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Cristiana Allievi

~ Interviste illuminanti

Cristiana Allievi

Archivi Mensili: marzo 2019

Prime Visioni. Le donne del cinema conquistano visibilità

24 domenica Mar 2019

Posted by cristianaallievi in arte, cinema, Cultura, Festival di Berlino, Festival di Cannes, Sundance

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cinema, Cinema Italiano, cinema tedesco, cinema Uk, cinema Usa, D La repubblica, donne, interviste illuminanti, Isabelle Giordano, Keri Putnam, Mariette Rissenbeek, Piera Detassis, Sundance, Tricia Tuttle

FORTI, PREPARATE, INNOVATRICI: LE DONNE DEL CINEMA CONQUISTANO VISIBILITA’, A PARTIRE DALLE STANZE DEI BOTTONI. COSI’, GUIDANDO FESTIVAL E KERMESSE INTERNAZIONALI, PUNTANO A UNA MAGGIOR PRESENZA FEMMINILE ANCHE NEI FILM

Le donne del BFI London Film Festival (courtesy D la Repubblica).

La fata dei cavoli. Un titolo che sembra un presagio, per il primo film girato dalla prima regista donna, nel 1896. Alice Guy, francese, fu poi l’autrice di altri seicento lavori, arrivando persino a dirigere studi cinematografici d’Oltreoceano. Ma finì dimenticata e in disgrazia, lasciando ai Lumiere tutti i meriti dell’invenzione del cinema.

Oggi le femministe francesi stanno lavorando perché Alice abbia il riconoscimento che merita e una strada intitolata a suo nome. Così, a mezzo secolo dalla scomparsa di Guy, l’occasione è giusta per fare il punto sulle donne (del cinema) con poteri e visioni forti. Per capire a che punto siamo sulla strada verso la parità fra sessi nel mondo di celluloide.  

«La Francia è il paese con la maggiore presenza di registi donne rispetto agli uomini, abbiamo anche molte produttrici e agenti di vendita», racconta Isabelle Giordano, ex madame del cinema di Canal+ dal 2013 direttrice generale di UniFrance, organismo che promuove il cinema d0Oltralpe all’estero. Con 300 film all’anno, e più di 60 coproduzioni internazionali: il primo in Europa. «Un dato strano, se si pensa che i francesi non hanno mai amato avere donne al potere. Ne parlavamo già 15 anni fa quando lavoravo in tv», aggiunge. «Abbiamo registe note in tutto il mondo, come Rebecca Zlotowski e Claire Denis, che però non hanno mai vinto una Palma d’Oro. Penso che occorre andare oltre il #metoo: la domanda da porsi non è più quante donne ci sono, piuttosto com’è la qualità del loro lavoro? E quanti film facciamo su di loro? Anche Bercot, Satrapi e la stessa Maiwenn girano film tosti, coraggiosi, ed è questo che occorre far capire a chi finanzia il cinema». Nel complesso  la Francia nel 2018 ha avuto un calo dello 0,5 di presenze nelle sale. «Il nuovo trend è avere tanta scelta, veloce e da casa, ma il cinema deve continuare a offrire spunti e richiedere tempo per riflettere. E dovrà lavorare accanto alle piattaforme, invece di far loro la guerra. Ci aspettiamo novità dal Festival di Cannes alle porte». L’unico box office europeo ad aver registrato un +0,6 per cento nel 2018 è quello inglese. «Negli anni Settanta in casa mia si andava al cinema almeno una volta alla settimana, se non due», ricorda Tricia Tuttle, nuovo direttore permanente del BFI London Film Festival, l’ente governativo che distribuisce i fondi per il cinema. «Oggi i costumi sono cambiati, ma invece di aumentare il costo dei biglietti abbiamo attuato una politica di flessibilità dei prezzi e ha funzionato». Laurea alla University of North Carolina, ha lavorato prima con Sandra Hepron, direttrice del London Film Fest, poi con Amanda Berry, amministratore delegato dei Bafta, e Claire Stewart, ex direttrice del BFI. «Sono tutte donne forti che puntano sull’avere intorno a sé persone creative a cui lasciar fare il proprio lavoro, dando molta importanza al contributo di ciascuno». Da Keira Knightley a Emma Thomson, da Helen Mirren ad Olivia Colman, da Rachel Weistz, Carey Mulligan ed Emma Watson, «le nostre sono professioniste versatili e dal forte appeal, non figurine messe lì per essere guardate. E fra le registe, l’anno scorso il 38 per cento erano donne, contro il 24 dell’anno precedente. Numero che precipita però quando si parla di grandi budget: dei 200 film ai vertici del box office nel 2018  solo 15 erano diretti da una donna», precisa Tuttle.

(continua…)

Articolo pubblicato su D la Repubblica del 23 marzo 2019

© Riproduzione riservata

Cristiana Allievi, è il mio compleanno

23 sabato Mar 2019

Posted by cristianaallievi in Senza categoria

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compleanno, Cristiana Allievi, vita

Io, a un anno.

Cercavo una foto da bambina, per festeggiare il mio compleanno. La prima che è saltata fuori è questa, avevo un anno. Guardarla mi fa felice perché non mi sento molto diversa da allora. Ho molto vissuto, a volte in modo anche pericoloso. Tante vite in una, e non solo questa. Eppure includendo le esperienze dolorose, il mio sguardo non è cambiato da quello di questa bambina. Solo che per lei non esisteva il concetto di “vita”. Per me adulta, invece, questo dono è straordinario, anche se a volte lo dimentico e lo do per scontato. Ecco, mentre scrivo scopro di voler parlare della vita, pensa un po’. Ho capito che vissuta così, tanto per vivere, non è una gran cosa, anzi per certi aspetti è una fatica. Ci sono le bollette da pagare, le riunioni di condominio, le dichiarazioni dei redditi, la macchina che non parte, le liti col marito, la crisi dell’editoria, il razzismo, il pianeta che va a rotoli. Questa è la vita come mi sembra vista da fuori. Ma con un altro occhio è quello straordinario fenomeno per cui, momento dopo momento, posso essere il massimo di me stessa, bellezza, verità, consapevolezza… Solo parole? Affatto. È uno stato di cui tutti possiamo fare esperienza, a me è capitato grazie alla meditazione, e questo è un capitolo vasto che aprirò un’altra volta.

Non pensavo di dire queste parole, nemmeno quelle che seguono, ma un senso ci sarà. A 11 anni un caporedattore ha chiamato mia madre e le ha chiesto l’autorizzazione a pubblicare un mio tema su Amica. Erano venuti nella mia scuola a cercare ispirazione, chiedendo alle insegnanti di farci scrivere qualcosa e poi di consegnare i temi al giornale. Non ricordo niente del tema, solo di mia madre che mi ha detto “Cristiana, vogliono pubblicare il tuo tema…”. Non credo che la parola pubblicare avesse avuto un impatto, nemmeno ricordo di averle risposto. Dell’idea di scrivere, dentro di me, non c’era nemmeno l’ombra. C’era quella di viaggiare, quella sì, un fatto di famiglia. E oggi sono sicura che viaggiare porti a scrivere: basta sedermi sul sedile di un treno, meglio di un aereo, e le immagini partono da sole. È un fatto del cervello e secondo me è collegato anche all’anima. Fatto sta che mi sono ritrovata a viaggiare e a scrivere, a 23 anni, bla bla, quella dell’inizio del giornalismo è un’altra epopea e chi lo sa, magari un giorno la racconterò. Faccio un balzo a oggi, 23 marzo 2019. Scendo in edicola e compro D con La Repubblica. Apro il giornale e sento una commozione molto forte. A pagine 53, c’è un servizio, si chiama Prime visioni. Porta la mia firma ed è dedicato alle donne dell’industria del cinema. Donne con una visione forte, che sicuramente nella vita hanno dovuto attraversare molte cose, per farsi largo (sì, anche fra tanti uomini). Per molti motivi, questo articolo porta aria di primavera. E io mi sento fiera di sostenere una visibilità al femminile. Non per un fatto di sessismo, ma perché so che le donne portano una visione di cui questo pianeta ha tremendamente bisogno. Una visione che ha bisogno di spazio e di essere riconosciuta, specialmente nel mondo occidentale. A quel punto ci saranno più fiducia, più inclusione, più arte e più bellezza. E anche le donne al potere potranno fidarsi del proprio modo. Di essere.

Charlotte Gainsbourg: «La famiglia che mi porto dentro»

18 lunedì Mar 2019

Posted by cristianaallievi in cinema, Moda & cinema, Musica, Personaggi

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Charlotte Gainsbourg, Eric Barbier, giornalismo, Grazia, interviste illuminanti, La promessa dell'Alba, Pierre Niney, Rest, Yvan Attal

DOPO TANTI RUOLI AL LIMITE, ORA L’ATTRICE FRANCESE AL CINEMA È UNA MADRE CHE FA DI TUTTO PER SUO FIGLIO. UNA PARTE, DICE A GRAZIA, CHE L’HA RICONCILIATA CON L’AMORE, GLI ERRORI E GLI ADDII DEI SUOIO GENITORI STAR, IL CANTANTE SERGE E L’ATTRICE JANE BIRKIN

Ho appena visto Charlotte Gainsbourg nel suo prossimo film, La promessa dell’alba di Eric Barbier. Sono certa che sia l’interpretazione  cinematografica migliore della figlia di Serge Gainsbourg e Jane Birkin. Non ci sono scene di sesso, o di morte, e nemmeno atroci  torture, come ci aveva abituati nei film Antichrist e Nymphomaniac del regista Lars Von Trier. Ma nonostante questo, la donna che vedremo sugli schermi dal 14 marzo nei panni di una madre eccessiva e lievemente mitomane mi è sembrata molto più estrema che in passato. Gainsbourg è Nina, madre coriacea, ebreo polacca, che dalla Lituania, fra mille peripezie, porta  il figlio nel sud della Francia per fuggire dalle conseguenze della presa di potere di Hitler in Germania. La storia è tratta dal bestseller autobiografico sulla straordinaria vita di Romain Gary (interpretato da Pierre Niney), uno dei più famosi romanzieri francesi, l’unico ad aver vinto due volte il Goncourt Prize. «Ho girato il film mentre registravo il mio ultimo disco, Rest, non ho mai avuto un parte come questa, in cui presto il volto a una donna fra i 30 e i 60 anni. Avere un altro corpo, un’altra voce, parlare il polacco, sono stati una liberazione per me, ho potuto esplorare un’identità diversa.  Questo film mi ha resa più forte». Libertà è una parola che questa attrice e cantante dalla voce eterea pronuncerà molte volte durante la nostra conversazione. La sensazione è abbia trovato la serenità  e che i tempi in cui si torturava con i personaggi di Lars von Trier siano alle spalle. Così come il lutto che l’ha colpita quando la sorella Kate Barry si è tolta la vita, cinque anni fa: era la persona a cui era più legata in assoluto. Subito dopo si è trasferita a vivere a New York con la famiglia, il regista Yvan Attal e  tre figli Ben, Alice e Joe, 21, 16 e 7 anni. «Non riuscivo più a respirare a Parigi, troppi ricordi dolorosi. Per un po’ di tempo starò via dall’Europa, poi si vedrà».

(Continua…)

Intervista integrale su Grazia del 7 Marzo 2019

© Riproduzione riservata

Reinout Scholten van Aschat: L’arte della quiete

11 lunedì Mar 2019

Posted by cristianaallievi in arte, cinema, Cultura, Moda & cinema, Personaggi

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Capri Revolution, D La repubblica, interviste illuminanti, Jim Taihuttu, Karl Diefenbach, Martone, Reinout Scholten Van Aschat, The east

FRA CALMA E COMPOSTEZZA NATURALE, LO STILE NORDICO DELL’ATTORE E MUSICISTA CHE CI HA INCANTATI CON CAPRI REVOLUTION DI MARTONE. E LO FARA’ DI NUOVO, A BREVE…

L’attore e musicista fiammingo Reinout Scholten Van Aschat fotografato da Philip Riches per D La Repubblica


«Quando mi sono sdraiato su quel materasso, posando per queste foto, mi sono sentito catapultato sul set di Martone». Siamo ad Amsterdam, la luce fuori che filtra dalle grandi finestre è ancora invernale. Nello studio di artista ci sono fogli e colori ovunque, e le risonanze con Capri Revolution, in concorso all’Ultima Mostra di Venezia, sono molte. Lì era il magnifico Seybu, personaggio ispirato al pittore Karl Diefenbach che a Capri creò una comune fra il 1900 e il 1913. Il film spostava i fatti più avanti, però, collocandoli alla vigilia della prima Guerra mondiale. E il suo protagonista allargava l’orizzonte, diventando un artista performativo che inglobava la danza moderna, la natura, la musica e soprattutto l’idea di una radicale rivoluzione umana in cui il rapporto con la natura è di nuovo al centro.  In tutto questo Reinout Scholten van Aschat, «un nome altisonante, ma non sono un nobile», è una specie di Cristo e indossa solo una veste bianca. Ironia vuole che il film che sta per girare sia di natura tutt’altro che pacifista. The East, di Jim Taihuttu, racconta la Guerra d’Indipendenza dell’Indonesia, avvenuta fra il 1945 e il 1949. «Quando i giapponesi furono cacciati, gli indonesiani avrebbero voluto essere indipendenti ma il governo olandese mandò qui molti giovani facendoli combattere per mantenere la sua colonia. Non erano preparati a nessun livello, ma il governo diceva loro “cacciate i terroristi”. Come è accaduto in Afganistan, Iraq e Siria, in realtà i terroristi erano solo uomini che combattevano per la libertà.  I nostri nonni hanno fatto quella guerra ma non ne parlano, è stata un trauma». Da olandese cresciuto in una famiglia di artisti, era il minimo che finisse su quel set, penseresti. «Ma è un caso, non conoscevo il regista né lui sapeva che ho una madre indonesiana, anche se non si direbbe. I geni sono nascosti, forse se avrò dei figli si vedrà in loro».

(continua…)

Intervista integrale su DLui, inserto di La Repubblica, numero di Marzo 2019

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Pedro Almodovar, «A cuore aperto»

08 venerdì Mar 2019

Posted by cristianaallievi in arte, cinema, Cultura, Miti, Moda & cinema

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cinema, Dolor Y Gloria, Dolore e Gloria, GQ Italia, intervista esclusiva, interviste illuminanti, Mina, Pedro Almodovar, stile, uomini

LA FAMIGLIA È AL CENTRO DEL SUO CINEMA. VENT’ANNI FA HA VINTO A CANNES CON TUTTO SU MIA MADRE. ORA PEDRO ALMODÓVAR ESPLORA LA SUA VITA CON DOLORE E GLORIA

Il regista Pedro Almodovar, 70 anni (foto di Nico Bustos per GQ Italia).

Colpo di teatro di Pedro Almodóvar. Che stesse girando il suo ventunesimo film, Dolor y gloria, si sapeva. Un po’ meno invece sulla storia e la data di uscita nelle sale. Ma all’improvviso annuncia che è tutto pron- to, che il 22 marzo gli spagnoli potranno ammirare il suo lavoro, che a maggio sarà in Italia. Storiona di famiglia, molto auto- biografica. Proprio 20 anni dopo (gli stessi che compie quest’anno GQ), quel Tutto su mia madre che gli fece vincere il premio per la miglior regia sulla Croisette.


Perché questo film adesso? In Italia ci fa pensare a 8 1⁄2 di Fellini. Spero che non mi paragoniate a 81⁄2, perché perderei il confronto. Tutti i miei film mi rappresentano, ma di sicuro Dolore e gloria mi rappresenta più profondamente. Non so perché l’ho scelto proprio ora, ho l’impressione di non aver scelto io il tema del film, ma che sia stato il tema del film a scegliere me. Generalmente non sono consapevole del perché giro un certo film o un altro; sono consapevole della necessità di affrontare determinati argomenti in determinati momenti, ma non dei motivi.

Il suo ottavo film con Banderas dà un’immagine diversa di questo attore?

Secondo me sì. Quando ho lavorato con lui negli anni Ottanta, era molto giovane e quel che mi interessava di Antonio Banderas era la sua passionalità, la follia travolgente che dava ai suoi personaggi. Ora Antonio ha sessant’anni, continua a essere un uomo molto affascinante, ma sul suo viso vedo i due o tre interventi al cuore che ha subito negli ultimi anni, la sua esperienza con il dolore. In Dolore e gloria Antonio offre un’interpretazione per me inedita, gesti mi- nimi, emozioni controllate, una solitudine interpretata con grande economia di risorse. Per me è una sorta di nuova nascita per Antonio Banderas, o quanto meno l’inizio di una splendida tappa di maturità.

E Penélope Cruz sarà sua madre?

Penélope Cruz interpreta la madre di Antonio Banderas negli anni Sessanta, quand’è bambino. Penélope fa nuovamente la casalinga di campagna, in un momento in cui la Spagna non è ancora uscita dal dopoguerra. Per questo il suo look e la sua interpretazione sono molto diversi dalla madre che interpretava in Volver – Tornare.

Nel film c’è una canzone di Mina. Perché ha scelto proprio questa?

La scena si svolge all’inizio degli anni Sessanta e Come sinfonia appartiene a quell’epoca ed evoca la luce e la sensualità dell’estate mediterranea. E inoltre Mina è quasi parte della mia famiglia e io volevo che nel film tutto mi risultasse familiare: gli attori, le opere d’arte che si vedono alle pareti, le canzoni e, naturalmente, le emozioni, le emozioni più profonde.

Non ha studiato cinematografia, ma è diventato uno dei registi più famosi del mondo. Come ha fatto emergere il suo stile?

Quando arrivai a Madrid nel 1969, il generale Franco aveva appena chiuso la Scuola di Cinema. Avevo pensato di studiare lì, ma non essendo possibile, acquistai una videocamera Super 8 e nel corso degli anni Settanta girai molti cortometraggi di diverso minutaggio: 5, 10, 30 minuti; e riuscii anche a girare un film. Questa fu la mia unica scuola e si rivelò molto utile. Il Super 8 non è come il video, il Super 8 è cinema, viene girato in negativo. E io presi molto sul serio sia la parte relativa alla scrittura della sceneggiatura, sia la direzione degli attori e quant’altro. Le mie preoccupazioni principali e le tematiche che avrei affrontato anni dopo erano già presenti in questi film. Lo stile, come ogni processo di presa di coscienza, si scopre con il tempo e ci si arriva – almeno nel mio caso – in modo spontaneo, prendendo decisioni di pancia.

Come il regime di Franco influenzò lo stile degli uomini?

Fino al momento in cui il regime non iniziaa indebolirsi, il modo di vestire, i colori, le acconciature dei capelli degli uomini spagnoli dipendevano da convenzioni sociali molto repressive. Chi non si adeguava, rischiava di finire alla polizia solo per il suo aspetto. C’era pochissimo spazio per coltivare personalità e gusti nel vestire. Nonostante sia stato un Paese intrappolato dalla dittatura, la Spagna cominciò a raccogliere influenze dal resto del mondo dopo il 1965, quando ebbe inizio il processo di sviluppo della nazione. Alla fine degli anni Sessanta irruppe lo stile hippy, soprattutto nelle grandi città, con l’influsso di Carnaby Street. Questo cambiò radicalmente il look dei giovani spagnoli, che divenne più colorato e audace. Chi sognava di lavorare in banca indossava un noioso abito con giacca e cravatta (do- minavano i colori grigio, beige e marrone) e coloro che si sentivano liberi dal consumismo e volevano non solo l’amore libero ma il recupero del rapporto con la natura, si vestivano in un modo ritenuto insolito fino ad allora; inoltre arrivano il pop e la psichedelia. La rottura in termini di look maschile è radicale. Tutti i tipi di stampe possibili e accessori per tutto il corpo. Sono stati gli anni del trionfo della bigiotteria e dei colori e dei tessuti sgargianti e luminosi. Negli anni Settanta, delusi dagli hippies, i giovani spagnoli divennero politicizzati, specialmente nelle università.

(…continua)

L’intervista esclusiva per GQ è sul numero di marzo 2019

© Riproduzione riservata

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