AL CINEMA SCEGLIE SEMPRE RUOLI DI UOMINI CHE CERCANO GIUSTIZIA. A TEATRO SCOMMETTE SOLO SULLE OPERE PIU’ RISCHIOSE. E COME PADRE SEPARATO (DA UMA THURMAN) NON SI DA’ TREGUA. ETHAN HAWKE È L’INSTANCABILE GENTILUOMO DI HOLLYWOOD. ORA, PER RACCONTARE SE STESSO AI SUOI FIGLI, HA SCRITTO UNA FAVOLA. CHE PER PROTAGONISTA HA UN EROE, PROPRIO COME LUI
Lo incontro con un asciugamano in mano da cui sbuca uno spazzolino da denti. È appena atterrato dagli Usa, si scusa per gli occhiali da sole che indossa, lo fanno sentire più protetto dopo il lungo viaggio intercontinentale. In completo di velluto a coste e t-shirt, è il ritratto di un uomo che non vive per l’immagine. Eppure Giorgio Armani ha dichiarato che per un biopic sulla sua vita vorrebbe proprio l’attore texano a interpretare se stesso. Si vede che lo sente simile a sé, considerato che Ethan è una specie di vulcano attivo. È attore, regista, produttore, sceneggiatore e scrittore. Non bastasse, è padre di quattro figli, Maya e Levon Roan (17 e 13 anni, avuti dalla ex moglie Uma Thurman) e Clementine e Indiana (7 e 4 anni, nati dalla moglie attuale, Ryan Shawhughens). E proprio pensando a loro ha scritto il terzo libro, Rules for a Knight, pubblicato da poco. A chi lo accusa di essere stakanovista, Hawke risponde che gli piace lavorare. A 22 anni aveva già fondato una compagnia teatrale, la Malaparte Theater Company di New York. E prima, quando di anni ne aveva 18, era nel cast dell’Attimo fuggente. Ora, dopo quarantacinque film e quattro candidature agli Oscar, dal 3 dicembre lo vedremo in Regression, del regista premio Oscar Alejandro Amenabar, nei panni del detective Bruce Kenner. Il regista avrebbe voluto vestirlo in maniera elegante, per rendere il personaggio che interpreta attraente, ma non c’è stato verso: Ethan gli ha risposto che non vuole apparire bello. La storia si svolge nel Minnesota, e l’attore americano indaga sul caso di una donna che accusa il proprio padre di un terribile crimine. Tra perdite di memoria, psicologi specializzati in regressioni e viaggi nella miseria umana, smaschererà un orribile mistero.
È stato più volte un agente di polizia, stavolta è un detective. «Il thriller si ispira a una serie di eventi realmente accaduti negli Stati Uniti durante gli anni ’80, in cui la polizia ha lavorato al fianco di psicologi ed esperti di superstizione. Io sono un detective divorziato che soffoca una personalità ossessiva risolvendo un caso dopo l’altro e finisce con l’ossessionarsi».
Cosa ha trovato interessante di questa storia? «L’esplorazione della paura. Il film la analizza da più parti, osserva le motivazioni per le quali vogliamo avere paura, ci piace avere paura, o del perché odiamo questa sensazione. Soprattutto mostra come le nostre paure, se non conosciute, si trasformino nei nostri peggiori incubi».
Lei come combatte le sue, di paure? «Facendo almeno una cosa creativa al giorno. Se non succede considero di aver buttato via una giornata, e la cosa non mi fa sentire per niente bene».
Il personaggio creativo che le è piaciuto di più, sullo schermo? «È un ruolo difficile da interpretare, basta niente e risulti antipatico, egocentrico o incomprensibile. Direi che Tom Hulce in Amadeus è stato il migliore».
Ha terminato il suo nuovo libro, in Rules for a Knight, storia di un cavaliere che scrive ai suoi figli prima di andare in battaglia, dando loro dei consigli. «L’ho scritto pensando ai miei ragazzi. Mia moglie Ryan stava leggendo un libro su come è difficile essere un genitore adottivo, ho preso spunto da questo».
Qual è la cosa più difficile di essere genitori divorziati? «I continui paragoni, ti possono devastare. Del tipo “dalla mamma mangiamo gelato tutto il tempo…”, oppure “non vengo da te il prossimo weekend…”. Poi ci sono regole a scuola, regole nella casa della nonna paterna, regole dalla nonna materna, regole dal papà, regole dalla mamma… Nessuno ha quelle giuste, sono solo regole. Così ho iniziato ad analizzarle».
La trovata narrativa è che il cavaliere scrive da un punto di vista di chi teme di non tornare dalla battaglia, e lascia ai figli lezioni di vita sul perdono, l’onestà, il coraggio e via dicendo… «Era il mio modo per dire loro cose importanti, volevo che questo tipo di conversazioni non si perdessero. Essere padre è la gioia più grande della mia vita, è l’unico ruolo che, se fallisco, renderà un fallimento la mia vita».
Trova il tempo per stare con i ragazzi? «Certo, ma non mi avvicino nemmeno a starci quanto vorrei. Avendoli un weekend sì e uno no, ho sempre da fare, portarli a calcio, alla festa, arriva presto il momento di riportarli dalla madre».
Cosa le piace fare, tutti insieme? «Dipingere con gli acquerelli e fare musica: mio figlio suona il pianoforte, mia figlia la chitarra e alle più piccole piace molto ballare (ride, ndr)».
Anche lei suona? «La chitarra, ma non canto».
So che per Boyhood, in cui era un padre musicista, si è cimentato… «Volevo che le cose fossero talmente vere che ha scritto una canzone per mio figlio e una per mia moglie».
Per Brecht, in teatro, non cantava davvero? «Ho mentito… Quando dico che non canto intendo dire che non mi piace come canto, ma per Brecht l’ho fatto. Come nel caso di Shakespeare, che era un musical».
Va fiero di tutto quello che fa? «Più cresco più divento umile. Se avessi letto Moby Dick o Anna Karenina prima di pubblicare L’amore giovane, non credo che avrei mai fatto uscire quel libro! Ma sono un uomo molto fortunato, ho un buon lavoro e non devo scrivere per denaro, cosa che mi fa sentire libero. Intanto vorrei anche girare qualche film commerciale in cui faccio il fratello di Brad Pitt!».
Tempo fa ha dichiarato che i “pop corn” film la fanno stare male. «Identità violate (con Angelina Jolie, ndr) è stato il primo film che ho fatto che non parlava di niente, e non mi è piaciuto. Ci sono troppe cose così in giro, trovo molto più divertente e difficile cercare di offrire un intrattenimento che non sia una perdita di tempo».

L’attore americano a 18 anni, nell’Attimo fuggente.
L’hanno accusata di essere pretenzioso, come fanno col suo collega James Franco. Lei si è difeso bene… «È una vita che me lo dicono, io incoraggio i giovani ad esserlo a mia volta, in un certo senso. Perché se hai il senso dell’umorismo, puoi ispirare gli altri. Ho sempre amato dirigere, ho fondato una compagnia teatrale che avevo 20 anni, è stata la grande gioia della mia vita. E poi se devi avere una seconda carriera, nella vita, meglio aver fatto altre esperienze».
In tempi di crisi si preoccupa anche lei pensando che non la chiameranno per il prossimo film? «È così per tutti gli attori. Il mio primo amore è il teatro, ma se penso a che fatica è stata La sponda dell’utopia, di Tom Stoppard (negli Usa ha vinto il maggior numero di Oscar teatrali mai assegnati, ndr), una trilogia in cui ogni parte dura tre ore, e al fatto che mi ci è voluto un anno per metterle insieme, le dico che il teatro è rischioso perché non ci paghi le bollette. Quando hai quattro figli inizi a capire perché alcuni colleghi accettano Spiderman, serve a pagare scuole private e college».
Quando trova il tempo per dormire? «Fare film ti consuma, ma solo per sei settimane. Non capisco molti colleghi che diventano matti dicendo che non abbiamo abbastanza tempo. Io cerco di riempire la mia vita con progetti che mi facciano essere più lucido su quali lavori scegliere come attore».
Ha trent’anni di carriera alle spalle, oggi come vede i suoi inizi? «Credo che il fatto di non sentire che è passato molto tempo appartenga alle persone più anziane, in generale. Se va da un ventenne e gli chiede degli anni Novanta, gli sembreranno lontanissimi. A me sembra ieri quando sono andato al Festival di Berlino con Prima dell’alba. Era il 1994, c’erano Richard Linklater (il regista con cui Hawke ha girato molti film, tra cui Boyhood, ndr), Douglas Coupland con il suo nuovo libro, Generazione Shampoo. Abbiamo lasciato il festival di nascosto per andare a un concerto dei R.E.M. a Barcellona, e dopo il concerto abbiamo passato la serata con Michael Stipe… Mi sembrano cose successe quindici minuti fa».
Cosa l’ha fatta arrivare fin qui? «La voce del mio allenatore di football che parla sempre nella mia testa, “Duecento per cento, Hawke! Sforzi ordinari, risultati ordinari!”. È stato lui a consigliarmi di non lasciare la squadra quando mi hanno preso per il mio primo film, a 12 anni. Ora che ci penso forse devo a lui se sono cresciuto facendo più cose insieme…».
Intervista pubblicata di Grazia del 2 dicembre 2015, n. 49
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