà il suo modo di lavorare? 
«La mia esperienza mi dice che i migliori momenti della mia vita non sono mai stati pensati prima, o pianificati, sono eventi felici che sono semplicemente… capitati. Ecco, vorrei andare sempre più in questa direzione, studiare meno e affrontare di più quello che succede».

Malick non parla con la stampa, non ha ritirato nemmeno la Palma d’oro a Cannes. Come si è sentito a dover rappresentare il film parlando anche al suo posto? 
«In effetti è stato strano farmi intervistare e dire: “Terrence pensa”, “Terrence crede…”. Però capisco la dinamica. Quando lui ha iniziato a lavorare, 20 anni fa, il cinema non era come oggi, non c’era questa pressione per farti andare in giro per il mondo a vendere la tua creazione».

E la propria immagine. 
«Capisco la difficoltà della situazione. Io non ci faccio troppo caso e rilascio volentieri interviste, anche perché ci sono così tanti film sul mercato che non è uno scherzo farsi notare. Però cerco di non farmi coinvolgere troppo».

Anche per lei le cose sono molto cambiate. Ai tempi di “Sette anni in Tibet” non rilasciava interviste da solo, c’era sempre qualcuno seduto accanto a lei. Oggi siamo solo in due…
«Ai tempi non ero preparato, pensavo solo ai film e non ero pronto a tutto quello che comportano. Avere un registratore puntato addosso può essere un incubo e io non sapevo davvero come affrontarlo. Tutto quello che volevo era recitare».

E oggi?
«Sono più vecchio, più maturo, capisco più il meccanismo. Non combatto con

la “macchina” di comunicazione perché ormai conosco le sue regole. Le parole dei giornalisti hanno più importanza, in certe situazioni. Per esempio questo film: The tree of life va discusso, capito, affrontato. In genere sono un tipo schivo, cerco di non commentare tutto e preferisco fare le mie scelte. Indipendentemente da quello che si dice e che si scrive».

Sean Penn, in questo film, è suo figlio. E a Cannes era anche in concorso come miglior attore protagonista di “This must be the place” del nostro Paolo Sorrentino. Cosa pensa di lui come attore? 
«Sean è la ragione per cui ho iniziato a recitare. Era uno dei miei idoli quando

cercavo di capire cosa volessi fare da grande. È uno dei pochi che conoscono il timore, ma allo stesso tempo sanno che cos’è l’amore. E porta questa incredibile qualità nella sua recitazione».

Passiamo alla sua di famiglia e ai suoi sei figli. Li ha portati con sé anche per il film di Malick? 
«Sempre. Io e Angelina (Jolie, la sua compagna, ndr) siamo sempre con loro e lavoriamo sul set uno alla volta in modo da non lasciarli da soli. Nel caso di The tree of life abbiamo affittato una casa in Texas. Siamo molto felici dell’educazione che stiamo dando loro immergendoli in altre culture, in tanti posti del mondo diversi».

Hanno capito che sono figli della coppia più famosa di Hollywood?
«Loro pensano che, per lavoro, raccontiamo storie. Non sanno esattamente che cosa facciamo, quindi non ne sono troppo impressionati».

I suoi figli non hanno visto i suoi film?
«Nessuno. Forse nemmeno Angelina l’ha fatto! Non abbiamo molto tempo libero».

Com’è dover sempre fare i bagagli? 
«In famiglia siamo bravissimi in questa attività, soprattutto Angelina».

Come vi organizzate, visto che ogni mossa di lei e della Jolie muove 

stuoli di paparazzi? 
«Cerchiamo di viaggiare di notte, quando la gente dorme, perché è molto, molto difficile farlo alla luce del sole».

Prima diceva che si preoccupa dei suoi figli e di come giudicheranno i suoi film. Ne teme qualcuno in particolare?
«Una volta mi piacevano i personaggi più irriverenti, ora voglio che i ragazzi sappiano che il loro papà è un uomo maturo».

Ci dobbiamo preoccupare? 
«Sono più consapevole di non essere… “eterno”. Ci sono un po’ di film che voglio fare presto. Non dico che cambieranno il mondo, ma sono storie che hanno un senso. E sono sicuro che lo avranno anche per i miei figli».

Cristiana Allievi

La Locandina di "The Tree of Life" in concorso a Cannes

La Locandina di “The Tree of Life” in concorso a Cannes.

Qui il mio articolo su Grazia

2011 © Riproduzione Riservata 

Quella volta che Mickey Rourke mi ha detto: “Ero troppo piccolo per difendermi da mio padre”

15 mercoledì Ott 2014

Posted by cristianaallievi in cinema, Quella volta che

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cinema, Leone d'oro, Mickey Rourke, Nove settimane e mezzo, Quella volta che, The Wrestler, Venezia

Certo, non può succedere niente di grave. Ma Rourke non è uno che si incontra a cuor leggero. Sarà un po’ per le immagini del suo ultimo film, The Wrestler, e un po’ (tanto) per le cronache degli ultimi 20 anni che lo riguardano – un misto di boxe, botte da orbi alla ex moglie e follie varie. E poi stiamo pur sempre parlando del sex symbol che con Nove settimane e mezzo influenzò i sogni (e forse i comportamenti) dell’intero Occidente.

Con questo stato d’animo entro nella suite nel cuore di Roma in cui Lui sta aspettando. Dentro c’è un uomo alto,  dal fisico massiccio, con i capelli lunghi e un po’ incolti, scoloriti dal sole. Decisamente un bell’uomo, che sfoggia due vistosi anelli per ogni mano e una collana con un grosso ciondolo di giada. Indossa pantaloni di velluto beige, una maglietta grigia sbottonata che lascia scoperta una generosa parte del petto, e stivaletti neri da motociclista. Il viso è abbronzato, e del gonfiore con cui era apparso pochi mesi fa alla Mostra del cinema di Venezia non c’è più traccia.

The Wrestler - Mickey Rourke -3

Come sta?

«Bene, ma la mia voce se n’è andata (ne ha un filo, e scandisce le parole in tempi lunghissimi, ndr). Ieri ero in Turchia, sono andato in ospedale a fare accertamenti: mi hanno detto che sto solo parlando troppo, e non l’ho mai fatto in vita mia».

Merito del Leone d’Oro vinto a Venezia e della sua bravura…

«The Wrestler era il progetto giusto nelle mani del regista giusto, non credo che sarebbe stato così complesso e reale senza Darren Aronofsky. Ha voluto girare come se si trattasse di un documentario: la sensazione di chi guarda è quella di essere dentro la vita di qualcuno. All’inizio non volevo farlo, sapevo che questo regista mi avrebbe spinto molto avanti nel dolore, lo sapevo perché è intelligente. Così ho cercato di scappare».

Partiamo dal primo incontro tra voi.

«Viene da me e mi dice “Voglio che faccia tutto quello che ti dico, non voglio che mi manchi di rispetto, e posso pagarti”».

E lei?

«Ho risposto che se mi parlava in quel modo aveva palle, era il mio tipo di uomo. Poi non è stato per niente facile, non era mai soddisfatto, e sapeva che tasti schiacciare, come sfidarmi per tirare fuori il meglio da me. Mi ha scelto proprio perché è uno che vuole tutto. E non voleva che andassi in discoteca tutte le sere a correre dietro alle donne…».

Ci va ancora nei night club?

«Sì, ci vado (mi offre una delle 4 varietà di caramelle per la gola che, insieme al tè verde, alle gomme da masticare, a un pacchetto di Marlboro rosse e a una papaia, sono appoggiate sul tavolino che mi separa da lui, ndr)».

Insomma, lei è un tipo a cui bisogna stare addosso…

«Aronofsky era sempre su di me. Finito una scena, diceva “bellissima, ma puoi farla meglio. Guardami, Mickey, e brucia…”, ha voluto il mio sangue. Ha quel tipo di mentalità che quando facevo il pugile mi sfidava a combattere meglio, e oggi mi ha fatto girare un film dando il massimo».

All’apice della carriera, alla fine degli anni Ottanta, ha detto cose scomode: per esempio che a Hollywood non è mai esistito il rispetto per gli attori, e che la bravura non interessa a nessuno.

«Il cinema è puro business, è politica, lo penso tutt’ora. Ma all’epoca mi sono rifiutato di accettarlo, ero troppo naive, non abbastanza istruito per piegarmi. Non l’ho accettato, punto, pensavo che il mio talento bastasse, e che il resto potesse anche fottersi…».

Sulla rabbia, e su come gestirla, lei ha molto da raccontare. Ne ha voglia ? (fa un profondo respiro, ndr).

«È come leggere il libro l’Arte della guerra e poi trovarsi un giorno a fare una vera battaglia. Magari un giorno pensi di poterla vincere, perché il nemico ha il sole in faccia… Ma non sarà così tutte le volte, quindi dovrai scegliere le battaglie da portare avanti. E dovrai farlo con diplomazia, non con rabbia e sangue. Io non avevo né un piano né una strategia… Posso smettere di parlare per qualche minuto? Non ce la faccio più». (Passano due o tre minuti, in assoluto silenzio, ndr). «Era come continuare ad andare avanti, ma senza piani…».

Ha idea di dove stava andando?

«Il più lontano, il più ciecamente e il più velocemente possibile. Dove, non lo so».

Non sa dove era diretto, ma ha capito da dove stava scappando? «Da qualcosa di cui ho avuto paura e di cui mi vergognavo: volevo un posto in cui non sentire più quel dolore».

Quindi scappava dal dolore. «Mi ci sono voluti 15 anni per parlare con qualcuno, con un terapista».

Oggi direbbe che è più facile scappare dal dolore o affrontarlo? «Forse direi che aiuta molto riconoscerlo, dire “sì, esiste, lo sento”».

In altre parole, sopportarlo. «Lei non ha idea… Dentro di me pensavo, “Ok, in uno o due anni ti riprendi, puoi cambiare…”, invece ho dovuto proprio toccare il fondo (lungo silenzio, ndr). A un certo punto ho detto al mio terapista  “si immagini Robert De Niro, Al Pacino o Sean Penn, nessuno di loro potrebbe vivere come sto vivendo io in questo momento… Cosa farebbero al mio posto?”».

E lui?

«Mi ha risposto “solo tu potevi cadere così in basso, loro non avrebbero saputo come farlo”. Intendeva dire che ognuno ha la sua strada, ma in quel momento ho capito anche che tutto ha molto a che fare con le mie origini, e col non averci mai fatto la pace».

Ha voglia di essere più esplicito?

(osserva con affetto Loki, il suo chihuahua. Mi dice che ha 16 anni, che è una femmina e che lo conosce come nessun’altra persona. Sembra che questo momento gli serva a prendere coraggio, e una direzione, ndr). «Posso comprendere la rabbia e l’odio, posso comprendere tutto, ma la più grande debolezza che ho, e con cui fare i conti adesso, è il perdono. È l’aspetto più duro per me».

Ho letto una frase, ieri, che diceva “non accettare se stessi è la più grande violenza che uno possa compiere”…

«Può ripeterla, per favore?».

Non accettare se stessi è la più grande violenza che uno possa compiere. «È il mio tema del momento. Mi stanno succedendo cose molte belle ma, anziché essere felice, due giorni fa mi sono messo a piangere. Ero confuso, mi sentivo quasi colpevole».

Cosa le viene in mente?

«Perché dovrei avere una seconda chance? Sono stato un vero figlio di puttana nella mia vita… (segue un lungo silenzio, ndr). A New York c’è un prete di cui sono molto amico. Vado da lui a confessarmi, ma non mi fa entrare nel confessionale, ci sediamo in cucina, fumiamo e beviamo vino rosso, è diverso dagli altri. Pochi giorni fa gli ho detto che ero spaventato perché iniziavano a succedere eventi positivi…».

Cosa le ha risposto?

«Mi ha portato fuori a cena, non era mai successo prima. Solo lui e Franco sanno fermarmi dal fare cose terribili (Franco è il suo migliore amico, e tra poco me lo presenterà: è un signore con una faccia molto affidabile, sembra una persona buona, ndr)».

Dicevamo del prete.

«A cena gli ho detto che tornare in pista dopo tutti questi anni mi sembrava troppo. Mi ha risposto che sarebbe andato tutto bene. “Sì”, gli ho detto, “ma l’ultima volta non avevo paura…”. Così mi ha dato un libro, l’ho aperto: aveva cerchiato tutte le cose che riguardavano il perdono (silenzio, ndr). Ci sono giorni in cui parlo col prete, altri in cui parlo col terapista, a volte con entrambi (ride, ndr). Per otto, forse nove anni, non ho avuto un lavoro, e mi sono sentito una nullità. Tra l’altro vivevo a Los Angeles, una città costruita sull’invidia…».

È proprio così? «Lì conta solo il successo, e per quanto cerchi di nasconderti, non puoi farlo tutti i giorni, dovunque tu vada… Se mi avessero detto che ci sarebbero voluti 15 anni per tornare a lavorare e per cambiare, piuttosto sarei tornato a Miami, anche a fare il ladro. A un certo punto, però, ho capito che valeva la pena cambiare, e che non sarei stato meno uomo per questo».

Dove ha trovato il coraggio di essere qui, oggi?

«Sono stato fortunato, ho cercato e trovato queste due persone, il prete e il terapista. Uno è perfetto perché sono cattolico, e non avrei potuto mettermi una pistola in bocca per farmi fuori; l’altro mi ha aiutato a capire perché ho fatto quello che ho fatto. Comunque sarebbe stato più facile morire, credo».

Adesso che vive a NY sta meglio?

«Lì mi sento a casa».

The Wrestler è un nuovo inizio, per lei? «Sento che è tutto nuovo, niente suona come qualcosa che viene del passato. Mi reputo anche fortunato perché non sono arrabbiato per il tempo che è andato, non ho desiderio di vendetta, nè ho troppa vergogna».

Ha altri progetti?

«Le dico che sono pronto a partire, sì, e che mi interessano film intelligenti, non posso lavorare per soldi».

Cosa conta davvero per lei, quando si sveglia la mattina?

«Essere forte, ma in un modo completamente nuovo: come lo sono stato nel passato mi ha ucciso, mi ha fatto troppo male».

Dove aveva imparato, quel modo?

«È una lunga storia (lungo silenzio, ndr). Quello è stato il grande problema, la causa di tutti i problemi (l’aria è di colpo così pesante che si taglia col coltello, gli occhi di Rourke diventano lucidi, ndr). Ero piccolo, ero debole, non potevo, mi vergognavo…».

La memoria fa un balzo nella sua biografia: la madre di Rourke si è separata dal padre quando lui aveva pochi anni. Così dall’Irlanda si sono trasferiti in Usa e, quando Mickey aveva 6 anni, sua madre gli ha messo davanti il nuovo compagno, un poliziotto violento, dicendogli “questo da oggi è tuo padre”.

Di cosa si vergognava?

«Di non poter restituire, nè combattere alla pari, ma non puoi farlo quando sei alto meno di un metro (gli occhi diventano di nuovo lucidi. Smette di parlare, ndr). Credo che non mi perdonerò mai per questo. Non so cos’altro dirle».

A questo punto mi fermo anch’io, fino a quando non mi fa capire che mi regala ancora un po’ di tempo, e di se stesso.

Com’è il suo nuovo modo di essere forte?

«Invece di reagire a livello istintivo penso alle conseguenze, alle ripercussioni. Non voglio più che le persone abbiano paura di me».

Mi sembra una persona molto delicata, se posso…

«È una novità, non mi ero mai permesso di essere come mi vede, è una sensazione molto strana, mi creda. Mi piace, ma è come vivere con uno sconosciuto, “chi sei?” mi chiedo ogni tanto. Poi mi ricordo dei tempi peggiori, di quando mi guardavo allo specchio e pensavo “sembri un mostro…”, era tremendo».

Oggi ha ancora qualche eccesso?

«Direi solo quello di correre dietro alle donne».

Non sembra pericoloso…

(ride, ndr).

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Mickey Rourke e Kim Basinger ai tempi di Nove Settimane e mezzo.

A questo punto Rourke si alza, raggiunge la finestra, si gira verso di me e dice: «Lei ha le domande giuste». Gli rispondo che mi interessa incontrare le persone. «Chissà se lo direbbe anche incontrandomi in discoteca, alle due di notte, ubriaco… Forse cambierebbe idea». Sorride, ed è l’unico momento in cui ricorda il sex symbol di quel vecchio film.

Panorama First 2008 © Riproduzione Riservata

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