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Cristiana Allievi

~ Interviste illuminanti

Cristiana Allievi

Archivi Mensili: dicembre 2021

Cecile De France, «L’illusione del corsetto»

30 giovedì Dic 2021

Posted by cristianaallievi in Attulità, cinema, Cultura, Mostra d'arte cinematografica di Venezia, Personaggi

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Tag

Cecile de France, Cristiana Allievi, donne, emancipazione, Honore Balzac, Illusioni perdute, Vanity Fair, Xavier Giannoli

Stringersi nei panni di una donna dell’Ottocento, soffrire per i lacci sociali, tirare un sospiro di sollievo per i tempi che cambiano: CÉCILE DE FRANCE e la bellezza dell’emancipazione

di CRISTIANA ALLIEVI

Cecile de France, 46 anni, è l’attrice belga più richiesta del cinema.

Mettiamola così: non è un caso che abbia appena finito le riprese di un film in cui vive in Bretagna e fa la pescatrice. I suoi occhi corrono veloci lungo il perimetro delle pareti della stanza in cui ci incontriamo. Dopo un’attenta analisi mi dice che l’orto che coltiva con i suoi figli è grande più o meno uguale: cinquanta metri quadri. E Lino e Joy, avuti con il marito Guillaume Siron, cantante e compositore del gruppo Starbilux, non vogliono più mangiare nemmeno un pomodoro uscito da un supermercato. Poi Cecile de France, 46 anni, passa ai racconti che ti aspetteresti dall’attrice belga più desiderata dal cinema internazionale, anche italiano (vedere alla voce Paolo Sorrentino, che l’ha volute nella serie The young pope). «Arrivavo da un piccolo villaggio, mi sono ritrovata in una scuola statale di Parigi, da sola, e la cosa non mi è piaciuta per niente», ricorda. Poi due frasi riassumono gli anni della sua educazione, «portavo i capelli rosso fuoco» e «facevo la ragazza alla pari per mantenermi». È dotata di una grinta che l’ha sempre spinta ad andare avanti, anche dopo che Clint Eastwood l’ha scelta per il suo Hereafter regalandole una fama di proporzione internazionale. All’ultima Mostra di Venezia è stata la nobile protagonista di Illusioni perdute, di Xavier Giannoli, adattamento di un romanzo di Honoré de Balzac, al cinema dal 30 dicembre in tutta la penisola. «Louise è una nobile che ama e protegge un giovane e promettente scrittore, e all’inizio mi ha molto confusa»,  racconta. «Perché sulle pagine di La Commedia umana, un vero e proprio classico dell’Ottocento era cinica, non aveva né cuore nè anima ed era quindi molto difficile da amare. Ma il regista l’ha trasformata, per il film l’ha resa sentimentale, drammatica, piena di passione e di sensualità. Molto più interessante da interpretare».

Però Louise è molto diversa dalle figure di donne indipendenti e libere a cui ci aveva abituati fino a qui. «È il contrario. Louise dipende da tutti, prima dal marito, poi dal giudice e soprattutto dalle regole sociali che non tollerano che una nobile ami un giovane di origini umili. Ma possiamo comprenderla, rinuncia all’amore solo per motivi di sopravvivere».

Come fa ad azzerare tutto e a pensare con la testa di una donna di duecento anni fa? «Mi lascio portare dall’abito. Il corsetto non fa respirare, infatti le donne dell’epoca non respiravano.  E questo le fa ragionare di conseguenza».

Indossare il corsetto tutti i giorni le ha anche ricordato il percorso di emancipazione fatto fino a oggi? «Penso spesso a chi si è battuta per noi, a quanto dobbiamo ai sacrifici di vere e proprie eroine. Ma non è ancora finita, tutt’ora esistono ancora paesi in cui i padri scelgono i mariti per le loro figlie».

(continua…)

Intervista integrale pubblicata su Vanity Fair del 22 Dicembre 2021

©Riproduzione riservata

Vicky Krieps, «Il mio posto».

10 venerdì Dic 2021

Posted by cristianaallievi in arte, Cannes, cinema, Festival di Cannes, Miti

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Tag

cinema, Il filo nascosto, interviste illuminanti, Mia Hansen-Love, Sull'isola di Bergman, Vanity Fair, Vicky Krieps

PER LE DONNE IL TEMPO DEGLI SFORZI E DELLE GIUSTIFICAZIONI È FINITO: DEVONI PRENDERSI IL LORO SPAZIO PROPRIO COME FANNO GLI UOMINI, DICE VICKY KRIEPS. LEI LO HA FATTO, E ODPO UN PERIODO DI CRISI TORNA AL CINEMA, PASSANDO DALL?ISOLA DI UN GRANDE MAESTRO SVEDESE

di Crisitiana Allievi

L’attrice lussemburghese Vicky Krieps, 38 anni, protagonista di Sull’Isola di Bergman (foto courtesy Mubi).

Tiene le braccia incrociate, mani all’insù e gomiti appoggiati sul ventre, per un lungo lasso di tempo. È una presenza  calma e rassicurante, apaprentemente  in contrasto con quel lato punk che, quando aveva 20 anni, l’ha portata in Africa a fare volontariato per evadere da un puntino sulla carta geografica chiamato Lussemburgo. «È il paese più piccolo che ci si possa immaginare, una specie di fiaba, lì nessuna persona è più importante di un’altra…», dice senza inflessioni nella voce, dando lo stesso peso a ogni parola. Madre tedesca e padre a capo di una casa di distribuzione cinematografica, racconta di essere cresciuta in mezzo ai boschi, parlando con gli alberi. E così ti spieghi perché dopo il clamore suscitato da Il filo nascosto di Paul Thomas Anderson invece di cedere alle lusinghe hollywoodiane sia ritornata in Europa, rinunciando a offerte di lavoro importanti. Le ci sono voluti due anni a riprendersi da quella che definisce un’esperienza traumatizzante: una costante esposizione allo sguardo pubblico e una campagna mediatica per gli Oscar in cui le veniva ripetuto che con la stampa si lasciava andare a troppe opinioni personali.  È fuggita, cercando di ritrovare un po’ di pace. Il 2021 è stato l’anno del grande ritorno, soprattutto per il film della regista francese Mia Hanson-Love, Sull’isola di Bergman, uno dei due titoli che l’hanno vista protagonista all’ultimo Festival di Cannes. Nei cinema italiani dal 7 dicembre,  con Tim Roth come altro protagonista, racconta la storia di una coppia di registi che cerca ispirazione fra le pieghe della propria relazione, in un gioco di realtà e finzione, ma anche di creatività e competizione, sull’isola di Faro, nel Baltico, dove il cineasta svedese a cui si riferisce il titolo ha girato alcuni dei suoi capolavori e ha vissuto l’ultima parte della vita. «Sono legata a Mia da un ricordo importante», dice a proposito della regista. L’ho vista da spettatrice, prima che lei vedesse me. Recitava in Fin aout, debut septembre. Ricordo che alla fine della proiezione dissi ai miei amici cinefili “è la prima volta che rintraccio una direzione, che vedo la messinscena dietro il film”. Fu un’esperienza molto forte, ero ancora una ragazzina».

Poi è cresciuta, e le è arrivata la proposta per questo film. «È stata molto dura per me accettare quella proposta. Uscivo da un successo frastornante e da un momento affatto facile da attraversare».

Ci spiega perchè? «Ero diventata un’attrice che alcune persone conoscevano, e prima non era così. Mi sembrava di non poter tornare a casa, da dove venivo, perché qualcosa era cambiato dentro di me. Il punto è che non mi vedevo a fare le valigie e andare a vivere in California. Ero davvero persa. Quando mi ha cercata Mia avevo appena programmato una vacanza con i miei due figli, e mi sono trovata nel conflitto, fra vita privata e lavoro».

Guarda il caso, la regista le offre la storia di una donna che si emancipa e si prende la libertà di trarre ispirazione creativa da ciò che le piace e la circonda.  In Sull’isola di Bergman il mondo è ancora dominato dagli uomini, e il femminile cerca uno spazio proprio… «Ci augureremmo di non doverne nemmeno parlare in questi termini, ma non possiamo ignorare il tema a cui allude, perché non è superato. Fino a poco tempo fa non c’erano nemmeno registe donne, e anche se la situazione sta cambiando dobbiamo continuare a ricordarcelo».

(continua…)

Intervista integrale pubblicata su Vanity Fair del 15 dicembre 2021

©Riproduzione riservata

Benedict Cumberbatch: «La fragilità del cowboy»

05 domenica Dic 2021

Posted by cristianaallievi in arte, cinema, Cultura, Mostra d'arte cinematografica di Venezia, Netflix, Personaggi

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Tag

Benedict Cumberbatch, bullismo, cowboy, Il potere del cane, interviste illuminanti, Jane Campion, Nuova Zelanda, omosessualità

Ha imparato a cavalcare, suonare il banjo e rollare le sigarette con una sola mano. Per il suo ultimo ilm, BENEDICT CUMBERBATCH si è trasformato in un allevatore del West ruvido e crudele. Ma dall’animo vulnerabile

di CRISTIANA ALLIEVI

L’attore britannico Benedict Cumberbatch, 45 anni, Commendatore dell’Ordine dell’Impero britannico. È il protagonista del film diretto da Jane Campion, Il potere del cane (Netflix).

“Alieno” è la prima parola che mi viene in mente incontrandolo di persona.  Anche l’altezza contribuisce a quel non so che di ultraterreno, insieme agli occhi che sembrano di ghiaccio, in confronto con il colore del mare che è alle sue spalle. Natura e spazi aperti sono tutto per lui, mi racconta con un tono di voce basso e profondo. Benedict Cumberbatch è la prova vivente di dove può portare un grande talento combinato con altrettanta ambizione. In questi giorni sta ricevendo le migliori recensioni della sua carriera grazie a una scommessa della regista di culto Jane Campion, che gli ha chiesto di diventare un uomo alfa, un cowboy crudele e represso, ma anche gay e terribilmente sexy. E lui ci è riuscito, eccome se ci è riuscito. Tanto che si parla già di un Oscar per il suo Phil Burbank in Il potere del cane, nei cinema e dall’1 dicembre su Netflix. La storia è tratta da un libro di  Thomas Savage pubblicato in America nel 1967, quando parlare di omosessualità in Usa era cosa delicata. È una specie di manifesto della mascolinità tossica. «È anche una riflessione sull’isolamento e la paura, sull’essere sulla difensiva e farsi guidare dall’aggressività. Questa storia mostra anche come la gentilezza, la comprensione e la pazienza possano essere vie di gran lunga migliori per vivere in una comunità».

Ho letto che ha frequentato il collegio e che è stato testimone  di bullismo nei confronti di un compagno omosessuale. «Accidenti, non ricordo nemmeno quando l’ho raccontato… Ma è vero, avevo 18 anni, ero all’ultimo anno di liceo. Ho assistito a qualcosa di piuttosto barbaro. È stata una esperienza disastrosa, da tutti i punti di vista».

E lei come l’ha vissuta? «Ero furioso con le persone che perseguitavano questo ragazzo. Percepivo  l’ingiustizia, mi dicevo “lasciatelo in pace, cazzo, lasciategli essere quello che è…”. Ho capito che stavano sbagliando, che l’odio ha una natura tribale e che è alimentato da aspetti culturali. Per agire sui loro comportamenti occorre capire  in quali circostanze hanno vissuto quei ragazzi che odiavano il compagno scoperto con un altro uomo».

A un certo punto del film il suo personaggio dice a un adolescente “imparerai cosa significa essere un uomo”, per lei cosa significa? «Penso si tratti di aderire al proprio sé autentico, e questo implica anche padroneggiare completamente se stessi, in ogni aspetto. Per fortuna viviamo in un’era più tollerante, in cui c’è ancora da lottare ma puoi permetterti di essere chi sei, ed essere accettato per questo».

(continua…)

Intervista integrale pubblica su Vanity Fair dell’8 dicembre 2022

©Riproduzione riservata

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