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~ Interviste illuminanti

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Charlotte Rampling: «Non posso nascondermi».

21 sabato Gen 2017

Posted by cristianaallievi in cinema, Miti, Moda & cinema

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45 anni, Andrea Pallaoro, Charlotte Rampling, Cristiana Allievi, Dlarepubblica, IoCharlotte Rampling, Jean-Noel Tassez, Jonathan Anderson, Loewe, Stardust Memories, The Whale, Woody Allen

SCELTA DAL CINEMA (HA CINQUE FILM IN USCITA NEL 2017) E DALLA MODA, A 70 ANNI CHARLOTTE RAMPLING RESTA UNA DELLE PIU’GRANDI, RESISTENTI E AUDACI ICONE DI SEMPRE. E UNA DONNA NON FACILE DA INCONTRARE.

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Charlotte Rampling, 71 anni (courtesy of Loewe)

Capelli corti tirati indietro. Trucco drammatico. Mani appoggiate sul volto. Osservi le foto che Jamie Hawkesworth le ha scattato nel cuore di Parigi, con primi piani in cui le rughe del volto si contano una a una, e non ti capaciti di come quei due occhi verdi abbiano ancora una forza magnetica. È un’icona fashion apparsa in tonnellate di foto che oggi fa la stessa impressione di sempre: con la sua bellezza fredda e distaccata Charlotte Rampling ti mette ancora in soggezione. A 70 anni suonati Jonathan Anderson l’ha scelta per la campagna della sua collezione primavera 2017. Il direttore creativo di Loewe deve aver pensato alle foto con cui l’ha lanciata Helmut Newton, o a film culto come Il portiere di notte di Liliana Cavani, Stardust Memories di Woody Allen, Sotto la sabbia di François Ozon fino a 45 anni, che l’anno scorso le ha fatto vincere l’Orso d’argento al festival di Berlino e le ha regalato la prima candidatura agli Oscar. Fra tutte le espressioni che poteva scegliere per definirla, lo stilista irlandese ne ha usata una che colpisce: “crudezza”. E va detto, non è una donna simpatica. Precisa e creativa nelle risposte, è assolutamente incapace di mettere l’interlocutore a proprio agio. Conosce questo tratto di se stessa, quando dice con un velo di sarcasmo “diventi più interessante quando la gente sa che non può averti”.

Figlia di un ex colonnello dell’esercito due volte medaglia d’oro alle Olimpiadi e di una pittrice ereditiera, la modella, attrice e cantante inglese racconta che le linee e le forme audaci l’hanno sempre attratta, come il coraggio di sperimentare. «Le creazioni di Jonathon di quest’anno erano teatrali, colorate e stravaganti, un vero azzardo. È l’approccio che preferisco, per questo ho accettato la sua offerta di indossarle. E anche perchè con quei capi addosso ho sentito che diventavo me stessa all’ennesima potenza».  Sul come si veste nella vita di tutti i giorni, l’entusiasmo si smorza. «Non sono molto avventurosa, so che mi stanno bene le cose semplici e abbastanza maschili, ed è quello che indosso più spesso».

Aveva 17 anni quando è iniziata la sua carriera di modella, poi è arrivato il cinema e da Georgy Svegliati a oggi ha girato più di 100 film, ha cantato e ha sempre lavorato anche in teatro. Ma soprattutto, ha mostrato un’inclinazione per la provocazione. «Dopo le prime commedie che ho girato la mia vita è cambiata radicalmente, e i ruoli che ho scelto hanno rispecchiato questi cambiamenti». Per quanto parli, con lei è difficile stabilire un reale contatto. Non stupisce, la sua non è stata un vita felice, e con i sette traslochi in 13 anni con la sua famiglia deve aver imparato a non attaccarsi a niente. Ma la radice dell’attaccamento è stata estirpata in modo ben più drastico, come ha finalmente fatto sapere al mondo la scorsa estate grazie alla biografia Io, Charlotte Rampling. Nel libro scritto a quattro mani con Christophe Bataille trova finalmente una spiegazione quel feeling di dolore e shoc che l’ha sempre accompagnata: a 23 anni, subito dopo essere diventata madre, l’amatissima sorella Sarah con cui da ragazza si esibiva nel cabaret, si è tolta la vita in Argentina, e questo lei lo ha scoperto molti anni dopo l’accaduto. Da lì in avanti la storia della Rampling è venata di fatica. Ancora giovanissima inizia una relazione a tre col fotografo Randall Lawrence e con il pubblicitario Bryan Southcombe, con cui si sposa. Dopo quattro anni di matrimonio incontra a una festa a Saint Tropez il musicista Jean Michel Jarre e va avivere con lui a Versailles. Ma soffre di depressione e scoprire che il suo uomo la tradisce non migliora questo continuo oscillare tra alti e bassi. Evidentemente la stoffa della Rampling è parecchio resistente, va avanti a lavorare finchè nel 2000 non torna una star grazie a François Ozon di cui diventa la musa e con cui girerà tre film. La morte della madre, nel 2001, la incoraggerà a uscire allo scoperto e a iniziare a scrivere la famosa biografia di cui sopra.

Uno dei grandi paradossi di una donna che è fisicamente esposta da cinquant’anni è che è molto riservata quando si tratta della sua anima. «Finchè non mi sono accorta che è quasi impossibile nascondersi. Essere fotografata è parte della mia vita, le cose cambiano, evolvono, ma nell’essenza tutto rimane lo stesso. Grazie al mio lavoro mi consegno a un film, mi do completamente all’arte. Qualsiasi sia il mezzo con cui la condivido, fotografie, cinema, tv, condivido la mia vita interiore. E in tutto quello che ho fatto ho voluto creare una continuità visibile: la faccia è cambiata, sto invecchiando, ma è riconoscibile».

Ha un talento tutto suo nel rappresentare in modo naturale persone reali e nel trasmettere una vulnerabilità. «Entri in contatto con le tue emozioni vere vivendole sin dall’inizio in modo appassionato e senza paura. A quel punto le puoi veicolare attraverso il corpo e gli occhi, per restituirle allo schermo. È quando invecchi che processi le cose, se non lo fai iniziano i problemi». Perchè I suoi ruoli più recenti sono più vulnerabili? «Mostrano l’accumulo di una vita dedicata alla ricerca della verità, in questo modo si diventa sempre più vulnerabili».

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L’attrice sul set di 45 anni, il film di Francois Ozon che le ha regalato la prima candidatura agli Oscar.

Alla sfilza di cose spiacevoli che la vita le ha messo davanti c’è da aggiungere la morte del suo partner da vent’anni, il businessmen francese Jean-Noël Tassez, mancato lo scorso anno dopo una relazione durata quanto il matrimonio con Michel Jarre.  Ma la sua vita a Parigi è quella di prima: nuoto, yoga e meditazione, «Non sono regolare, perchè odio fare le stesse cose tutti i giorni». Quando le fai notare che nel 2017 la vedremo in ben cinque film, tra cui The Whale diretto da Andrea Pallaoro («è il ritratto di una donna che vive uno sconvolgimento emotivo»), sdrammatizza a modo suo. «Non sono tutti ruoli principali, va detto. Tutto quello che ho fatto nel passato mi ha portata a questo momento, e adoro le possibilità che ancora oggi ho davanti». Sarà merito anche della stoffa atletica ereditata dal padre, fatto sta che se la chiamano tutti significa che c’è qualcosa in lei che è ancora molto vivo. «Ci ho lavorato su, non capita per caso. Devi essere disponibile per la vita, tenerti aperta, perché le cose succedano. E con i pensieri debilitanti c’è una sola strategia da attuare: imparare trucchi per rimandarli da dove vengono».

Articolo pubblicato su D La Repubblica il 14 gennaio 2017

© RIPRODUZIONE RISERVATA

 

 

 

 

 

Emma Stone, «Sognare è potere»

14 mercoledì Dic 2016

Posted by cristianaallievi in cinema, Mostra d'arte cinematografica di Venezia, Personaggi

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Amazing Spider Man, Andrew Garfield, Arizona, Birdman, Cabaret, Coppa Volpi, Cristiana Allievi, Damien Chazelle, Easy Girl, La La Land, Maniac, New York, Ryan Gosling, Steve Carell, The battle of the sexes, Woody Allen

CAMALEONTICA E IN CONTINUO MOVIMENTO: EMMA STONE È LA CREATURA DI HOLLYWOOD CHE PIU’ INCANTA PER IL TALENTO NEL CAMBIARE PELLE. E RUOLI. IN LA LA LAND SVELA IL SUO PUNTO FERMO: LA CERTEZZA CHE I SOGNI TI INDICANO SEMPRE LA STRADA.

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Sul tavolo davanti a noi c’è una Red Bull. Emma Stone racconta che berla sarà un evento speciale: «lo farò alla fine della nostra intervista», scherza. È un camaleonte, questa giovane donna. Basta guardare le sue foto per accorgersi che la sua personalità è in continua evoluzione. Torna con la memoria alle sue prime audizioni e al feeling di essere rifiutata, che dall’alto di venti film girati, con tanto di nomination all’Oscar e Coppa Volpi vinta all’ultima Mostra d’arte cinematografica di Venezia, sono ormai un ricordo lontano. «Non ho mai avuto un momento in cui ho pensato di fare le valigie e tornarmene a casa. Ma a essere onesta non mi sono mai esposta completamente». Non una frase a caso, perché in La La Land di Damien Chazelle, in cui la vedremo dal 26 gennaio accanto a Ryan Gosling, Emma incarna Mia, un’apprendista attrice che tenta di sfondare in teatro e intanto sbarca il lunario servendo cappuccini alle star del cinema. La relazione con Sebastian (Gosling), musicista jazz, dapprima aiuterà entrambi, poi il successo separerà le loro vite. «Mia è una donna che rischia molto. Passa sei anni a creare qualcosa di completamente suo. È la scrittrice, l’interprete e la regista di un one woman show: con queste premesse un rifiuto è devastante, e per fortuna non mi è mai successo di sperimentarlo. Ma sa cosa le dico? Ho imparato più dalle difficoltà, anche nelle mia vita privata, e dai film che non sono andati bene, che dalle esperienze che definiamo di successo. Le crisi ti costringono ad andare più in profondità, a essere migliore, a diventare più forte. E soprattutto a farti domande sul come hai fallito e su quanto tu stessa sia capacace di deludere gli altri. Tutto questo significa diventare davvero essere umani».

L’attrice nominata agli Oscar per Birdman, in cui era un’adolescente in difficoltà che rendeva la vita difficile a un padre ex celebrità decaduta, nelle vene ha sangue svedese (dal nonno paterno), inglese, tedesco, scozzese e irlandese. E non si definirebbe mai una ribelle. «Sono stata fortunata, non avevo da nascondere nulla perché ho sempre potuto parlare con mia madre. I miei genitori mi hanno fatto il miglior regalo che si possa fare a un figlio, non mi hanno vista come un’estensione di se stessi. Avevo sogni e obiettivi diversissimi dai loro, che hanno rispettato». Non ricorda la reazione di suo padre, quando gli ha presentato il primo ragazzo, «evidentemente era un tipo a posto», mentre ricorda un momento di felicità assoluta con lui, a cinque anni, seduta nel patio di casa, durante la stagione dei monsoni in Arizona, dove è cresciuta: se ne stavano lì a mangiare noccioline, indisturbati davanti allo spettacolo di una tempesta. Più avanti, a 15 anni, Emma ha convinto i suoi a farle mollare la scuola per trasferirsi a Hollywood: è bastata una presentazione in PowerPoint, con tanto di titolo, per farli cedere. È così che si è trasferita con la mamma a Los Angeles. Me lo racconta in una mattina di sole nel patio di un hotel italiano, senza perdermi un attimo con quei grandi occhi verdi. Se le si chiede come vede la strada fatta fin qui, oggi che è una delle attrici più ricercate su piazza, non ha dubbi. «Due anni fa ho letto in un’intervista qualcosa che mi ha colpita. Si diceva che i sogni sorgono per incontrarci, trasformandosi in opportunità, e sto scoprendo che è proprio così: è il mio lavoro, in un certo senso, a rivelarsi a me. Quando sono volata a Los Angeles volevo diventare attrice perché mi piaceva recitare in teatro e fare commedie. In questi ultimi tredici anni i miei sogni sono apparsi facendomi incontrare opportunità che non avrei mai immaginato. Oggi mi sento più radicata di quando ho iniziato, posso affrontare sfide più grandi». In effetti l’asticella si è alzata parecchio per lei, in una manciata di anni. Ha iniziato con un reality show che le ha portato piccole parti in tv, poi è venuto il cinema, fino al ruolo da protagonista che l’ha lanciata in Easy Girl. Da lì in avanti ci ha stupiti con il calore di Gwen Stacy in Amazing Spider-Man e soprattutto ha dimostrato che appena le danno più spazio è perfettamente capace di gestirlo, vedere alla voce Magic in the Moonlight e Irrational men, la doppietta con Woody Allen. Il personaggio che interpreta accanto a Gosling in La La Land (per i due attori è il terzo film insieme) è una lettera d’amore alla vecchia Hollywood sotto forma di musical che il regista di Whiplash ha scritto, oltre che diretto. La Stone recita, canta e balla. «Io e Ryan ci siamo allenati per due mesi col ballo e prendendo lezioni di canto. Ma la chiave della riuscita, quella che lei prima chiamava naturalezza, è stata Damien. Ci ha detto che non dovevamo sembrare ballerini di Broadway, quello che gli importava vedere erano gli errori e il feeling di essere vivi. Diciamo che ha tolto un po’ di pressione anche nei momenti in cui mi sentivo stonata».  Una delle frasi forti di Mia è “voglio essere vista”, che presto si trasforma in “voglio essere trovata”. «In me c’è una vulnerabilità che finalmente inizio ad accettare. Da giovane non mi sentivo abbastanza sicura per poter gestire tutti questi sentimenti, non li capivo, recitare mi ha dato spazio per farlo. Ero molto ansiosa, quindi le commedie erano perfette per me. Adesso quella fase è finita, e da adulta posso dire che è molto più terapeutico accettare me stessa. Sentirmi più sicura permette a emozioni “spaventose” di arrivare in superficie, e questo a sua volta mi fa crescere anche come artista. In un certo senso ho più paura ma ho anche molto più da dare al pubblico». Anche Cabaret, il musical di Broadway che l’ha impegnata fino a prima delle riprese con Chazelle, ha fatto la sua parte. Ha cantato otto volte alla settimana, 40 canzoni in tutto, perdendo spesso la voce, per altro profondissima. «Lavorare in teatro ti rafforza, mi ha fatto vedere la recitazione da un’altra prospettiva. Indipendentemente da come ti senti tutte le sere sei sul palco, dopo un po’ perdi la paura di sbagliare». È un tema su cui torna più volte, durante la conversazione, come quando le chiedi qual è la cosa più coraggiosa che ha fatto in vita sua. «Mi sento fiera quando riesco davvero a esprimere quello che sento, può essere anche dire di no a qualcosa o a qualcuno».

Cresciuta in Arizona a pane e musical (recitava con il Valley Youth Theatre), con il padre Jeff, imprenditore, e la madre Krista, casalinga, racconta che quando sua nonna ha visto La La Land si è messa a piangere. «Se penso che è sposata con il nonno da 55 anni significa che la storia d’amore che si vede sullo schermo tocca proprio tutti. C’è sempre qualcuno nella nostra vita per cui ti chiedi “perché non ha funzionato?” o “come sarebbe stato se fosse andata avanti?”. Anch’io quando ho letto la sceneggiatura ho pianto». La cosa la riguarda da vicino, tra l’altro. Quando è girata la voce che lei e Andrew Garfield si erano lasciati, nonostante i due non abbiano mai confermato né smentito la loro storia, durata almeno quattro anni, in molti hanno vociferato che fosse a causa dei troppi impegni presi su set distanti. «No, io e Andrew non ci siamo lasciati per questo motivo, ma preferisco non spingermi oltre su questo tema».

Come Matthew McConaughey, Nicole Kidman e molti altre celeb, Emma sarà presto protagonista anche del piccolo schermo. Il primo progetto di cui si mormora è  Maniac, una serie da 30 minuti a puntata con il collega di Superbad Jonah Hill. È un’altra pietra miliare per l’attrice, che si misurerà anche con il ruolo di produttrice. La prossima primavera, a Londra, inizierà le riprese di The favourite con Yorgos Lanthimos, il regista di quel capolavoro stravagante che è The Lobster. Ma prima avremo il piacere di vederla in The Battle of the sexes, diretta da Jonathan Dayton, il film che ricostruisce l’epico confronto sul campo da tennis del 1973 in cui si sfidarono Billie Jean King e Bobby Riggs, interpretato da Steve Carell. «È un film incredibile, ha lo stesso direttore della fotografia di La La Land, Linus Sandgren, e gran parte della troupe. È un film così diverso da quelli che ho fatto finora, non avevo mai recitato una persona davvero esistita come Billie Jean King. E quello che voglio portare a un regista, oggi, è un senso di apertura e di esplorazione, un’attitudine a immergermi nello sconosciuto».

Amica di Mila Kunis e Taylor Swift, ha due miti: Diane Keaton e Marion Cotillard, di cui ha ripetuto all’infinito le scene de La vie en rose nel privato della sua stanza. Mentre in pubblico ha imparato a fare i conti con la celebrità. «Per il novanta per cento del tempo riesco ancora ad andare al supermercato. Il restante dieci per cento del tempo mi trovo gente che mi fotografa fuori dalla porta di casa, lontano dal contesto di un festival o di una premiere. Può essere spaventoso e invadente, è come se sentissero che gli devi qualcosa perché ti vedono da qualche parte, vogliono strapparti qualcosa». Anche per questo motivo la Stone ha lasciato Los Angeles per New York, «almeno lì quando entri in un ristorante non ti guardano tutti per vedere chi sei, come succede a Los Angeles. Se sento la pressione del gossip perché lavoro con uomini meravigliosi? Certo, devo proteggere me stessa. Così come devo stare attenta a quello che leggo…».

Cover story D La Repubblica del 10 dicembre 2016 

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Woody Allen «A scuola ero un asino»

14 mercoledì Dic 2016

Posted by cristianaallievi in cinema, Miti, Quella volta che

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ipocondria, Woody Allen


Il grande regista e attore americano racconta a OK il suo passato di studente per niente modello. E smentisce la leggenda sul suo essere ipocondriaco, definendosi al massimo «un allarmista»

Tutti credono che io sia un intellettuale. Penso dipenda dal fatto che porto gli occhiali. In realtà non lo sono mai stato, a scuola ero un pessimo studente, mi hanno persino buttato fuori dall’Università. Tutti i miei amici sono diventati dottori e avvocati, io da giovane non sapevo cosa fare. Immagino che se non avessi avuto il dono di far ridere le persone sarei finito a riparare ascensori, non avrei potuto fare niente di creativo. Ci ho messo tempo a capire di avere un dono, un’abilità diversa. E la scoperta che si trattava di divertire le persone è stata lenta anche perché sono molto timido e l’ultima cosa che pensavo di fare era trovarmi su un palcoscenico o su un set cinematografico.
Spesso mi chiedono come faccio a fare un film dopo l’altro. Io rispondo: «È l’unica cosa buona che faccio, tutto il resto è sbagliato!».

Nessuno è un disastro totale, tutti possono fare qualcosa: io sono un disastro in tutto, ma sono produttivo. È stata questa la mia vera cura, più dell’analista. Spesso i giornali associano il mio nome alla psicanalisi e alla psicoterapia. Io ho sempre raccontato barzellette sull’argomento perché in America è molto facile far ridere schiacciando quel tasto.

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Se si parla di sesso la gente ride immediatamente, lo stesso succede con la psicanalisi. Comunque ci ho flirtato sin da giovanissimo e mi sono avvicinato alla materia con risultati a volte buoni e altri meno buoni. Diciamo che ho pensieri positivi in merito, credo che faccia bene a moltissimi e ad altri no.

NON SONO IPOCONDRIACO
E sempre in merito ai miti che mi riguardano personalmente, non è vero che sonoipocondriaco, semmai sono un allarmista: non mi sento ammalato di continuo, è che quando io mi ammalo penso sempre sia la volta buona.

Dicevo della produttività, la mia vera terapia e la mia fortuna. Trovo che chiunque si impegni in un’attività faccia la cosa giusta, a me serve a non seguire pensieri catastrofici. Se non ci si tiene occupati, la mente fa viaggi strani e poco sani. Ma non è l’unico motivo per cui faccio un film all’anno. Ho capito col tempo che inventare storie è la mia passione e serve a mantenermi a un buon livello di energia generale. Non credo che per fare questo occorra essere attori o registi: essere occupati e avere un lavoro creativo sono due cose diverse.
Ci si può mantenere impegnati anche dipingendo il proprio appartamento, non è indispensabile avere quel dono speciale della creatività che hanno un pittore, un compositore, uno scrittore. Per quello si deve essere fortunati. E anche qui occorre precisare: con essere fortunati non intendo essere famosi, ma nascere con un talento. Picasso è nato con un talento, Mozart anche.

GIRARE FILM È LA MIA TERAPIA Quando mi ricordano che anche io sono musicista, sorrido e dico che le cose sono diverse da come sembrano.

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La gente viene ad ascoltarmi suonare perché mi conosce come regista e attore, altrimenti non verrebbe nessuno! Non so se per me quale attività sia più terapeutica. Dirigere un film non è pesante, fanno tutto gli attori, basta ingaggiarne di bravi… Anche suonare al mio livello è facile, mi alleno solo un’ora al giorno, mentre i veri musicisti suonano cinque volte di più. Mentre scrivere sceneggiature è allucinante: sei solo nella stanza, non succede nulla. Dimenticavo, dirigere film mi fa bene anche perché mi permette di viaggiare. Parigi è il luogo in cui vivrei se non fossi a New York. Adoro anche Londra ma, se dovessi scegliere, Parigi è come casa, ha lo stesso nervosismo, la stessa cultura. Se non fossi stato così codardo da giovane, sarei andato a viverci. Ero spaventato dal perdere le mie radici. Che invece non dovevano essere così profonde, visto dove mi trovo adesso.

Articolo pubblicato su Ok Salute del 24 febbraio 2014

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