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Cristiana Allievi

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Archivi tag: Ethan Hawke

Ethan Hawke, spirito e carne in First Reformed

01 venerdì Set 2017

Posted by cristianaallievi in cinema, Miti, Mostra d'arte cinematografica di Venezia

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Amand Seyfried, Ethan Hawke, First Reformed, Paul Schrader, ricerca di dio, spirito, Venezia74

La disperazione e la ricerca di Dio davanti allo sfacelo in un film preciso che incalza lo spirito senza tregua

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L’attore texano Ethan Hawke in una scena di First Reformed di Paul Schrader.

Dalle prime inquadrature arriva chiaro il messaggio: si tratta di un film riflessivo, intenso, senza scampo. Lo dicono la composizione delle immagini, studiatissima, e il gioco di luci dell’alba invernale, dominante del film. Come il volto del suo interprete, Ethan Hawke, inquadrato da vicino.

First Reformed di Paul Schrader, presentato in concorso, al secondo giorno di Mostra del cinema è la cosa più bella vista finora. E come altri film (ad esempio Downsizing di Alexander Payne), affronta il problema dell’emergenza del pianeta, tra clima, rifiuti, sfruttamento e mancanza generale di fiducia davanti alle demoniache multinazionali che inquinano. Ma qui la riflessione – che è anche una critica a Trump e alle sue posizioni sul clima- ruota innanzitutto intorno a domande di spiritualità, tema molto caro al regista di American Gigolò eMishima- Una vita in quattro capitoli e sceneggiatore di Taxi Driver.

Ernst Toller (Hawke) è un pastore protestante che in passato ha perso un figlio, da lui stesso spinto a entrare nell’esercito e poi morto in Iraq. L’angoscia che vive nel suo cuore, seguita anche alla fine del matrimonio, si svela a poco a poco grazie all’incontro con una coppia di attivisti ecologisti (lei è Amanda Seyfried), che gli chiedono aiuto. Toller decide di tenere un diario confessione per un anno, in cui annota le inquietudini più profonde che restituiscono allo spettatore un’analisi tagliente quanto necessaria. «Non avevo mai recitato una simile parte prima, ma sono stato circondato dalla religione per tutta la vita, mia nonna pensava sarei diventato prete», racconta un Ethan Hawke al top della forma. «Quello che si vede sullo schermo è un dialogo importante che ho sempre avuto nella testa, quindi sono molto grato di aver avuto l’opportunità di raccontarlo. Il film racconta di un movimento trascendentale che cerca una connessione con il mondo esterno più grande di quanto non faccia la comunità religiosa rispetto alla crisi ambientale».

Si capisce che Schrader, calvinista, mastica bene la materia di quello che forse è il miglior film della sua carriera, potente quanto Silence del suo amico Scorsese.

«Non pensavo di fare un film del genere, ma due anni fa mentre cenavo con Ida Pavelaski ho pensato fosse il momento giusto, e mi sono messo al lavoro». E se gli si chiede perché ha avvolto il suo protagonista nel fil di ferro, ferendolo, lo spiega così. «L’idea di lavare le pene con il sangue, come Cristo, è molto radicata. Si ispira all’idea che con il sangue si possono espiare grandi colpe».

Il titolo del film si riferisce all’unica chiesa ancora attiva nella contea di Albany, stato di New York. Il grande merito è far riflettere su Dio e le domande più profonde che scatena, sulla vocazione e sul senso della preghiera. “Il coraggio è la risposta alla disperazione, e la ragione non è d’aiuto”, mentre la chiesa è ridotta a merchandising di magliette e cappellini.

Il finale, imprevedibile, farà discutere appena messo piede fuori dalla sala.

Articolo pubblicato su GQ Italia

© Riproduzione riservata

Julianne Moore: «Perchè chiedere ai maschi di scrivere film sulle donne?».

05 martedì Lug 2016

Posted by cristianaallievi in cinema, Festival di Berlino

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Bart Freundlich, Berlinale, Cristiana Allievi, Difficult people, Ethan Hawke, Greta Gerwig, Il piano di Maggie, Julianne Moore, Oscar, Planned Parenthood, Rebecca Miller, Still Alice

 

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L’attrice Julianne Moore, 55 anni (courtesy of LA Times)

«Gli esseri umani cercano di imporre una certa struttura sulle cose, che in realtà sono caos puro. Creiamo ordini per cercare di spiegarci i fatti della vita, la realtà è che non li conosciamo e non sappiamo come vanno…». Sembra una frase della sociologa di successo che interpreterà in Il piano di Maggie, appena passato dal Biografilm Festival dopo  quello di Berlino, e al cinema dal 30 giugno. Invece sono parole di una delle attrici più concrete che circolino a Hollywood. Siamo in un hotel di lusso nel cuore di Berlino. È mattina e Julianne Moore indossa un vestitino lilla con una giacca svasata nera. Le è rimasto un filo di voce e, mi dice, si sta imbottendo di rimedi tedeschi sperando che facciano effetto. Non è la prima volta che la incontro, ma resto di nuovo colpita perché dimostra molti meno anni dei 56 che ha. Forse perché è una donna vera, una che nel mezzo dei 30 anni ha capito di sentirsi sola e confusa e ha cominciato a lavorare su di sé, scoprendo che aveva messo al centro della sua vita la carriera, e che era tempo di cambiare rotta. Oggi non ha solo due splendidi figli e un marito, il regista Bart Freundlich (sposato dopo aver divorziato dal regista John Gould Rubin) con cui vive nel west village di Manhattan, ma anche un Oscar in bella mostra in ufficio- vinto per Still Alice– e una serie di cause a cui tiene molto. A dimostrare che avere una carriera al top, una famiglia e degli interessi è possibile, e se ci si impegna per ottenerli. La sua vita lontana dalle luci della ribalta è semplice. Si sveglia tutte le mattine alle 6.30, fa yoga tre volte alla settimana, scrive libri per bambini. E sta dalla parte delle donne: è una delle sostenitrici di Planned Parenthood, grande organizzazione che educa su temi come salute e contraccezione, e ha appoggiato Hilary Clinton nella corsa alla Casa Bianca. Ha anche la passione dell’interior design per cui, oltre a decorare gli interni di casa sua, ha aiutato ad arredare la stanza in cui si svolge la cerimonia di consegna degli Academy Awards. Sullo schermo Julianne Moore ci ha abituato a tutto, dall’erotismo all’omosessualità, dalla pornografia all’incesto, e i prossimi film che girerà saranno con Todd Heynes e con George Clooney. Intanto dal 2 giugno sarà al cinema diretta dalla sua amica Rebecca Miller nei panni di Georgette, un’influente insegnante di sociologia il cui marito (Ethan Hawke), professore universitario, si innamora di Maggie, una donna molto più giovane di lei (Greta Gerwig), con cui va a vivere. Le due donne non si faranno la guerra ma saranno alleate, conducendo il gioco dove vogliono loro.

La commedia romantica che ha debuttato a Toronto per poi passare dal Festival di Berlino sfida ancora una volta le certezze sociali. Lei e la Gerwig proponete una gestione dei figli che mostra una nuova tipologia di famiglia allargata… «Mi ha molto intrigato il fatto che il personaggio di Maggie abbia un’idea di Georgette basata su quello che le dicono gli altri. Ma incontrandola ha una specie di fulmine, per la sua gentilezza. Tra le mie amiche è capitato spesso di sentire che la nuova moglie o compagna ha un ottimo feeling con la ex del marito, e che i loro figli si trovano bene con entrambe le donne. Mi piace che il film faccia riflettere su questa idea».

Propone anche un approccio molto pratico alla maternità: visto che i fidanzati non durano, non si deve per forza amare qualcuno per diventare madri, basta scegliere un donatore di seme, un amico di amici. È una visione moderna della vita, secondo lei? «Non credo si tratti di praticità. Mi ha toccata molto il fatto che a Maggie manchi la madre, che è stata il suo unico genitore quando era bambina. In questo senso lei non fa altro che ricreare le condizioni in cui è cresciuta, lo trovo quasi romantico».

Recita spesso la parte di donne che hanno una vita disordinata. Nella vita vera ama l’ordine? «In sessanta film ho recitato di tutto, non c’è correlazione tra chi sono e i miei personaggi. Credo però che noi esseri umani cerchiamo di imporre una certa struttura sulla realtà. La società, la religione, la comunità, il governo sono tutti ordini che creiamo per cercare di spiegarci le cose, ma non le conosciamo e non sappiamo come vanno».

Le coppie si sfasciano troppo facilmente, al giorno d’oggi? «Non sono un’esperta, ma basta parlare con chi divorzia, per sentire che non è affatto felice. Le relazioni siano sfidanti, e al loro interno succede di tutto. C’è chi sta insieme e soffre, chi si divide e soffre, chi ce la fa, chi fallisce, le variabili sono tante».

Ha un matrimonio che dura negli anni, qual è il segreto? «Credo che gli ingredienti siano molti, ma a contare è soprattutto il voler essere dove si è: stare, impegnarsi nello stare, è il segreto, o almeno uno dei segreti. L’altro è essere grati della vita che si ha».

Una delle cose che ama di suo marito? «Mi fa ridere! Ho capito da poco che prima di un incontro col pubblico o con la stampa è meglio che non legga i suoi sms: mi è capitato di uscire sul palco con le lacrime agli occhi, non sapevo come fare a trattenermi…».

I film che la fanno ridere, invece, quali sono? «Mi viene in mente uno show tv, Difficult people. Lo conducono Julie Klausner e Billy Eichner e lo adoro, è davvero oltraggioso».

Billy è lo stesso di Billy on the street. L’ho vista in una puntata dello street show che mi ha molto divertita. «Ho iniziato a seguire Julie su Twitter e dopo un po’ abbiamo iniziato a messaggiarci, finchè mi ha chiesto se volevo partecipare al suo show, ma non potevo. A quel punto è subentrato Billy, che mi ha chiesto di prendere parte al suo. E così che sono finita per strada a recitare pezzi di film famosi cercando di ottenere la mancia dei passanti!».

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La Moore con Ethan Hawke in Il piano di Maggie- A cosa servono gli uomini (courtesy film.it).

 

Anche in jeans e giacca blu, come in quel caso, lei ha sempre un’eleganza sobria. «Non mi piace attirare troppo l’attenzione, mi piace essere cool senza farmi notare troppo. Trovo molto interessante il modo in cui si decide di presentarsi al mondo, vale per un’attrice come per qualsiasi donna. Mi rendo conto di fare delle scelte, ogni volta che apro l’armadio, e vado un po’ da un eccesso all’altro. Quando lavoro sono davvero vestita, mi piacciono i tessuti e le forme decise, cose semplici e interessanti allo stesso tempo, mentre quando sto con i miei figli sono molto casual. In entrambe i casi sto attenta ai colori che scelgo, per una rossa è fondamentale non sbagliarli»

La sera che ha consegnato l’Oscar a DiCaprio, in Chanel nero, è stata fantastica. «È stata un’edizione straordinaria, i film in concorso quest’anno erano bellissimi, anche quelli rimasti fuori dalle nominations».

Avrebbe mai immaginato di vincere un Oscar, in vita sua? «Nemmeno per sogno. Mi sono ritrovata ad avere una carriera cinematografica all’improvviso, con tre film usciti quasi in contemporanea. Avevo 32 anni, e fino a quel momento avevo recitato per la tv e il teatro di Broadway, al cinema non pensavo nemmeno. Poi ho incrociato registi del cinema indipendente Usa, come Todd Haynes e Paul Thomas Anderson, che ha cambiato tutto».

Lavora ininterrottamente da molti anni, cosa pensa della condizione delle donne a Hollywood? «Che sta cambiando qualcosa, e se guarda a Il piano di Maggie, in cui siamo tre donne, e la regista è anche scrittrice della sceneggiatura (tratta da un romanzo mai pubblicato di Karen Rinaldi, ndr), si capisce qual è la direzione da seguire. È inutile andare da un uomo e dirgli “devi scrivere più storie sulle donne…”, perché le storie sono soggettive, nascono da un impulso personale. Se si vuole che le cose cambino, in termini di diversificazione, l’unico modo è coltivare un punto di vista femminile».

 

Cover story di F del 6 luglio 2016

© Riproduzione riservata

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

«Sono l’ultimo cavaliere», parola di Ethan Hawke

09 mercoledì Dic 2015

Posted by cristianaallievi in cinema, Senza categoria

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Alejandro Amenabar, Amadeus, Attimo fuggente, Boyhood, Clementine, Ethan Hawke, Indiana, James Franco, La sponda dell'utopia, Levon Roan, Malaparte Theater Company, Maya, Michael Stipe, Regression, Richard Linklater, Tom Stoppard, Uma Thurman

AL CINEMA SCEGLIE SEMPRE RUOLI DI UOMINI CHE CERCANO GIUSTIZIA. A TEATRO SCOMMETTE SOLO SULLE OPERE PIU’ RISCHIOSE. E COME PADRE SEPARATO (DA UMA THURMAN) NON SI DA’ TREGUA. ETHAN HAWKE È L’INSTANCABILE GENTILUOMO DI HOLLYWOOD. ORA, PER RACCONTARE SE STESSO AI SUOI FIGLI, HA SCRITTO UNA FAVOLA. CHE PER PROTAGONISTA HA UN EROE, PROPRIO COME LUI

Lo incontro con un asciugamano in mano da cui sbuca uno spazzolino da denti. È appena atterrato dagli Usa, si scusa per gli occhiali da sole che indossa, lo fanno sentire più protetto dopo il lungo viaggio intercontinentale. In completo di velluto a coste e t-shirt, è il ritratto di un uomo che non vive per l’immagine. Eppure Giorgio Armani ha dichiarato che per un biopic sulla sua vita vorrebbe proprio l’attore texano a interpretare se stesso. Si vede che lo sente simile a sé, considerato che Ethan è una specie di vulcano attivo. È attore, regista, produttore, sceneggiatore e scrittore. Non bastasse, è padre di quattro figli, Maya e Levon Roan (17 e 13 anni, avuti dalla ex moglie Uma Thurman) e Clementine e Indiana (7 e 4 anni, nati dalla moglie attuale, Ryan Shawhughens). E proprio pensando a loro ha scritto il terzo libro, Rules for a Knight, pubblicato da poco. A chi lo accusa di essere stakanovista, Hawke risponde che gli piace lavorare. A 22 anni aveva già fondato una compagnia teatrale, la Malaparte Theater Company di New York. E prima, quando di anni ne aveva 18, era nel cast dell’Attimo fuggente. Ora, dopo quarantacinque film e quattro candidature agli Oscar, dal 3 dicembre lo vedremo in Regression, del regista premio Oscar Alejandro Amenabar, nei panni del detective Bruce Kenner. Il regista avrebbe voluto vestirlo in maniera elegante, per rendere il personaggio che interpreta attraente, ma non c’è stato verso: Ethan gli ha risposto che non vuole apparire bello. La storia si svolge nel Minnesota, e l’attore americano indaga sul caso di una donna che accusa il proprio padre di un terribile crimine. Tra perdite di memoria, psicologi specializzati in regressioni e viaggi nella miseria umana, smaschererà un orribile mistero.

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Ethan Hawke, 45 anni, ha più di 40 film all’attivo e quattro candidature agli Oscar.

È stato più volte un agente di polizia, stavolta è un detective. «Il thriller si ispira a una serie di eventi realmente accaduti negli Stati Uniti durante gli anni ’80, in cui la polizia ha lavorato al fianco di psicologi ed esperti di superstizione. Io sono un detective divorziato che soffoca una personalità ossessiva risolvendo un caso dopo l’altro e finisce con l’ossessionarsi».

Cosa ha trovato interessante di questa storia? «L’esplorazione della paura. Il film la analizza da più parti, osserva le motivazioni per le quali vogliamo avere paura, ci piace avere paura, o del perché odiamo questa sensazione. Soprattutto mostra come le nostre paure, se non conosciute, si trasformino nei nostri peggiori incubi».

Lei come combatte le sue, di paure? «Facendo almeno una cosa creativa al giorno. Se non succede considero di aver buttato via una giornata, e la cosa non mi fa sentire per niente bene».

 Il personaggio creativo che le è piaciuto di più, sullo schermo? «È un ruolo difficile da interpretare, basta niente e risulti antipatico, egocentrico o incomprensibile. Direi che Tom Hulce in Amadeus è stato il migliore».

 Ha terminato il suo nuovo libro, in Rules for a Knight, storia di un cavaliere che scrive ai suoi figli prima di andare in battaglia, dando loro dei consigli. «L’ho scritto pensando ai miei ragazzi. Mia moglie Ryan stava leggendo un libro su come è difficile essere un genitore adottivo, ho preso spunto da questo».

Qual è la cosa più difficile di essere genitori divorziati? «I continui paragoni, ti possono devastare. Del tipo “dalla mamma mangiamo gelato tutto il tempo…”, oppure “non vengo da te il prossimo weekend…”. Poi ci sono regole a scuola, regole nella casa della nonna paterna, regole dalla nonna materna, regole dal papà, regole dalla mamma… Nessuno ha quelle giuste, sono solo regole. Così ho iniziato ad analizzarle».

La trovata narrativa è che il cavaliere scrive da un punto di vista di chi teme di non tornare dalla battaglia, e lascia ai figli lezioni di vita sul perdono, l’onestà, il coraggio e via dicendo… «Era il mio modo per dire loro cose importanti, volevo che questo tipo di conversazioni non si perdessero. Essere padre è la gioia più grande della mia vita, è l’unico ruolo che, se fallisco, renderà un fallimento la mia vita».

 Trova il tempo per stare con i ragazzi? «Certo, ma non mi avvicino nemmeno a starci quanto vorrei. Avendoli un weekend sì e uno no, ho sempre da fare, portarli a calcio, alla festa, arriva presto il momento di riportarli dalla madre».

 Cosa le piace fare, tutti insieme? «Dipingere con gli acquerelli e fare musica: mio figlio suona il pianoforte, mia figlia la chitarra e alle più piccole piace molto ballare (ride, ndr)».

Anche lei suona? «La chitarra, ma non canto».

So che per Boyhood, in cui era un padre musicista, si è cimentato… «Volevo che le cose fossero talmente vere che ha scritto una canzone per mio figlio e una per mia moglie».

Per Brecht, in teatro, non cantava davvero? «Ho mentito… Quando dico che non canto intendo dire che non mi piace come canto, ma per Brecht l’ho fatto. Come nel caso di Shakespeare, che era un musical».

Va fiero di tutto quello che fa? «Più cresco più divento umile. Se avessi letto Moby Dick o Anna Karenina prima di pubblicare L’amore giovane, non credo che avrei mai fatto uscire quel libro! Ma sono un uomo molto fortunato, ho un buon lavoro e non devo scrivere per denaro, cosa che mi fa sentire libero. Intanto vorrei anche girare qualche film commerciale in cui faccio il fratello di Brad Pitt!».

Tempo fa ha dichiarato che i “pop corn” film la fanno stare male. «Identità violate (con Angelina Jolie, ndr) è stato il primo film che ho fatto che non parlava di niente, e non mi è piaciuto. Ci sono troppe cose così in giro, trovo molto più divertente e difficile cercare di offrire un intrattenimento che non sia una perdita di tempo».

L’attore americano a 18 anni, nell’Attimo fuggente.

L’hanno accusata di essere pretenzioso, come fanno col suo collega James Franco. Lei si è difeso bene… «È una vita che me lo dicono, io incoraggio i giovani ad esserlo a mia volta, in un certo senso. Perché se hai il senso dell’umorismo, puoi ispirare gli altri. Ho sempre amato dirigere, ho fondato una compagnia teatrale che avevo 20 anni, è stata la grande gioia della mia vita. E poi se devi avere una seconda carriera, nella vita, meglio aver fatto altre esperienze».

In tempi di crisi si preoccupa anche lei pensando che non la chiameranno per il prossimo film? «È così per tutti gli attori. Il mio primo amore è il teatro, ma se penso a che fatica è stata La sponda dell’utopia, di Tom Stoppard (negli Usa ha vinto il maggior numero di Oscar teatrali mai assegnati, ndr), una trilogia in cui ogni parte dura tre ore, e al fatto che mi ci è voluto un anno per metterle insieme, le dico che il teatro è rischioso perché non ci paghi le bollette. Quando hai quattro figli inizi a capire perché alcuni colleghi accettano Spiderman, serve a pagare scuole private e college».

Quando trova il tempo per dormire? «Fare film ti consuma, ma solo per sei settimane. Non capisco molti colleghi che diventano matti dicendo che non abbiamo abbastanza tempo. Io cerco di riempire la mia vita con progetti che mi facciano essere più lucido su quali lavori scegliere come attore».

Ha trent’anni di carriera alle spalle, oggi come vede i suoi inizi? «Credo che il fatto di non sentire che è passato molto tempo appartenga alle persone più anziane, in generale. Se va da un ventenne e gli chiede degli anni Novanta, gli sembreranno lontanissimi. A me sembra ieri quando sono andato al Festival di Berlino con Prima dell’alba. Era il 1994, c’erano Richard Linklater (il regista con cui Hawke ha girato molti film, tra cui Boyhood, ndr), Douglas Coupland con il suo nuovo libro, Generazione Shampoo. Abbiamo lasciato il festival di nascosto per andare a un concerto dei R.E.M. a Barcellona, e dopo il concerto abbiamo passato la serata con Michael Stipe… Mi sembrano cose successe quindici minuti fa».

Cosa l’ha fatta arrivare fin qui? «La voce del mio allenatore di football che parla sempre nella mia testa, “Duecento per cento, Hawke! Sforzi ordinari, risultati ordinari!”. È stato lui a consigliarmi di non lasciare la squadra quando mi hanno preso per il mio primo film, a 12 anni. Ora che ci penso forse devo a lui se sono cresciuto facendo più cose insieme…».

Intervista pubblicata di Grazia del 2 dicembre 2015, n. 49

© RIPRODUZIONE RISERVATA

 

 

 

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