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Cristiana Allievi

~ Interviste illuminanti

Cristiana Allievi

Archivi della categoria: Mostra d’arte cinematografica di Venezia

Cate Blanchett, «La vita non è la solita sinfonia».

09 giovedì Feb 2023

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BErliner Philarmoniker, Cate Blanchett, Claudio Abbado, interviste illuminanti, Nina Hoss, Noemie Merlant, Todd Fields

di Cristiana Allievi

Todd Field’s TÁR will have its world premiere at the Venice International Film Festival. Cate Blanchett stars as Lydia Tár in director Todd Field’s TÁR, a Focus Features release. Credit: Florian Hoffmeister / Focus Features- Courtesy Universal

Lydia Tar è la direttrice di una delle più grandi orchestre sinfoniche tedesche e sta preparando l’esecuzione  della difficilissima Quinta sinfonia di Mahler.

Comincia così Tar, presentato in Concorso all’ultima Mostra di Venezia e nelle sale dal 9 febbraio, con un’intervista con il (vero) giornalista Adam Gopnik, mentre Lydia è all’apice della sua carriera e sta per presentare la sua autobiografia.

Innovativo a partire dalla sceneggiatura del regista Todd Fields, che ha impiegato anni in questo lavoro al cui centro c’è un’immensa Cate Blanchett nei panni di Lydia Tar, sostenuta da due ottime coprotagoniste: Nina Hoss, sua compagna nel film, e Nomie Merlant, sua assistente personale.  Donne diversamente innamorate di Lydia, intorno a cui si crea un triangolo di alta tensione.

La novità del film è che Blanchett non occupa solo un posto di potere, ma un ruolo tradizionalmente riservato agli uomini: il podio di un’orchestra sinfonica (e non una qualsiasi, alludendo il film ai Berliner Philarmoniker). Vediamo solo tre settimane della sua vita, ma capiamo che vuole ottenere molto, con lo stress psicofisico che comporta arrivare in cima alla vetta.

Lo spiega Blanchett stessa, dentro un abito che ha lo stesso colore azzurro ghiaccio dei suoi occhi. «Lydia è sull’Olimpo, da artista è arrivata. Come essere umano, invece, sa che dopo la vetta c’è solo la discesa, e affrontarla richiede molto coraggio. Sicuramente c’è qualcosa che la tormenta, un passato, una persona, è stato affascinante lavorare su questo aspetto».

Tar è un film sulla trasformazione, su quel  qualcosa che succede e che ci fa vivere cose che non avremmo mai pensato di vedere o di sentire.

«Un aspetto fondamentale in qualsiasi rapporto creativo è la fiducia», continua la due volte premio Oscar Blanchett, che per il ruolo ha studiato la presenza e i gesti di Claudio Abbado, Carlos Kleiber, Emmanuelle Haim. «Credo che Lydia sia stata oggetto di bullismo, la fiducia per lei è un tema difficile, come il perdono. Dalla prima sillaba della sceneggiatura ho capito che era molto complessa. Il  personaggio si evolve e cambia, ma quello che non cambia è che si tratta di una persona che non conosce se stessa. E non è necessario essere la direttrice della più grande orchestra del mondo per sperimentare queste contraddizioni».

Nina Hoss è stata spesso definita “la Cate Blanchett tedesca”. Il regista aveva visto il suo lavoro come violinista in The Audition, di Ina Weisse. «Non vengo dal mondo della musica, ma sono in grado di suonare il pianoforte, e ho studiato violino, questo mi ha aiutata. Abbiamo lavorato con la filarmonica di Dresda, sono stati molto aperti e ci hanno aiutate. È stato un processo di assorbimento molto speciale».

Noemie Merlant è un’attrice e regista molto quotata in Francia, e non solo.

«Non conoscevo questo mondo un po’ folle e molto maschile. È stata un’esperienza forte, essendo tutte donne. Francesca, il mio personaggio, vuole diventare come Lydia, ma per ora fa altro. Quindi rappresento tutti gli aspetti di chi ama la musica senza aver mai toccato uno strumento. Ho cercato di rappresentare lo sguardo di questa donna che è nell’ombra ed è paziente. Non si capisce se sia un’eroina o la cattiva della situazione, perché controlla Lydia. Da attori noi stessi siamo strumenti, io osservavo Cate mentre creava Lydia davanti a me. La guardavo trasformarsi, e allo stesso tempo anche Francesca osservava Lydia, nel film».

Cate Blanchett aveva già interpretato una storia d’amore al femminile, in Carol. Ma oggi il mondo Lgbt è molto più al centro dell’attenzione di allora, soprattutto in Usa. «Prima di Carol non c’erano film di quel tipo. La donna o si uccideva o veniva redenta dall’amore di un uomo. Mentre giravamo era semplicemente qualcosa che era diventato necessario. Passato al pubblico, è diventato esplosivo».

Però secondo Blanchett l’arte  non è uno strumento educativo. «Le persone possono essere ispirate, o offese, questo va al di là del controllo di chi crea un’opera. Come specie umana siamo abbastanza maturi da guardare Tar senza  fare del sesso e del genere l’aspetto più importante. Solo quando abbiamo iniziato a fare le conferenze stampa ci siamo accorte di essere un cast per la quasi totalità femminile. Todd Haynes ci ha detto “di fatto non esiste un’orchestra tedesca guidata da una donna, è un mondo molto patriarcale. Se questo cambiamento succederà, normalizzerà l’arte stessa”. Al momento non avevo riflettuto su questo aspetto».

Ha esperienza diretta delle dinamiche di potere tra maschile e femminile. «Da quando ho iniziato a lavorare io le cose sono cambiate molto. Allora mi dissero “goditi i prossimi cinque anni, poi le cose cambieranno…”. La vita dell’attrice finiva presto. Oggi è importante relazionarci con i nostri fratelli a Hollywood, che possono svolgere insieme a noi un bel lavoro».

Merlant  non crede Tar sia un film femminista. «Piuttosto il suo intento è far nascere domande sulle dinamiche di potere, e su come sia trovarsi in una posizione così alta della propria carriera in cui devi lottare molto di più, in quanto donna. Inoltre vediamo cosa succede nel momento in cui  il sogno diventa realtà, dirigere Mahler, e occorre vedersela con il processo della creazione, che può arrivare a divorarti. Lo trovo un modo di condurre alla riflessione molto arguto».

Nina Hoss allarga ancora di più lo sguardo. «Questa visione di una donna al potere non permette di correre così velocemente a trarre conclusioni, come faresti se fosse un uomo, perché crediamo di sapere già tutto. Qui occorre più tempo per giudicare. Una donna arriva al vertice essendo un’artista favolosa: cosa la rende all’improvviso una persona diversa? Cosa le succede, e cosa succede al mondo che la circonda, che la spinge in una certa direzione?».

La coppia lesbica al centro, inoltre, non è un problema per la società che la circonda. «Questo è davvero un modo nuovo di porre la questione, significa che il mondo è cambiato. Mentre nel mondo che Lydia affronta fuori, c’è ancora molto da fare».

Di solito Nina Hoss ha un ruolo da protagonista. Se si chiede perché abbia accettato un ruolo più marginale risponde: «Qui è diverso, ma ho accettato perché la protagonista era Cate. Il mio personaggio, Sharon, non è solo una donna innocente e gelosa: ama Lydia per il genio che è, e gode anche del potere che una coppia simile ha in quel mondo. Quindi sa come manipolare, sa di essere la roccia per lei e conosce le insicurezze della sua compagna. Ho cercato di rendere queste sottigliezze. Per il resto ho suonato davvero, nel film. Il mio è un lavoro in cui ti senti davvero un’impostora. Trascorrendo settimane in una vera orchestra, come minimo dovevo avere rispetto di quei professionisti, conoscere i pezzi, sapere cosa stavo facendo. Questo percorso ha creato una dinamica molto nuova: abbiamo ricreato  la musica di Mahler, e ci è voluto molto lavoro. Ma credo che lo spettatore se ne accorgerà».

Articolo pubblicato su Panorama del 25 gennaio 2023

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Hong Chau, oceani e Balene

04 sabato Feb 2023

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cinema, D La repubblica, Darren Aronofsky, Hong Chau, interviste illuminanti, The Whale

Dal Vietnam ad Hollywood, la protagonista di The Whale punta all’Oscar con un film molto drammatico. Poi sarà la volta di Wes Anderson e Ralph Fiennes

di Cristiana Allievi

L’attrice vietnamita naturalizzata statunitense Hong Chau, classe 1979. Candidata agli Oscar per The whale, di Darren Aronifsky,

Ha un volto che resta impresso nella mente. Ma soprattutto, Hong Chau ha una vita degna di un romanzo picaresco. I suoi sono scappati dalla guerra in Vietnam nel 1979, la madre era incinta di lei e il fratello aveva cinque anni. La notte della fuga suo padre è stato ferito e ha sanguinato per tre giorni, non bastasse, durante il viaggio in mare sono stati derubati due volte dai pirati, prima di essere portati in salvo in Tailandia da una barca di pescatori giapponesi. Poco dopo, è nata lei in un campo profughi. Non stupisce che qualsiasi cosa faccia lasci il segno. È successo in Downsizing, Vivere alla grande di Alexander Payne (ma aveva già lavorato con Paul Thomas Anderson in Vizio di forma e nella serie tv Big Little Lies), e si ripeterà dal 23 febbraio con The whale di Darren Aronofski (I Wonder Pictures), con un ruolo per cui è stata nominata ai Bafta. Nella storia tratta  dall’opera teatrale di Samuel D. Hunter, è Liz, la storica amica di Charlie,  “la balena” a cui si riferisce il titolo. Brendan Fraser interpreta l’uomo in grande sovrappeso, un solitario insegnante di inglese la cui vita è andata completamente fuori rotta. Lo assiste in tutto, incluso il tentativo di riavvicinarsi alla figlia adolescente, diventata quasi un’estranea.

Una manciata di film significativi, ed è già da Aronofsky: ha un segreto? «Il mio agente mi ha detto che era interessato a me per il film. Ho pensato che non ce l’avrei mai fatta, e il personaggio non era nemmeno scritto per un’asiatica».

È scappata? «Avevo partorito da otto settimane e mia figlia non dormiva mai. Ero stanca, ho chiesto il favore di non farmi nemmeno provare (ride, ndr)».

E invece… «“Sei sicura che non te ne pentirai? È Aronofsky” è stata la frase con cui mio marito mi ha spinta a leggere la sceneggiatura. Ho girato alcune scene e le ho spedite a Darren».

(continua…)

Intervista integrale pubblicata su D la Repubblica del 4 Febbraio 2023

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Colin Farrell, l’Oscar del cuore

03 venerdì Feb 2023

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actors, attori, Brendan Gleeson, Colin Farrell, F magazine, GLi spiriti dell'Isola, Hollywood, interviste illuminanti, Martin McDonagh, men, red carpets, style, uomini

È A UN PASSO DALLA SUA PRIMA STATUETTA, MA A 46 ANNI INSEGUE ANCORA L’OBIETTIVO PIU’ IMPORTANTE PER LUI: «ESPRIMERE CON ONESTA’ E AMORE I MIEI BISOGNI, NELLE RELAZIONI SENTIMENTALI, CON GLI AMICI, CON I MIEI FIGLI». PER FARE PRATICA INTERPRETA UN EREMITA A CUI È RIMASTO SOLO UN ASINO

di Cristiana Allievi

Intervista all'attore Colin Farrell che racconta la sua vita, i suoi figli e la sua esperienza nel film Gli spiriti dell'isola.
L’attore irlandese Colin Farrell, 46 anni, vicino all’Oscar per la sua interpretazione in
Gli spiriti dell’isola (courtesy F Magazine).

Da una parte concede pochissime interviste. Lo fa per non rileggere ogni volta un passato che si è impegnato molto a lasciarsi alle spalle. D’altro canto però, l’uomo che ha flirtato per vent’anni con i guai (alcol e droghe, paparazzi e video hard finiti in rete), quando parla è un torrente impetuoso, pieno di mulinelli, gorghi e vortici. Colin Farrell è un uomo ricco di vita e di cose belle da condividere, e il giorno della nostra intervista è vestito con colori chiari, ha i capelli corti ed è di ottimo umore.
L’uomo che è stato così paparazzato da decidere di indossare una maglietta con la scritta “Leave Colin Alone” – un successo tale da diventare una linea di abbigliamento  – oggi è arrivato a una verità importante, che lo rende anche più maturo: «la solitudine è sempre più essenziale per me, e l’ho scoperto grazie alla pandemia». Proprio nella solitudine di Inishmore Island, la più grande isola dell’arcipelago irlandese delle Aran, ha girato il film che gli è già valso la Coppa Volpi a Venezia e un Golden Globe, e con molta probabilità a marzo lo porterà a vincere il suo primo Oscar.  Gli spiriti dell’Isola racconta la vita  in un luogo in cui non c’è molto, a parte tanta erba verdissima, un pub e una comunità chiusa e bigotta. In questo scenario Padraic (Farrell) è un uomo che si prende cura da anni del suo asino, e Colm (Brendan Gleeson) è l’amico di una vita che all’improvviso non vuole più né vederlo né parlare con lui.

«Non ti voglio più bene», «Non sono più tuo amico» sono frasi che feriscono profondamente. Cosa pensa di una comunicazione così diretta?


Credo che le persone usino un linguaggio “brutalmente onesto” per giustificare il loro essere crudeli e meschini. D’altro canto trovo ci sia anche una bassezza nel non comunicare la verità di quello che sentiamo.
In questo cammino verso la comunicazione dei propri sentimenti, lei a che punto è?
Anche se ho 46 anni, sto ancora imparando a esprimere i miei pensieri e i miei bisogni, e vale per le amicizie, le relazioni sentimentali e quelle con i miei due figli. Voglio essere onesto ed esprimermi con amore, ma questo non rende le cose più facili, al contrario.


La cosa più importante che ha capito delle relazioni umane?


Troppo spesso ci dimentichiamo che la responsabilità di un rapporto ricade al 50 per cento su di noi: se manchiamo questo concetto, perdiamo il punto.


Tagliare fuori una persona, o una situazione, o cercare di trasformarla dall’interno: quale via sceglierebbe?


Non sono un grande fan degli opposti,  del “giusto” e “sbagliato”. Siamo tutti d’accordo sul fatto che non sia indicato fare coscientemente del male a qualcuno e godere del dolore causato. Ma credo anche che a volte, se faccio davvero la scelta migliore per me non è detto che questa sia in sintonia con quello che le persone della mia vita  vorrebbero. ¶


Un equilibrio delicato.

(continua…)

Intervista integrale pubblicata su F Magazine del 7/2/2023

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Timothée Chalamet, Fame d’amore

23 mercoledì Nov 2022

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Bones and All, Call me by your name, Cristiana Allievi, Don't look up, interviste illuminanti, Luca Guadagnino, thimothèe Chalamet

CHE SIA IL GIOVANE DIVO PIU’ TALENTUOSO (E GLAM) DI HOLLYWOOD, NON SI DISCUTE. CHE SI METTA ALL A PROVA DI CONTINUO, NEMMENO. OGGI LO FA NELL’ATTESO BONES AND ALL, DI LUCA GUADAGNINO, DOVE È UN VAGABONDO ALLA RICERCA DEL PROPRIO POSTO NEL MONDO. TRA ROMANTICISMO E HORROR

di Cristiana Allievi

L'attore e produttore Thimothée Chalamet, protagonista di Bones and All di Luca Guadagnino.

Pensando a lui, ci sono almeno due momenti difficili da dimenticare.  Il primo è il pianto della scena finale di Chiamami col tuo nome, il film del 2017 di Luca Guadagnino in cui interpretava Elio, adolescente che si innamora di uno studente universitario americano ospite del padre, e quel ruolo insieme delicato e tormentato gli è valso la prima nomination agli Oscar, a soli 22 anni. Il secondo è  il debutto alla mostra del cinema di Venezia: era il 2019, lui presentava The king, storia in costume del giovane Enrico V d’Inghilterra, e sul red carpet è arrivato con un completo grigio perla con fascia in vita di Haider Ackermann. Paradossalmente due momenti in cui ha segnato un nuovo modello di mascolinità, al passo con questi tempi fluidi.  Oggi Timothée, a 26 anni, ha il curriculum di un divo consumato, forse anche grazie all’aiuto di Leonardo DiCaprio che nell 2018, in una specie di consegna del testimone si era raccomandato:  “niente droghe e niente film di supereroi”. Lui ha avuto l’intelligenza di seguirlo, alternando film d’arte come Lady Bird e The French Dispatch, a titoli sbanca botteghino come Don’t look up e Dune, (di cui sta girando la seconda parte a Budapest). Oggi è il più desiderato, a Hollywood e dalle case di moda, senza mai aver fatto una campagna pubblicitaria: basta che indossi un capo scintillante (vedi anche l’ultimo red carpet di Venezia, con la blusa rosso fuoco sempre di Ackermann e la schiena completamente nuda), e sui social si scatena una febbre da rockstar.  Padre giornalista francese, madre americana, ha per mentore Luca Guadagnino, che lo ha diretto di nuovo in Bones and all, in Concorso al Lido e nelle sale dal 23 novembre,  di cui Chalamet è anche produttore. «Ha portato molte idee sul suo personaggio», ha dichiarato Guadagnino, «dimostrando di essere diventato un uomo».

Ha solo 26 anni ma… ricorda qual era il suo sogno di adolescente? «Lavoravo alla serie tv Homeland: caccia alla spia, e iniziavo a muovere i primi passi in teatro a New York. Il mio obiettivo era molto realistico, riuscire a mantenermi con la recitazione facendo qualche serie tv…».

Invece due anni dopo era  sul set di Interstellar, con McCounaughey. «Matthew mi ha colpito per la sicurezza di sé che trasudava sul set. Posso dire lo stesso di Christian Bale, che ho incontrato per anni dopo in Hostiles: ostili. Quando mi ha chiesto di ripetergli il mio nome, per memorizzarlo, non sono riuscito a rispondergli. Ero paralizzato, non mi usciva la voce».

Ora però Luca Guadagnino dice che lei è diventato un uomo.  «Girare di nuovo con lui una storia d’amore come Bones and All è stato un regalo. È ambientato nel 1980 in un’America ai margini. Ho cercato di immaginare cosa significasse essere lì senza telefoni, senza Google, ed entrare in quello che possono aver attraversato  Lee  e Maren (Taylor Russell, ndr). La loro è una storia di solitudine che ti fa andare fuori di testa e che assomiglia molto a quella che abbiamo vissuto nel lockdown, quando senza connessioni  sociali si è allentata la nostra comprensione di chi siamo nel mondo».

(continua…)

Intervista integrale pubblicata su Donna Moderna del 17 Novembre 2022

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Virginie Efira «Elogio della matrigna»

27 martedì Set 2022

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Benedetta, cinema, Donna Moderna, Elle, figli, I figli degli altri, interviste illuminanti, madri, Paul Verhoeven, Rebecca Zlotowski, Virginie Efira

CRESCERE LA BAMBINA CHE IL TUO COMPAGNO HA AVUTO CON LA EX. LO FA LA PROTAGONISTA DI I FIGLI DEGLI ALTRI, DI REBECCA ZLOTOWSKI. E LO HA FATTO ANCHE L’ATTRICE FRANCESE, «ESISTONO TANTI MODI DI ESSERE MADRE»

dI Cristiana Allievi

L’attrice Virginie Efira, 45 anni, alla Mostra di Venezia con il film I figli degli altri.

Ha un’aria complice, nel suo micro abito in velluto nero dalla scollatura profonda. Quando si siede davanti a me non posso fare a meno di notare gli slip in tinta che sbucano mentre accavalla le gambe. E di ricordare la celebre scena di Sharon Stone in Basic Instinct (in cui, però,  gli slip non li indossava). Con quel film il regista Paul Verhoeven trent’anni rese l’attrice americana un’icona sexy. E siccome il caso non esiste, è stato lo stesso Verhoeven a trasformare Efira da mattatrice della televisione belga in una delle attrici piu’ quotate d’Oltralpe. In Elle era la moglie dell’uomo che veniva sessualmente soddisfatto dalla Huppert (premio Cesar e miglior film straniero ai Golden Globes del 2017). Poi, con Benedetta, nel 2021, ci ha fatto conoscere le fantasie erotiche della Carlini, suora italiana lesbica vissuta nel diciassettesimo secolo e accusata di blasfemia. Ora Virginie Efira cambia completamente registro. In I figli degli altri, di Rebecca Zlotowski, in Concorso all’ultima Mostra di  Venezia, è una quarantenne che suona la chitarra, insegna al liceo, è bella e in ottimi rapporti con il suo ex. Quando pero’ si innamora di Ali (Roschdy Zem), vorrebbe diventare madre e non ci riesce, e si lega visceralmente a Leila, la bambina di 4 anni che lui ha avuto con la ex  (Chiara Mastroianni). 

Come definirebbe la Rachel che interpreta nel film? «È un misto fra me, la regista Rebecca Slotowski e il personaggio della sceneggiatura. Mi fa venire in mente una frase di Flaubert, “ogni cosa, se osservata per abbastanza tempo, diventa interessante”.  Ed è cosi che accade con Rachel,  la amiamo sempre piu’ mentre la vediamo attraverso molti prismi, nonostante sia una donna tutto sommato semplice.

Recitare con una bambina di  quattro anni è difficile? «Ho fatto molti film accanto ai bambini, fino a oggi. Puo’ succedere che siano capaci di memorizzare le frasi e di restituirtele senza problemi, oppure non sanno le battute, e puoi indirizzarli in modo spontaneo nel dialogo. Nel caso della bambina del film io e Rebecca le parlavamo come se fosse una vera attrice. È  speciale, non aveva i genitori alle spalle a spingerla, voleva davvero fare quello che ha fatto».

Quando si separa dal padre di Leila, spiega alla bambina che non farete più le vacanze insieme e non vi vedrete più cosi spesso. Quando finiscono le riprese è facile separarsi da un’attrice bambina?  «Non puoi staccarti troppo brutalmente, come invece puoi permetterti di fare con un adulto. Sul set i piccoli a volte mi chiamano “mamma” e io rispondo “no, non sono tua madre, anche se sono qui con te…”. Pochi giorni fa una piccola mi ha detto “ci vediamo ancora, vero?”, le ho risposto “certo, mandami le tue foto…”. Poi non è che andiamo a prendere il gelato tutti i sabati, lei ha sua madre… Comunque dovrebbe vedere il mio cellulare, e’ pieno di messaggi  di bambini non miei, e non solo di quelli conosciuti sui set».

Mi sta dicendo che e’  stata matrigna anche nella vita vera? «Molte volte. Ho 45 anni, chissà perché a 23 anni mi sono sposata con un uomo che ha tre figli (Patrick Ridremont, ndr). Ricorderò sempre la madre, per lei non è stato facile ma mi ha aiutata ad avere una buona relazione con le sue bambine, che non hanno mai fatto fatica a prendermi per mano, anche davanti a lei. Adesso sono madre, ma prima ho sempre avuto relazioni con uomini che avevano  figli, evidentemente mi piaceva».

Le ex sono mai tornate indietro per riconquistare il compagno, come vediamo nel film? «Beh, conosco anche questa esperienza, con quel senso di sentirsi escluse che ne segue. Ma vede, io so anche quanto sia forte il legame, quanto sia delicata la posizione in cui ti metti scegliendo un uomo che ha gia’ avuto figli con un’altra donna. In qualche modo metti già in conto il fatto che se deludi qualcuno è naturale, perché dietro di te c’è sempre una “grande donna” che ti ha preceduta, e tu non sei la madre dei suoi figli. Questo solletica un certo senso di solitudine, infatti quando ho letto la sceneggiatura sono scoppiata a piangere».

(continua…)

Intervista integrale pubblicata su Donna Moderna del 22 settembre 2022

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Christoph Waltz, «Ci vuole resistenza»

22 giovedì Set 2022

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Bastardi senza gloria, Christoph Waltz, DEad for a dollar, Django Unchained, Inglorious Basterds, interviste illuminanti, Quentin Tarantino, successo, uomini, Vanity Fair

PER AVERE SUCCESSO LA PASSIONE NON BASTA. LUI LO DIMOSTRA DAI TEMPI IN CUI, CON TARANTINO, HA CONQUISTATO HOLLYWOOD E DUE OSCAR COME ATTORE NON PROTAGONISTA. ORA PERO’ HAIL RUOLO PRINCIPALE NEL NUOVO DEAD FOR A DOLLAR, E CI PARLA DI CONFINI E DELL’IMPORTANZA DI CERTE SINFONIE

L’attore e regista austriaco Christoph Waltz, due volte premio Oscar (courtesy Ausbury Movies)

di Cristiana Allievi

Con Hans Landa, il colonnello delle SS terrificante e colto di Bastardi senza gloria, e con il cacciatore di taglie King Schultz in Django Unchained, è passato quasi all’improvviso dall’oscurità all’eroismo, vincendo due Oscar. «I cattivi mi vengono bene per il mio aspetto e la mia fisionomia, a cui può aggiungere anche l’età e l’aura che emano», dice Christoph Waltz dopo aver chiesto l’autorizzazione a togliersi la giacca per restare in camicia azzurra, più consona al clima della laguna. La figura è sottile, quasi delicata. Tutta la sua forza emerge dagli occhi grigio chiaro, da cui non si sfugge tanto facilmente.

Nato a Vienna 65 anni fa da due scenografi tedeschi, ha avuto come nonno materno il noto psicologo Rudolf von Urban, che sembra avergli lasciato in eredità una visione chiara dell’ego e delle sue dinamiche: in un’epoca che spinge tutti a parlare di sé, lui non lo ha fatto nemmeno ai discorsi di ringraziamento per gli Oscar, preferendo citare solo le persone più importanti a cui deve il successo.

Ora Christoph Waltz ha una sfilza di film in uscita degna di un trentenne all’apice della carriera, e all’ultima Mostra di Venezia, dove l’abbiamo incontrato, è stato il magnifico protagonista di Dead for a Dollar, il nuovo western di Walter Hill prossimamente nelle sale.

È una storia di confini geografici e morali ambientata nel 1897 in cui interpreta Max Borlund, un cacciatore di taglie pagato da un ricco uomo d’affari per ritrovargli la moglie (Rachel Brosnahan), secondo lui rapita e portata in Messico da un disertore (Brandon Scott). Ma le cose non stanno così, e quando Max lo capisce, comincia a seguire la sua etica.

In tutti i film sul vecchio West, quando qualcuno non piace, finisce male, con una pallottola in corpo.
«C’era la legge, ma non veniva seguita in modo diligente perché mancavano le forze dell’ordine. La domanda che mi faccio ogni volta però è un’altra».

Quale?
«Come mai se passi un confine, che è una demarcazione arbitraria, le cose sono così diverse? Prendiamo il caso della sparatoria di massa accaduta lo scorso maggio a Buffalo. Il confine canadese è molto vicino, puoi quasi arrivarci a piedi. Perché, una volta che lo hai attraversato, non hai più questi fenomeni di violenza di massa, problemi con le armi e con il controllo delle armi? Intendo dire, hai solo i problemi normali, perché i pazzi sono ovunque».

Che risposta si è dato?
«Credo che la differenza stia nelle forze dell’ordine. L’America è un interessante fallimento di liberazione, si sono rivoltati contro il re, ma poi in un certo senso non hanno avuto un piano su cosa fare della situazione».

In Canada, in compenso, hanno sempre avuto la regina Elisabetta II, mancata pochi giorni fa.
«C’erano anche le montagne e la “polizia” locale ha anticipato l’espansione verso Ovest, elementi che hanno fatto una grande differenza. Tornando alla domanda, è un mito dei film farci credere che se non ti piaceva qualcuno potevi tranquillamente sparargli. Eri comunque un criminale, un assassino, e se eri fortunato venivi processato, altrimenti ti linciavano».

(continua…)

Intervista integrale pubblicata su Vanity Fair del 28 settembre 2022

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Samantha Morton, «Ho vinto io»

13 martedì Set 2022

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Caterina de Medici, Cristiana Allievi, Harvey Weinstein, interviste illuminanti, Minority Report, samantha Morton, She said, The New York Times, The serpent Queen, The Whale, Vanity Fair

UN’INFANZIA DRAMMATICA DI TRAUMI E ABBANDONO. LA CARRIERA CONQUISTATA LOTTANDO PER OGNI SPAZIO. HOLLYWOOD CHE LA CHIUDEVA FUORI. SAMANTHA MORTON HA LAVORATO DURO, E CE L’HA FATTA. OGGI SI È MESSA NEI PANNI DI UNA REGINA CHE LE SOMIGLIA MOLTO

di Cristiana Allievi

Quanti dolori può contenere una persona dentro di sé? E dove trova la misteriosa forza che la fa continuare a vivere, addirittura a diventare genitore? «Io ho molta fede, e la fede guarisce anche le ferite più profonde». In un rovente pomeriggio di agosto la risposta mi arriva forte e chiara da Samantha Morton,  mentre il giardiniere alle sue spalle inizia a tagliare l’erba. Per un verso una delle attrici e registe più significative del panorama indie contemporaneo, per un altro una sopravvissuta. Il perché è evidente. I suoi genitori si dividono fra abusi d’alcol e violenze varie quando lei ha solo tre anni.  Poco dopo, a causa dell’incuranza di entrambe, inizia il suo peregrinare tra affidi e orfanotrofi. E proprio nelle case in cui avrebbe dovuto trovare protezione, a 13 anni subisce abusi sessuali da parte di due responsabili. La disperazione, però, è una forza potente, e Samantha la usa per passare il test di ammissione alla Central Junior Television Workshop, organizzazione che forma i giovani per entrare nel mondo del teatro, della radio e del cinema.  Da lì cammina tanto da arrivare a lavorare con i migliori registi su piazza, come Steven Spielberg e Jim Sheridan, Woody Allen e David Cronenberg. Madre di tre figli avuti da due compagni diversi, è la donna perfetta per raccontare storie forti, come quelle in cui la vedremo nei prossimi giorni in anteprima mondiale alla Mostra del cinema di Venezia. The whale, il nuovo lavoro di Darren Aronofski, e She Said, di Maria Schrader, in cui veste i panni di Zelda Perkins, l’ex assistente di Harvey Weinstein. Prodotto da Brad Pitt, il film ha lo stesso titolo del libro delle due giornaliste del New York Times che hanno ricostruito e pubblicato la storia degli abusi sessuali del produttore cinematografico. Poi, dall’11 settembre, sarà nientemeno che la regina di Francia Caterina de Medici nella serie drammatica The serpent Queen (su STARZPLAY). «È riuscita ad avere un’enorme influenza politica per ben cinquant’anni», racconta a proposito della consorte di Enrico II, «e stiamo parlando del Seicento, un’epoca in cui le donne venivano bruciate come streghe, quando erano solo delle ostetriche».

Fino all’Ottocento l’italianissima Caterina è stata descritta come fredda, gelosa, vendicativa e avida di potere: lei che idea se n’è fatta? «Per me è una donna spirituale, una salvatrice che previene grandi disastri del tempo. Caterina vedeva molto lontano, è riuscita a quietare i conflitti fra cattolici e protestanti perchè aveva un modernissimo modo di permettere alle persone di seguire la propria fede. Chissà come sarebbe andata la storia se al potere non ci fosse stata lei».

Nella prima stagione scopriamo eventi della giovinezza e il percorso per arrivare a corte, poi cosa vedremo? «Da lì in avanti la storia si muoverà nella sua dimensione machiavellica. Si scoprirà come ha imparato a stare al gioco e a sopravvivere in famiglia, nel convento e infine a corte».

“Sopravvivenza” è una parola che le risuona? «Le racconto una storia. Molti anni fa ho chiesto al mio agente se potevo fare audizioni per i drammi in costume, ricordo che una regista donna in particolare mi rispose “non hai il sangue giusto, non sei l’animale giusto…”. Sono una persona comune,  vengo dalla classe operaria dal nord dell’Inghilterra e non da una buona famiglia».

(continua…)

Intervista integrale pubblicata su Vanity Fair del 14 settembre 2022

@Riproduzione riservata

Penelope Cruz: «Io, figlia di due madri»

26 martedì Apr 2022

Posted by cristianaallievi in arte, Attulità, cinema, Mostra d'arte cinematografica di Venezia

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Antonio Banderas, artisti, cinema, competizione, ego, Finale a sorpresa, interviste illuminanti, Lucky Red, Official competition, Oscar Martinez, Penelope Cruz, storie

UNA È QUELLA BIOLOGICA: “ERO PICCOLA QUANDO MI HA DETTO “NON MONTARTI LA TESTA”. L’ALTRA È TERESA DI CALCUTTA: «ERO UNA RAGAZZA QUANDO MI HA DETTO “AIUTA SEMPRE”»: E LEI LO FA, PER ESEMPIO, IMPEGNANDOSI PER LA SALVEZZA DEL PIANETA. «AI MIEI BAMBINI INSEGNO A RISPARMIARE ACQUA E A RICICLARE, FACCIO QUELLO CHE POSSO, NEL MIO PICCOLO». È NON SOLO NEL SUO PICCOLO: CHIEDERE A QUEL FEMMINISTA DEL MARITO, JAVIER BARDEM

di Cristiana Allievi

L’attrice, regista e produttrice Penelope Cruz, intervistata per la storia di copertina del settimanale F.

«Madre Teresa mi ha cambiato la vita il giorno in cui ha appoggiato la sua fronte sulla mia e mi ha detto “Aiuta sempre, in ogni momento, con qualsiasi cosa, anche piccola…”». Aveva poco più di 20 anni non era la diva di oggi, era un’attrice di Madrid agli esordi con una manciata di film nel curriculum e un’energia fuori dal comune. Quella stessa energia che l’avrebbe portata a conquistare Hollywood nonostante non parlasse una parola d’inglese, quando è arrivata con la sua valigia a Los Angeles, a metà degli anni Novanta. In India era andata per aiutare la santa di Calcutta a curare i lebbrosi, e forse per curare la propria anima. È tornata con il cuore gonfio d’amore e con la granitica certezza che ogni essere umano ha il potere di migliorare il mondo.

(continua…)

Oltre a due figli – e al destino di essere gli unici attori spagnoli ad aver vinto un Oscar fin qui – con il marito Javier Bardem condivide la stessa onda. Per lasciare ai loro figli un pianeta migliore, lui ha infranto una regola ferrea aprendo un profilo IG solo per sostenere Greenpeace e il progetto di una riserva che protegga le acque dell’Antartico dalla pesca selvaggia.

Ben diversi da loro sono gli attori che Penelope dirige nei panni di regista nel prossimo film, Finale a sorpresa – Official competition. Il film degli argentini Gaston Duprat e Mariano Cohn, nelle sale dal 21 aprile, è stato in Competizione all’ultima Mostra di Venezia e vede la Cruz nel ruolo di Lola Cuevas, un’affermata regista ingaggiata da un milionario megalomane per girare un film che lasci un segno nella storia. Lola sceglie due vere star, l’hollywoodiano sciupafemmine Felix Rivero (Antonio Banderas) e il maestro del cinema e del teatro impegnato Ivan Torres (Oscar Martinez). Figure diametralmente opposte che sottopone a prove che sfidano il loro ego smisurato.

Da cosa ha preso ispirazione per diventare Lola? «Ho fatto un collage di persone diverse, naturalmente non farò i nomi (ride, ndr). Dico solo che oggi un regista non potrebbe comportarsi come si comporta lei, non potrebbe esercitare un simile potere sui suoi attori».

Da artista, come ha imparato a gestire il suo ego? «Ci hanno sempre pensato le conversazioni con mia madre a sistemarlo.  Mio padre non c’è più, ma ho chiari ricordi di quando a un certo punto della mia vita il mio ego è andato fuori controllo, non ero ancora un’attrice. Mia madre mi ha detto parole molto sagge, mi ha sempre tenuta radicata a cose sane e insegnato a dare valore a ciò che ho. Quando mi sveglio, ogni giorno, e mi impegno nel lavoro che amo, non lo do affatto per scontato. Sono grata a mia madre anche per questo».

(continua….)

Intervista pubblicata su F del 26 Aprile 2022

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Maggie Gyllenhaal, Pianeta Madre

18 venerdì Mar 2022

Posted by cristianaallievi in arte, Attulità, Mostra d'arte cinematografica di Venezia, Personaggi

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Bim distribuzone, Cristiana Allievi, Elena FErrante, figli, interviste illuminanti, La figlia oscura, madri, Maggie Gyllenhaal, maternità, Vanity Fair

di Cristiana Allievi

L’attrice e regista Maggie Gyllenhaal su Vanity Fair.

Fa parte di una famiglia reale hollywoodiana, Maggie Gyllenhaal. Un vero e proprio clan di spiriti liberi che ha come capostipiti il padre Stephen, discendente di una famiglia aristocratica svedese, e la madre Naomi Foner, proveniente da una ricca famiglia ebrea newyorkese. Negli anni Settanta si sono trasferiti a Hollywood e sono diventati un riferimento, il pr9mo come come regista la seconda come sceneggiatrice. I loro due gemelli, Jake e Maggie, sono fra i più stimati attori in circolazione. Il marito di Maggie è l’attore statunitense Peter Sarsgaard, ed Emma Thompson e Jamie Lee Curtis sono amiche di famiglia. Rispetto al passato, Maggie è più rilassata davanti a una giornalista. Naviga fra i meandri sottili della psiche con una certa dimestichezza, mentre la conversazione prende una piega non casuale. Mi racconta come i bambini sviluppino una visione ambivalente della propria madre. Da una parte c’è quella buona, che nutre, consola e si prende cura, dall’altra c’è la versione “cattiva”, che non risponde quando la si chiama, è frustrata e vive in un suo mondo. In poche frasi, ecco spiegata l’attrazione per la Leda del suo primo film da regista, La figlia Oscura, adattamento del romanzo di Elena Ferrante al cinema dal 7 aprile. Ha già vinto una sfilza di premi, a partire da quello per la miglior sceneggiatura alla Mostra di Venezia, e con grande probabilità si aggiudicherà l’Oscar per lo stesso motivo. «Leda non è nè una madre mostruosa né una santa, è una figura ambivalente», racconta descrivendo la protagonista, una professoressa di  letteratura italiana a Cambridge che si trova in vacanza in Grecia da sola. Osservando una giovane mamma (Dakota Johnson) con la figlia in spiaggia, inizia il suo viaggio fra i ricordi che la farà confrontare con le angosce e la confusione degli inizi della sua stessa maternità.

Cosa l’ha colpita del libro di Elena Ferrante? «A essere sincera non è stato solo La figlia oscura a colpirmi, ma tutto quello che Ferrante ha scritto. Dalle sue parole emerge un’esperienza, una domanda su cosa significhi essere una donna nel mondo, una madre che è allo stesso tempo un essere sessuale, emotivo e intellettuale. Si esprime con parole senza precedenti, disturbanti e allo stesso tempo confortanti, perché leggendole capisci che qualcun altro ha vissuto l’ansia e il terrore che hai vissuto tu».

In un certo senso, Ferrante ci dice che tutto quello che le donne desiderano a livello sessuale, professionale ed esistenziale è molto più di quanto non sia stato permesso loro anche solo di sperare. «È esattamente quello che penso, e il mio modo di mostrarlo è stato incollare la macchina da presa ai corpi di Olivia Colman e Dakota Johnson».

(continua…)

Intervista integrale pubblicata su Vanity Fair n. 12, 23 marzo 2022

©Riproduzione riservata

Astrid Casali, «La mia vita nell’aria».

11 martedì Gen 2022

Posted by cristianaallievi in arte, cinema, Cultura, Mostra d'arte cinematografica di Venezia

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America Latina, Astrid Casali, Cinema Italiano, Elio Germano, famiglia, interviste illuminanti, Latina

Da bambina recitava con il padre regista, e sognava un futuro da attrice. Astrid Casali ha realizzato il suo desiderio ma deve fare i conti con il caos che ogni tanto torna a farle visita. E che lei combatte a colpi di boxe.

di Cristiana Allievi

Astrid Casali, 29 anni, attrice.

Si materializza come dal nulla nel lounge bar all’ultimo piano di un hotel di Milano con vista Stazione Centrale. Si scusa per essere arrivata con quindici minuti di anticipo al nostro appuntamento, ma lo fa con accento romano. «Lo dice anche la mia maestra di canto, è colpa delle mie frequentazioni in centro Italia», racconta con occhi verdi tranquilli. 29 anni, milanese ma nata a Ponte dell’Olio, provincia di Piacenza, Astrid Casali è la protagonista femminile del film America Latina, dei fratelli D’Innocenzo, in Concorso all’ultima Mostra di Venezia e nelle sale dal 13 gennaio. Il bello di incontrare un “volto nuovo” come lei è scoprire in diretta certi legami importanti. Per esempio un filamento del dna che la collega a Renzo Casali, l’attore e regista che nel 1969, insieme alla moglie fondò una rivoluzionaria  compagnia teatrale a Buenos Aires, la Comuna Baires.  In tournée in tutto il mondo, arrivarono in Italia dopo l’esilio dall’Argentina. «Eh sì, quello era mio padre…», commenta con un pizzico di orgoglio quando nomino l’artista che portò  il metodo Stanislavskij in Italia. «La storia di mio padre è lunghissima, ne conosco solo lo 0,5 per cento. È stato ispiratore di una compagnia che era anche una comune, purtroppo nel 2010 ci ha lasciati».

E come si cresce, con un padre simile? «Ho frequentato il liceo classico Berchet, ma all’ultimo anno me ne sono andata».

Dove? «Al Tito Livio».

Il motivo? «Quello superficiale è che mi ero lasciata con il mio fidanzato di allora, che era in classe con me. Ma la verità è che il Berchet era troppo duro».

E come è andata al Livio? «In tre settimane sono diventata una bulla.  Ho sviluppato una doppia natura, un’alternativa a quella molto seria e “berchettiana”».

Cosa faceva, da bulla? «Appena arrivata ero disorientata. Poi ho visto cosa facevano i compagni e ho iniziato a liberare la mia goliardia. Con lo studio, invece, ho vissuto di rendita per quasi tutto l’anno».

All’Università ci è andata? «No, e ogni tanto penso di iscrivermi ad Antropologia o Filosofia.  Mentre all’epoca ho frequentato una scuola serale di teatro, il Centro Studio Attori».

Quando ha deciso che voleva recitare? «A tre o quattro anni, ero in uno spettacolo teatrale con mio padre, finito poi al Fringe Festival di Edimburgo. Poi sono arrivati un corto a cui sono molto legata e un film per la tv svizzera».

Just in God è il corto.  «L’ho girato al Berchet nonostante frequentassi ancora le medie. Ero una ragazzina bruttina, sfigata e bullizzata che a un certo punto del suo diario, vedendo la foto di Justin Timberlake, inizia a parlargli come fosse Dio».

Cosa le diceva il Dio Timberlake? «“Cosa stai facendo? Devi reagire!”, era un invito a manifestarsi per come si è, un invito ad esserci. Vorrei molti più ruoli così liberi, scuri e ironici, ma per noi donne sono una rarità».

A nove anni però lei era già protagonista in La diga di Fulvio Bernasconi. «Mia madre era andata a fare un casting per il ruolo della madre ma era troppo grande. Hanno voluto me come figlia, e quello di Giorgia era un doppio ruolo: una bambina vera e un fantasma, che si dovevano anche incontrare».

A Venezia si è parlato di lei come della nuova scoperta del cinema italiano. «I fratelli D’Innocenzomi avevano vista  in Strategie Teatrali, al teatro India di Roma, almeno quattro anni prima di girare America Latina».

(continua…)

Intervista integrale su Vanity Fair n. 1 del 5 gennaio 2022

©Riproduzione riservata

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