Meglio lasciarsi andare per apprezzare la forza del primo vero film dell’artista ribelle. Come Ai Weiwei si è lasciato andare per entrare nelle ragioni, speranze e potenzialità del grande flusso umano che attraversa questo secolo
Davanti allo scorrere di immagini di straordinaria bellezza non si può che lasciarsi andare. Anche se, come nel caso dei 140 minuti di Human Flow, si tratta di un flusso umano di uomini, donne, bambini, che si spostano scappando dai luoghi del mondo devastati da guerra, carestie e cambiamenti climatici con zaini e sacchetti di plastica, coperti alla meglio per isolarsi dal freddo e diretti nei campi profughi.
Il paradosso del film di Ai Weiwei presentato in concorso alla Mostra di Venezia (e nelle sale dal 2 al 5 ottobre distribuito da 01 Distribution), è che tanta bellezza estetica racconta una situazione devastante. 65 sono i milioni di persone nel mondo che sono state costrette a lasciare le proprie case di cui 300.000, tra il 2015 e il 2016, erano bambini che viaggiavano da soli, senza adulti a guidarli o sostenerli. Quello che mette in luce l’occhio di Weiwei è la forza dei profughi, il loro mettersi alle spalle un passato per esplorare un futuro ignoto, in poche parole la loro umanità.
E a chi ha fatto notare che l’estetica della pellicola è troppo alta, per un simile tema, il regista cinese ha risposto senza esitazioni in un incontro per la stampa. «Nella storia del genere umano le grandi sofferenze non si contano, quella dei rifugiati è solo una parte. Ma la nostra evoluzione ha tratto forza proprio dal cercare la bellezza, principio per cui un artista deve riuscire a lottare: un documentario non è la realtà, è il racconto di una nuova realtà, quindi ha un’estetica lavorata».
Sessant’anni anni, Weiwei è un artista, designer e attivista celebrato, perseguitato e noto per uno spirito da fuorilegge. Suo padre, il poeta Ai Quing, è stato esiliato e la famiglia ha vissuto per 20 anni in un provincia sconosciuta della Cina, finché nel 1981 si è trasferito a New York. «So cosa significa essere torturati, il film è nato nel periodo in cui ero recluso, non avevo ancora il passaporto». Ha girato gli eventi che vediamo sullo schermo nel corso di un anno, attraverso 23 paesi, dal Bangladesh alla Turchia, dalla Grecia al Kenya, e questa è la sua opera prima da regista.
«Per me è stato un viaggio nella realtà, un’esperienza di studio da cui sono stato travolto, sono entrato nel progetto quasi per caso e senza preparazione. Ma il mio interesse era maggiore del raccontare una semplice storia: per illustrare una situazione così complessa occorreva fare riprese in vari posti, e raccontare la dimensione del fenomeno. Già a New York negli anni Ottanta avevo realizzato più di 10 mila ore di documentari sui diritti umani. E ci sono miei film sperimentali in cui con una sola inquadratura ho realizzato 150 ore di girato. Human Flow sembra lungo? Non è niente in confronto».
La produzione del film è vastissima, ha incluso 200 persone di troupe e ha avuto costi elevatissimi. «Come artista indipendente non ho mai usato il criterio del budget. Ho sempre detto “andiamo avanti”, anche a costo di interrompere un progetto a metà. Per fortuna in questo caso a metà strada si sono unite persone. Non importa quanto grandi sono stati gli investimenti, la possibilità di esprimere quel tema viene prima».
Crede che il nostro paese abbia un occhio giusto verso il problema dei profughi. «L’Italia ha una lunga storia di emigrazione e immigrazione. La vostra posizione politica vi fa gestire i rapporti col mondo in modo diverso dal resto del mondo, voi mantenete una cultura di comprensione del fenomeno».
C’è da chiedersi dove veda ancora la speranza, da uomo e artista, dopo tutto quello che ha visto in vita sua. «In tutti i paesi del mondo in cui sono stato ho incontrato differenze di povertà e di disastri ambientali. Ma ciò che mi ha colpito di più sono stati i bambini e la loro innocenza, quella voglia di correre dietro alla troupe e quell’innocenza che hanno negli occhi. Mi ha fatto rendere conto che da troppo tempo ci siamo dimenticati di quello sguardo. Credo nella fantasia, quando c’è esiste ancor una possibilità. Ecco perché continuo a fare arte».
Articolo pubblicato su GQ Italia
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