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Cristiana Allievi

~ Interviste illuminanti

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Luca Guadagnino, seduzione e bellezza

03 sabato Mar 2018

Posted by cristianaallievi in cinema, Cultura, Moda & cinema, Oscar 2018

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Call me by your name, Chiamami col tuo nome, cinema, Cristiana Allievi, Giorgio Armani, Icon, interior design, Luca Guadagnino, Suspiria, talenti italiani, talento

FA CINEMA PER SODDISFARE IL SUO ANIMO DA VOYEUR. PERCHE’ OSSERVARE IL MONDO E’ DA SEMPRE LA SUA PASSIONE. CHE SI TRATTI DI SCRUTARE IL SUO PUBBLICO O GLI INVITATI AL SUO DESCO. TRA PIACERE E CRUDELTA’

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Il regista e produttore Luca Guadagnino fotografato da Alessandro Furchino Capria per Icon.

«Ho sempre pensato che se ti organizzi bene fai tutto. In tredici anni Fassbinder ha girato quaranta film e serie tv lunghe anche venti episodi». Siamo seduti sul divano del soggiorno della splendida dimora del diciassettesimo secolo che possiede a Crema, una proprietà che è stata disabitata per quarant’anni prima che lavorasse personalmente alla ristrutturazione durata sei mesi. Di questo luogo ha curato ogni dettaglio, dai tessuti che ricoprono divani e sedie, alle tende, alle tinte delle pareti. Nel soggiorno, a cui si accede attraversando la lunga loggia tutta vetrate con una collezione di piante tropicali, i soffitti sono affrescati, le sedie e i divani di Piero Castellini virano fra il porpora e il ciliegia, mentre le pareti sono pervinca scuro e aiutano i pavimenti di cotto rosso a spiccare. La bellezza è nell’aria, e perdercisi è un rischio reale. Del resto le dimore per Luca Guadagnino sono un tratto distintivo, e nei suoi film hanno la stessa sensualità degli attori. L’ultima è stata la Seicentesca Villa Albergoni che ospita le vicende di Chiamami col tuo nome, e che irretisce lo spettatore tanto quanto i favolosi Armie Hammer e Timothée Chalamet. Tornando a Fassbinder, me lo cita quando gli faccio notare che l’ultimo è stato un anno vissuto davvero pericolosamente. Tra il Sundance, Berlino, Toronto e altri festival nel mondo si è parlato solo del suo film, con lui e il cast sempre presenti. In quegli stessi mesi ha terminato le riprese di Suspiria -attualmente in fase di montaggio- e si prepara a girare il film in costume con Jennifer Lawrence, Burial rites, tratto da una storia vera, e il thriller Rio con Jake Gyllenhaal e Benedict Cumberbatch. Non bastasse, mentre segue i progetti della sua casa di produzione, la Frenesy, ha iniziato una nuova vita professionale. «Ho avuto la brillante idea di aprire uno studio di interior design, ho un team di architetti che lavorano con me e al momento stiamo seguendo un cliente in Italia e uno in Germania. Sto chiedendo parecchio al mio corpo, ma c’è molta adrenalina in circolo che mi permette di farlo».

A guardare quello che ti sta succedendo, e gli attori coinvolti nei prossimi progetti, non c’è da meravigliarsi: è sotto i riflettori come mai prima d’ora. «Ho sempre lavorato con quel tipo di attori, non è cambiato nulla. In A bigger splash c’erano Ralph Fiennes, una delle leggende viventi del cinema anglosassone, Matthias Schoenaerts e Dakota Johnson, una delle giovani più in ascesa a Hollywood. In Suspiria ci sono Chloe Grace Moretz, Mia Goth e ancora Dakota e Tilda. E sono almeno cinque anni che io e Jake Ghyllenhal cerchiamo di fare un film insieme».

Quindi non si sente cambiato, nonostante il suo nome ormai sia noto a tutti? «Arrogarsi il diritto di percepirsi cambiati come persone, in base a fenomeni esteriori, è una totale stupidaggine. Io sono l’amore è stato candidato ai Golden Globes e ai Bafta, e avrei potuto prendere la nomination agli Oscar per il film ma ce l’hanno data per i costumi. Quello che conta, per me, è che ho ricevuto lettere straordinarie da colleghi importanti, ho stretto amicizie con registi straordinari».

Come si sentirebbe con un Oscar in mano? «È una domanda che non posso nemmeno ascoltare. Un premio può far parte della tua storia professionale, quando fai il mio mestiere e partecipi a un processo professionale che hai deciso di affrontare a un certo livello, se hai un gruppo di collaboratori straordinario e la fortuna di scegliere la storia giusta al momento giusto. Un premio va affrontato per quello che è, come un riconoscimento del lavoro di un gruppo di persone ma anche qualcosa di transeunte, il risultato di una casualità e di una costanza».

Insomma, per lei la statuetta non farebbe la differenza? «Assolutamente no, ci sono cineasti immensi che non hanno mai vinto un Oscar e altri di una mediocrità sconfortante che hanno ricevuto parecchi premi. Mi sono laureato in Storia del cinema con il professor Spagnoletti, a Roma, e prima ho insegnato per lui come ricercatore, poi ho fatto il critico per molti anni. Voglio dire che non posso non essere consapevole del fatto che si sta parlando di variabili».

Il momento più doloroso, fino a qui? «Melissa P., un lavoro che non rispecchia la mia visione. Ma ho imparato la lezione, e non posso lamentarmi. Dal 1995, quando ho iniziato a fare il regista in modo professionale, ho sempre fatto quello che ho voluto. In 25 anni incontri, scoperte ed errori fatti mi stanno bene. Dal allora mi muovo a piccoli passi che mi portano dove voglio essere, che non è necessariamente il luogo del successo».

Che luogo è? «È il luogo in cui ho la possibilità di fare ciò in cui credo. Mi piace lavorare con strumenti che mi fanno sentire tranquillo rispetto alla resa di ciò che voglio fare».

Come definisce il successo? «È qualcosa determinato da variabili che non hanno niente a che vedere con la realtà identitaria del soggetto che ne viene coinvolto».

(…continua)

L’intervista integrale è pubblicata su ICON Panorama di Marzo, anno 2018

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Tim Roth: «Ero un uomo in pericolo»

02 venerdì Mar 2018

Posted by cristianaallievi in cinema, Cultura, Personaggi, Serie tv

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attore, Icon, Panorama, Quentin Tarantino, Tim Roth, Tin Star, Twin Peaks

RECITARE GLI HA SALVATO LA VITA, SUO PADRE GLI HA SALVATO l’ANIMA. E ORA L’ATTORE INGLESE È PRONTO PER TORNARE DIETRO LA MACCHINA DA PRESA (COME L’AMICO QUENTIN)

«Lei è una di quelle giornaliste che twitta giudizi prima della fine dei film per battere la concorrenza facendo felice il suo direttore?». Scenario numero uno. È rovente, e gli succede quando si parla di cinema, ma soprattutto quando si impossessa di lui il personaggio di membro di una giuria, ruolo che ha ricoperto varie volte nella sua lunga carriera. In queste circostanze diventa l’accusa, e sfodera prove a suo favore. «A Cannes mi è capitato di scendere da un treno e vedere che in rete impazzavano già pareri su un film, quando sapevo con certezza che la proiezione non era ancora finita». Scenario numero due. Interno molto soleggiato, qualche giorno dopo aver visto i primi episodi dell’acclamatissima nuova stagione di Twin Peaks. «Molti anni fa una donna ha capito che ero in pericolo, e ha deciso di salvarmi. Con il contribuito di Samuel Beckett…». Scenario numero tre. Al telefono da New York, poco prima dell’inizio delle riprese della seconda serie di Tin Star, produzione anglo canadese di Amazon di cui è protagonista e che la scorsa stagione ha fatto impazzire l’America. «Un giorno mio padre mi ha portato al pub e mi ha fatto domande su una vicenda molto scura che ci riguardava entrambe. È stato così che abbiamo iniziato a guarire, insieme». Tre sguardi diversi che, messi insieme, fanno intuire i frammenti di un caleidoscopio nell’anima dell’attore e regista inglese che reputa Quentin Tarantino uno di famiglia. Padre giornalista e membro del Partito comunista, madre pittrice e insegnante, da giovanissimo Tim Roth è arrivato in California e oggi vive ancora lì, con moglie e due figli.

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Partendo dall’inizio, perché suo padre ha cambiato il cognome di famiglia lasciando l’americano Smith per l’ebreo Roth? «Non ne ha mai parlato davvero, ma credo che nel periodo della Seconda guerra mondiale qualcosa in lui sia cambiato per sempre. Ha visto cose terrificanti, è entrato in spazi molto bui. Alla fine di quel periodo ha preso un nome ebreo, è stato più un fatto di solidarietà. Era un socialista, è tornato dalla guerra ancora più a sinistra, e approdato di nuovo a Londra ha tradotto i racconti dei soldati italiani in inglese, pubblicandoli sui giornali».

Potrebbe quasi quasi essere una vicenda contemporanea. «Stiamo andando troppo a destra, se è questo che intende. Ma non è una sorpresa, almeno non del tutto. Siamo pilotati dalle grandi corporazioni a cui conviene farci sentire insicuri e in pericolo. E poi ci sono due guerre in Medio Oriente, la situazione in Siria è disastrosa, e il governo inglese ha un ordine del giorno basato sugli stessi obiettivi di Trump, un fomentatore le divisioni».

Perché da giovane ha lasciato Londra per Los Angeles? «Avevo già iniziato una carriera ma in Inghilterra non c’erano fondi per l’arte, il cinema e la tv. Mi hanno offerto un lavoro in Australia, non era un ottimo film ma ci sono andato lo stesso. Mi hanno offerto un film dopo l’altro, poi ho conosciuto mia moglie e oggi mi trovo nel punto della vita in cui ho vissuto più anni in Usa che nel Regno Unito».

A proposito di casa, ha frequentato l’Istituto d’arte, come sua sorella. «Mia madre era una pittrice, mio padre un ottimo illustratore, era normale partire da lì. Ma nello stesso periodo ho iniziato a fare teatro, nella scena pop che mi ha portato fino a Glasgow. Frequentavo classi di improvvisazione e mi sono accorto che mi interessava più sparire lì, per cui dopo un anno e mezzo ho lasciato la scuola».

Ai professori sarà dispiaciuto, so che era un ottimo scultore. «Lavorare la creta e scolpire mi piaceva moltissimo, ma hanno capito e mi hanno sostenuto. Mi hanno detto “prova a fare l’attore, se non funziona ti teniamo un posto qui…”».

Qual è stato l’elemento che ha direzionato la sua vita diversamente, lo ha capito? «È la stessa domanda che ho fatto a una donna molti anni dopo. Gli ho chiesto cosa avesse visto in me, dopo un’audizione. “Una persona in pericolo, un uomo che era meglio afferrare…”, mi ha risposto “. Credo che avesse ragione».

 

[…continua]

L’intervista integrale sul numero di ICON Panorama di marzo 2018

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La Swinging London di Michael Caine

10 mercoledì Gen 2018

Posted by cristianaallievi in cinema, Miti, Mostra d'arte cinematografica di Venezia

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Beatles, Bowie, cinema, Cristiana Allievi, Icon, Michael Caine, Miti, My generation, Panorama, Stones, Swinging London, Who

BLOODY COCKNEY DIVENTATO SIR, È STATO TRA I PROTAGONISTI DELLA RIVOLUZIONE CULTURALE CHE HA CAMBIATO L’EUROPA PER SEMPRE. LUI E QUALCHE AMICO (I BEATLES, GLI STONES, BOWIE, GLI WHO)…

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Michael Caine in uno scatto del 1965 per il Sunday Times (courtesy Icon Panorama).

«A 10 anni volevo già diventare un attore. Ma la mia classe sociale non lo prevedeva, nemmeno il mio accento. Figuriamoci pensare di diventare famosi, era fuori da ogni logica». La sua carriera è iniziata grazie a un paio di pantaloni. E molti altri sono gli aneddoti che ruotano intorno all’abbigliamento e al look. Il primo: a una recita scolastica sale sul palco per una pantomima, e tutti ridono. In realtà non è merito della sua bravura, ma della lampo dei pantaloni che è scesa. Non importa, lui ha trovato ciò che vuole fare nella vita. Poi ci sono gli abiti che separano una classe sociale dall’altra. «A Londra, negli anni Sessanta, lo speaker della BBC che dava le notizie si vestiva in giacca a cravatta, nonostante fosse in radio. La mia generazione ha messo in discussione quei valori. Abbiamo fatto una vera rivoluzione, con la musica pop, il cibo, il look colorato e informale rispetto agli standard britannici…». E quando si fa notare a Sir Michael Caine che è una leggenda di stile, oltre che del cinema, lui sfodera un altro aneddoto. «Il mio miglior amico era un sarto. Qualsiasi cosa dicesse aveva ragione. Ho perso un sacco di chili ultimamente, ma indosso ancora le giacche che ha cucito per me anni fa». Vengono in mente le immagini di Alfie, in cui cammina in doppio petto con le mani in tasca sulle note di Burt Bacharach: alto, biondo e con un paio di occhiali neri che anticipano di cinquant’anni anni quelli che Tom Ford ha fatto indossare a Colin Firth. Sempre una sigaretta accesa fra le dita.

Ha una semplicità che lascia sgomenti, lo capisci quando cita i suoi amici Doug Haywor – il sarto che è stato una star in Inghilterra – George Harrison e Ravi Shankar senza traccia di enfasi. La nostra lunga conversazione parte nel Myfair di Londra e termina sulla spiaggia del Lido di Venezia. All’ultima Mostra d’arte cinematografica ha presentato My generation, il docu film di David Batty in cui è presenza sullo schermo, voce narrante e produttore. Nelle sale dal 22 al 29 gennaio come vento, è un viaggio a ritroso fra i ricordi in cui parla (l’audio è originale) con i Beatles, gli Stones, David Bowie, Twiggy, ma anche con i fotografi più famosi dell’epoca, Bailey, Duffy e Donovan. Sembra uno sforzo fatto per farci capire cosa ha dovuto attraversare- insieme ai colleghi citati – per essere ascoltato. E a 85 anni suonati quello che ancora emerge è l’orgoglio del “bloody cockney”, per dirla con parole sue. Cresciuto in una famiglia povera della working class, suo padre scaricava casse al mercato e la madre era una cuoca. Vivevano in un appartamento di Camberwell, per strada incontrava Charlie Chaplin, anche lui di quelle parti e mai, in vita sua, avrebbe pensato interpretare i giochi psicologici di Gli insospettabili, o blockbuster come Lo squalo e la trilogia del Cavaliere Oscuro, accanto a film d’autore come Youth– La giovinezza, in cui Paolo Sorrentino lo ha voluto compositore e direttore d’orchestra ritiratosi in Svizzera a fine carriera. La miglior performance della sua vita, secondo il due volte premio Oscar (per Anna e le sue sorelle e Le regole della casa del sidro), che continua a girare un film dopo l’altro.

Si è mai reso conto di quanto la sua immagine sia forte? «Non sono mai stato un tipo fashion, mi definirei piuttosto un “mystic cool”. Vede come sono vestito, anche oggi? Ho uno stile severo, e indosso sempre capi di un solo colore, il blu chiaro».

Come si diventa icone di stile? «Il mio miglior amico era Doug Hayword, ha confezionato tutti i miei abiti».

Per i suoi ruoli sullo schermo? «Per la vita di tutti i giorni. Nonostante sia mancato dieci anni fa, e io abbia perso un sacco di chili, indosso ancora gli stessi abiti. Questa giacca che vede è sua».

A che stile si è ispirato negli anni della sua formazione? «A quello degli americani, che facevano sempre foto della working class, cosa che gli inglesi non hanno mai fatto. Quando eravamo giovani mia madre mi portava a vedere i film di guerra, e tutti quelli americani su questo tema parlavano di soldati semplici, mentre nei film inglesi di guerra ci sono sempre solo gli ufficiali, ci ha mai fatto caso?».

(continua…)

Intervista pubblicata su Icon Panorama, gennaio 2018

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Samuel L. Jackson: «Io violento? No, mi dipingono così».

16 giovedì Mar 2017

Posted by cristianaallievi in cinema, Miti, Personaggi

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black power, cinema, fashion, Icon, icona, interviste, Quentin Tarantino, Samuel L. Jackson, Skull Island, stile, uomo, Warner Bros

VOLEVA ESSERE IL JACQUES COUSTEAU NERO. E SI SENTE UN PITTORE DELLA RECITAZIONE. CONVERSAZIONE CON UN’ICONA DEL CINEMA CHE HA GIRATO PIU’ DI 150 FILM. E CHE NON TEME DI “SVUOTARE IL SACCO”, NE’ DI SBANCARE IL BOTTEGHINO

«Sono cresciuto nel Tennesse, il clima caldo e umido mi piace moltissimo. Alle Hawaii ci sono ottimi green e io sono un avido giocatore di golf. Inoltre vivendo a Los Angeles apprezzo molto quei quindici minuti al giorno di temporale. Ho vissuto per tre mesi in una casa sull’Oceano circondata da rocce, osservavo i fulmini arrivare dal cielo e sentivo la tempesta che batteva sulle vetrate, era una meraviglia». Siamo sulla terrazza di un hotel nel cuore di Beverly Hills. Dalla strada arriva il rombo delle auto di lusso che scorazzano sulla Sunset Boulevard, mentre questo uomo alto, elegante e dai modi raffinati mi racconta dei viaggi per le riprese dell’ultimo Kong: Skull Island, il film di Jordan Vogt-Roberts nelle sale dal 9 marzo. Ci sono almeno due aspetti che sorprendono incontrando Samuel L. Jackson di persona. Il primo è che l’icona di Spike Lee e Tarantino parla a ritmo di rap. La seconda è che dimostra quindici anni meno di quelli che ha. Nel prossimo film sarà il tenente colonnello Packard che sta per tornare a casa con i suoi soldati alla fine di un conflitto dall’esito non chiaro. Riceve una telefonata con la richiesta di scortare un gruppo di scienziati su un’isola del Pacifico, e sarà la sua ultima spedizione. Jackson si trasformerà in una specie di capitano Achab e King Kong- che sull’isola scopriremo essere un vero re- sarà la sua balena bianca. «Dopo le Hawaii e l’Australia le riprese si sono spostate in Vietnam, e lì ho visto una vera magia», continua. «Hanoi è come essere a New York, ma fatti di crack, e nella campagna circostante trovi una pace speciale. Andavo a lavorare alle cinque del mattino e vedevo centinaia di bambini dirigersi a scuola in bicicletta, gli uomini che si muovevano dalle risaie con i loro bufali d’acqua. Quello stile di vita comune, là fuori, ti da la sensazione che il comunismo non può essere così tremendo. Intendo il comunismo come lo vivono loro». Indossa coppola e giacca di una renna molto leggera, con pantaloni in lino color petrolio, e in poche frasi mi ha già detto tutto del suo mondo: golf, droghe, recitazione e politica sono temi che affronteremo poco dopo. Nel frattempo ho rintracciato il suo terzo marchio di fabbrica: l’attore che ha pronunciato 171 volte e in 27 film la parola “mother fucker” è talmente articolato nella conversazione da far pensare che i dialoghi proverbiali di Jules Winnfield (Pulp fiction), del Maggiore Marquis Warren (The Eightful Eight) o di Purify (Jungle Fever) li abbia scritti lui.

Tra poco vedremo le nuove avventure di King Kong, l’anno scorso era in Tarzan, un’icona del cinema accetta grossi blockbuster solo per denaro? «Scelgo questi film perché erano quelli che volevo vedere da bambino ed erano fatti della stessa materia dei sogni. Da piccolo vuoi stare con Tarzan, vivere nella giungla e vederlo combattere i leoni. È un ambiente piacevole in cui recitare, lo faccio molto volentieri».

Il film visto da bambino che le ha cambiato la vita? «Ne guardavo moltissimi nei weekend. Ero figlio unico, ho sempre fantasticato. Ero costantemente in un altro mondo e in un altro tempo, fino al punto in cui ho capito che non avrei mai vissuto dove mi trovavo, e che sarei stato un altro. Eppure fare l’attore non era realistico per la persona che ero, per chi ero sarebbe stato ipotizzabile diventare avvocato, insegnante o medico».

Invece è finito nel Guinness dei primati per aver realizzato il record di incassi al botteghino: com’è successo? «Ho pensato molto a come sono arrivato qui. Credo che il seme risalga alla sorella di mia madre. Era un’insegnante di arti performative e da molto piccolo ho vissuto in casa sua. Mi vestiva con abiti di scena e io “recitavo”, avevo tre anni. Mi piaceva quando le persone che venivano a trovarla applaudivano e mi dicevano “sei proprio bravo…”. Più avanti, al college, frequentando un corso per parlare in pubblico (consigliatoli per superare una lieve balbuzie, ndr), l’insegnante mi ha offerto di recitare L’Opera da tre soldi e io ho accettato. Mi ha appassionato così tanto da darmi di nuovo una ragione per entrare in classe».

Era uno che marinava? «Spesso e volentieri, ma da quel momento mi sono sentito incoraggiato, ho percepito la serietà di quello che facevo e la chance di una carriera anche per me. È stata la luce in fondo al tunnel».

Proprio ai tempi del teatro fumava erba, beveva e usava l’LSD. «Ero fuori di testa per la maggior parte del tempo, ma avevo una buona reputazione, ero sempre in orario e sapevo le battute alla perfezione. Però avevo un problema di dipendenze ed ero stufo, è così che ho deciso di disintossicarmi. Nel mezzo della riabilitazione ho capito che avevo fatto tutto quello che mi era stato detto di fare, bevevo alle feste perché la gente di teatro lo fa, e poi perché i famosi si devono comportare così e così, ma io avevo una mia individualità. Mi sono detto “e se dessi il meglio di me, senza usare nessuna sostanza, cosa succederebbe?”. All’improvviso è cambiato tutto».

Non ha più sgarrato? «No perché ho compreso che essere sobrio ed essere me stesso erano due cose correlate, e che sgarrare avrebbe significato tornare a vivere come vivevo prima. Essendo chiaro cosa preferivo, non c’è più stato pericolo».

In Django Unchained ha incarnato il personaggio nero più detestabile della storia del cinema, e in genere sembra avere una specie di predilezione per i personaggi intelligenti con una forte inclinazione per la violenza: da dove viene questa attitudine? «Non so se i personaggi sono davvero intelligenti, di sicuro ce ne sono alcuni più intelligenti di altri. Osservo molto come si comportano le persone, lo faccio mentre guido, viaggio, cammino. Leggo moltissimi romanzi, saggi e science fiction, mi piace prendermi la libertà di immaginare il livello di istruzione e di intelligenza di una persona, captare se ho davanti un uomo di mondo, un viaggiatore, se ha avuto esperienze militari e quanto è sofisticato. È in base a questi elementi che decido di dare più o meno comprensione e compassione ai miei personaggi, li costruisco per poi incarnarli».

Definirebbe Tarantino è un regista “violento”? «La violenza è un ingrediente dei suoi film, ma c’è anche molto altro. Con lui si filosofeggia parecchio, le persone raccontano molto di sé, come si sentono, come vedono il mondo e tutti sembrano avere un punto rottura, cose o persone che non tollerano. E agiscono proprio su quello, in modo molto peculiare. La forza viene loro dall’avere un certo punto di vista».

Qual è il confine tra la forza e la violenza? «Una certa dose di contenimento mista a compassione per gli esseri umani. Una persona normale non assalirebbe fisicamente un suo simile perché capisce le conseguenze di ciò che fa. Questo include la comprensione di diversi aspetti, che non devi fare male all’altro, che il corpo ha una certa dose di fragilità, che le tue azioni hanno delle conseguenze. La comprensione e una certa compassione per la condizione umana segnano quel confine, e i valori della persona determinano se cadrà preda della furia cieca o meno».

In che modo gestisce gli impulsi violenti? «Non ne ho. Mi arrabbio, ma non ho mai dato un pugno in faccia a nessuno, né ho sentito il bisogno di sparare a qualcuno o fargli del male perché non riesco a fargli capire qualcosa. Eppure la gente mi insulta quotidianamente. Sono su Twitter e FB, e tutti si sentono in dovere di dirmi quello che gli passa per la testa. Ma non reagisco mai in modo duro, non alimento l’attenzione che vogliono».

La sua attitudine verso la sensibilità e la fragilità, invece? «Sono sensibile verso la gente che mi tratta diversamente, non voglio si pensi che mi aspetto un trattamento privilegiato. La fama ha aspetti positivi, non fai la coda per prendere un aereo o entrare in un ristorante, puoi guidare la tua macchina fino alla porta di un locale invece di arrivarci a piedi. Ma sono attento al mondo che mi circonda e so di poter usare la mia notorietà per creare un certo livello di consapevolezza. La gente non sopporta che gli attori abbiano visioni politiche, ma devo difendere quello in cui credo, e sono sempre stato un animale politico».

È vero che ha lasciato il college per un anno, è stato membro delle Black Panthers, l’hanno sospesa dal Morehouse College per aver preso in ostaggio alcuni membri del Consiglio di fondazione- tra cui il padre di Martin Luther King– finchè un giorno l’FBI non è venuta a casa di sua madre per dirle che ha rischiato che le sparassero? «Mi sono occupato di diritti civili ma non sono mai sto membro della Pantere Nere, anche se le ho sempre capite. Sono nero e lo sono da sempre, sono sensibile ai problemi razziali che non sono mai stati circoscritti né a un certo periodo storico né a una zona del mondo. Le razze sono sempre state un problema, lo sono tutt’ora».

Condivide l’opinione secondo cui con Obama le cose sono peggiorate? «No, se ne è solo parlato di più perché molte persone non sono state contente di avere un presidente nero. Fuori da questo paese avete pensato che fosse fantastico che l’America fosse finalmente abbastanza cresciuta da eleggere un presidente di colore, si sarebbe pensata la stessa cosa se avessimo scelto una donna per la Casa Bianca».

Invece? «L’America non ama le donne al comando, a prescindere dal fatto che la Clinton sarebbe stata ideale o meno. Ma il problema è che di Obama la prima cosa che è stata vista non è la sua intelligenza: hanno detto subito “wow, è un presidente nero”. Questo è il seme del razzismo».

 Su Twitter Trump ha detto di non conoscerla, ma pare non sia vero. «Abbiamo giocato a golf insieme due volte».

Perché lo nega? «È semplicemente la natura di quello che fa, crea una sua versione dei fatti. Uno potrebbe pensare che non se lo ricordi, invece lo ricorda benissimo».

C’è qualcosa che si aspetta da lui? «No, e credo che non mi occuperò di questioni politiche per un po’. Vediamo cosa succede».

Il King Kong del suo prossimo film è stato descritto come una bestia ferale e un essere incompreso. Ma è anche un re che se ne sta per i fatti suoi, sulla sua isola è una specie di dio: lei si sente un po’ così, a Hollywood? «Chi, io? (scoppia a ridere, ndr) ».

In 40 anni di carriera ha girato 150 film. «Vado a lavorare tutti i giorni perché sento che è quello che devo fare e soprattuto che amo fare. Il mio lavoro mi nutre, e non credo siano in molti a poterlo dire del proprio. In realtà non vedo nemmeno quello che faccio come un lavoro, ma come il privilegio di poter uscire e creare qualcosa. Come un pittore e uno scrittore, ho l’opportunità di raccontare storie e fingere di essere qualcun altro».

Ha girato anche cinque film in un anno, per caso è un workaholic? «Quando un pittore finisce un quadro e lo mette ad asciugare non aspetta tre mesi per passare a un altro, perchè dovrei farlo io? Il mio bisogno di creare, a modo mio, è appunto un bisogno. Posso finire un film un giorno e andare su un nuovo set il giorno dopo, senza problemi».

Non sente mai il bisogno di cazzeggiare? «Normalmente a luglio non lavoro, volo da voi in Italia o in Francia. Adoro Capri, Napoli e la riviera, mi piace spingermi giù, fino verso la Sicilia».

È vero che sognava di lavorare in mare? «Prima di quel corso in teatro volevo diventare il Jacques Cousteau nero. Adoro nuotare e mi piace guardare documentari sull’oceano. Credo che sia la nostra prossima forma di vita sostenibile. Stiamo distruggendo la terra, spero non faremo lo stesso con il mare…».

Storia di copertina pubblicata su Icon Panorama di marzo 2017.

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Slava Fetisov, “cattivo” maestro

06 domenica Dic 2015

Posted by cristianaallievi in cinema, Miti, Sport

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asteroide 8806, CCCP player of the year, cinema, Cristiana Allievi, Festival di Cannes, Gabe Polski, Guerra fredda, hockey team, Icon, KGB, Panorama, Red Army, Slava Fetisov, Viktor Tikhnonov

190 centimetri di altezza, una stazza corporea considerevole. Capitano della nazionale di hockey russa per nove stagioni, due volte CCCP Player of the year, due medaglie d’oro alle Olimpiadi e sette ori ai campionati del Mondo fanno di lui uno degli atleti più forti di tutti i tempi. Ma i titoli sportivi impallidiscono, di fronte alla grandezza umana. Perché prima di diventare Ministro dello Sport di Putin, Vjačeslav Aleksandrovič, detto Slava, Fetisov, ha combattuto e vinto per la libertà delle generazioni a venire. È successo quando, a un certo punto della carriera, ha chiesto il passaporto per giocare negli Usa e, da eroe nazionale, in un istante si è trasformato in nemico politico. Alla fine di una lunga battaglia è riuscito a spuntarla. Lo incontro in un hotel della costa Azzurra dov’è venuto a presentare il docu film del candidato agli Oscar Gabe Polski, Red Army (sugli schermi Usa da gennaio 2015 e prossimamente in Italia). Questi 76 applauditissimi minuti all’anteprima mondiale dell’ultimo festival di Cannes raccontano quarant’anni di storia attraverso la sua vita, quella della Red Army – uno dei più grandi hockey team della storia- l’ex Urss di Gorbaciov, le Olimpiadi, le vittorie dei russi, in un misto di vertigine sportiva e interviste dei giorni nostri. Tanto sono frenetiche le splendide immagini di repertorio delle prime sfide Usa-Urss in piena guerra Fredda, tanto è placida la calma di Fetisov quando parla, con parole che pesano.

Nhl Fetisov

Fetisov alle Olimpiadi del 1980 con la maglia dell’Unione Sovietica.

«Mi chiede se mi pento degli anni spesi in allenamenti massacranti? Quando sei giovane e ambizioso, e vieni dai bassifondi della società, non te ne frega un cazzo di vivere in un camp per 11 mesi all’anno, non hai niente da perdere. I miei amici oggi sono tutti nella tomba, caduti sotto i colpi delle droghe e dell’alcool, io ho sempre voluto essere un bravo studente, mi sono allenato e non sono mai andato in conflitto col sistema, che in cambio mi dava la libertà». A giudicare dall’allenatore della Red Army, Viktor Tikhnonov, un vero dittatore che poi si è scoperto anche essere membro del Kgb, c’è da chiedersi di quale libertà parli. Del resto l’hockey era un affare di stato, uno strumento di propaganda attraverso cui, vittoria dopo vittoria, il governo dimostrava la superiorità del sistema sovietico sul resto del mondo: i suoi atleti ne erano l’arma micidiale. Li portavano a giocare negli Usa e gli toglievano il passaporto per non far venir voglia di scappare, alla vista di quei colleghi a stelle e strisce che indossavano moderni jeans e guadagnavano un sacco di soldi. «Non li invidiavo, ero felice, sul ghiaccio mi sentivo libero e non pensavo alla politica. A 21 anni ero già famoso nel mio paese, avevo un appartamento e ho sempre potuto scegliere la donna che volevo». Ma a metà degli anni Ottanta l’idealismo in Russia inizia a crollare e l’economia a stagnare. Arriva il vento dell’Occidente e con esso la proposta di trasferirsi, ma glielo impediscono. «Avevo firmato il contratto in Europa, il management americano avrebbe potuto “rapirmi”, ma io non volevo lasciare il mio paese fuggendo di nascosto. È stato un inferno, mi hanno messo sotto una pressione enorme: da campione ero diventato nemico della patria. Mi hanno sbattuto in prigione, picchiato, colpito a fuoco (silenzio, ndr), la sensazione era che mi potesse succedere di tutto». Ma alla fine ha vinto lui. Arrivato negli Usa, però, le cose non sono andate come previsto. «Mi odiavano, mi vedevano come comunista, uno che era lì per soldi da spedire a Mosca. Solo quando un amico di una grande famiglia americana mi ha chiesto di fare da padrino ai suoi figli le cose sono cambiate: ho iniziato a sentirmi accettato, ho vinto 3 Stanley Cup, mi hanno messo nella Hall of Fame e offerto un lavoro da coach». Ma Putin, nel frattempo succeduto a Gorbaciov, aveva altri progetti. Gli offre una squadra molto più grande e maggiori responsabilità, oltre a una casa di 1000 metri quadrati, con piscina e campi da tennis, e la libertà di scegliersi lo stipendio: è così che Fetisov torna in Russia, nel 2001, e diventa suo ministro dello Sport. «Ho trovato un disastro, non c’erano nè rispetto nè un governo, solo rovine. Anche nello sport c’erano ladri e nessuno riusciva a opporsi. Ho ideato un programma e la gente si è fidata, perché ho un nome che non è in vendita e che non posso spendere per cause sbagliate». Forma il team che nel 2014 avrebbe portato i Giochi olimpici a Sochi, da il via a un programma di facilitazioni per lo sport – mai esistito nell’Unione sovietica- che porta a costruire 300 campi di pattinaggio consentendo ai giovani di allenarsi in tutto il paese. Costituisce la League, in cui sonoimpegnate 30 squadre da 9 paesi, e supporta vecchie glorie dello sport: assicura a chiunque abbia vinto una medaglia olimpica 1000 dollari di pensione. Lasciato l’incarico da ministro dello sport dopo sette anni, oggi è senatore del Parlamento e lavora su questioni sociali, toglie i bambini dalla strada, dall’alcol e dalla droga e insegna loro i valori dello sport. Rimpianti? «In 12 anni di questo lavoro ho capito due cose: che la politica mi prende più di quello che mi da, e che la gente normale, come me, ottiene più fiducia dalle persone di chi sceglie questo mestiere come carriera, a caccia di potere, soldi e successo». L’asteroide 8806 è stato ribattezzato col suo nome, ci sembra il minimo che la sua fama sia finita sino in cielo. Un’altra, meritata, vittoria per un capitano fuori dall’ordinario.

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Slava Fetisov con la giornalista Cristiana Allievi

Novembre 2014 Panorama Icon © Riproduzione Riservata 

 

 

Oliver Stone, «Conosco la forza della rabbia»

15 lunedì Dic 2014

Posted by cristianaallievi in Miti

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Tag

angelina jolie, cinema, Cristiana Allievi, Icon, Oliver Stone, Oliver Stone; Panorama; politica; The untold history of United States; Michelangelo di Battista;, Panorama

C’è chi dice sia una prima donna. Ma è più probabile che le tre medaglie al valore conquistate in Vietnam lo abbiano reso un tipo determinato. Il regista simbolo del cinema politico ha accettato di farsi fotografare e di raccontarsi a Cristiana Allievi per Icon, magazine di stile di Panorama, come mai prima d’ora: l’infanzia, i rapporti con i genitori, le radici del suo cinema, la rabbia e l’orgoglio di una generazione di americani.

Oliver Stone

Il regista premio Oscar Oliver Stone

Con gli anni non do più in escandescenze come un tempo, ma m’infurio ancora. D’altronde, non ho certo intenzione di invecchiare scrivendo la mia autobiografia. Continuo a chiedermi il significato delle epoche che ho vissuto. E, soprattutto, se le ho davvero capite. Resta questa, oggi più che mai, la mia priorità».

Figlio di un finanziere repubblicano di Wall Street ebreo e di una parigina, Oliver Stone non si stanca di ripetere che quello che conta, al cinema, è prima di tutto intrattenere. Ma resta un cercatore ossessivo e spietato della verità, un maniaco nello scovare e vagliare fonti per le sue storie. E il ritmo vorticoso di Jfk, i tagli alle interviste di Fidel Castro (Comandante) e ai leader palestinesi (Persona non grata), così come le piste ostinatamente battute dal suo giornalista per raccontare la dittatura militare e l’omicidio di Oscar Romero in America Centrale (Salvador), la dicono lunga sulla sua idea di intrattenimento.
Non conta se i film li ha scritti, come Fuga di mezzanotte, Scarface oConan; se li ha scritti e diretti, da Platoon a Le Belve; o si è semplicemente messo dietro la macchina da presa, come in Ogni maledetta domenica. E non conta neppure se vincono una pioggia di Academy Awards, fanno buchi da milioni di dollari (Alexander) o vengono stroncati prima di nascere, com’ è stato per il biopic su Martin Luther King, bloccato dagli eredi del leader nero spaventati dall’idea che, anziché un’icona retorica, il film raccontasse un uomo in carne e ossa, adultero e lacerato dai conflitti con il suo movimento: Stone aspira sempre a una grandezza di genere immenso. Che non ammette compromessi. C’è chi dice sia una prima donna. Ma è più probabile, invece, che le tre medaglie al valore conquistate in Vietnam lo abbiano convinto una volta per tutte della necessità di dividere il mondo tra chi fa sul serio e chi invece no. Abbandonata l’Università di Yale per arruolarsi nell’esercito, dopo aver scritto un romanzo autobiografico andato malissimo, A child’s night dream, e aver festeggiato tre matrimoni, tre divorzi e la nascita di altrettanti figli, Stone non è certo il tipo da nascondere o vergognarsi di essere finito anche in galera per abuso di droghe e alcol. E quando crede in una storia ci mette sempre la faccia e pure i soldi.

Per il suo progetto più ambizioso di sempre, The untold History of United States, dieci ore di documentario che smontano settant’anni di storia ufficiale americana, ha sborsato di tasca propria un milione di dollari sui cinque necessari. Mentre per il final cut di Alexander, insoddisfatto dei ritmi e dei tempi che la produzione gli aveva imposto, ha deciso unilateralmente di rimettere da cima a fondo le mani sul film.
D’altronde, non si può chiedere a chi ha cambiato per sempre il modo di raccontare la guerra al cinema (vedere alla voce Platoon) di avere un carattere facile. La rabbia di Stone è il motore della sua creazione.

Chi è stato il primo destinatario della sua rabbia?
Mio padre Louis, credo. Quando decisi di partire per il fronte mentre tutti cercavano rinvii. Era un repubblicano conservatore e mi aveva cresciuto nell’upper East Side con il terrore della globalizzazione del potere militare russo e l’odio per il comunismo. Ma non voleva assolutamente che partissi. Come ogni padre, era contro la guerra. E soprattutto riteneva non fosse necessario che ci andassi io, cosa su cui non sono mai stato d’accordo.

Il conflitto a volte rende simili. Che cosa si porta dentro Oliver di Louis?
Mio padre era un uomo onesto, lavorava moltissimo e non ha mai fatto il broker per soldi né ha mai giocato con denaro altrui. Come tanti allora, odiava Roosevelt, perché aveva imposto un mucchio di regole alla borsa e un mare di tasse. Ma chi venne dopo, leader politici come Reagan e Thatcher, fece peggio, spingendo verso ogni sorta di privatizzazione senza preoccuparsi di costruire un vero libero mercato. Una politica che ci ha portato alla follia. Alla fine la finanziaria di mio padre fu divorata da Sandy Weil, l’ex amministratore delegato del gigante della finanza Citigroup: il primo mega banchiere globale, l’uomo che voleva tutto. Mio padre ha finito col pagare commissioni su commissioni. Eppure l’ho visto rimanere leale verso i suoi clienti fino all’ultimo giorno. La borsa allora era un altro mondo. I grossi profitti le banche li reinvestivano nel sociale. Altro che mettersi in tasca il 70 per cento dei guadagni come fa Goldman Sachs.

Non dev’essere stato facile accettare un figlio artista.
Sì, per molto tempo ha pensato fossi solamente un fannullone, e a un certo punto ho iniziato a crederlo anch’io… Ma lo diceva quando avevo 20 anni e non mi ero ancora affermato. Non credeva nel business del cinema, semplicemente. Era qualcosa al di fuori del suo orizzonte, della sua visione limpida ma anche  austera della vita. Prima di morire, però, mi ha detto: “Mi sono sbagliato, questa cosa dei film funzionerà, la gente andrà sempre di più al cinema”. E aveva ragione: negli anni Ottanta l’industria cinematografica letteralmente esplose. E io ero pronto per raccogliere i frutti della mia tenacia. Da giovane ero pieno di tensioni e insicurezze, ma sono state queste le forze che hanno ispirato la mia vita. Il desiderio di fare sempre di più non mi ha ancora lasciato. E credo che in fondo ogni regista faccia quello che fa anche perché si sente insicuro nell’affrontare la vita.

Perché il conflitto, la violenza, è spesso al centro della sua arte?
Corruzione, governi distorti, guerra: li racconto perché sono stati il cuore delle mie esperienze in questo mondo, fin da quando sono nato. Da artista ho cercato di mostrare quello che vedevo come potevo, nel modo più realistico possibile. La violenza è qualcosa che conosco bene. Ma non credo che i miei film siano violenti. Piuttosto fanno vedere gli effetti della violenza. Tutti tranne uno, Assassini nati, dove ho voluto di proposito essere grottesco e far ammazzare 55 persone ai due protagonisti….

La rabbia la spinge a fare certi film piuttosto che altri?
Nel mio caso è diverso, è il genere a cambiare. Quando sono arrabbiatissimo giro un documentario, uso la via diretta per dirlo. Se racconto una storia, invece, è segno che sono più tranquillo.

Sembra capace di sopportare bene gli alti e i bassi. Le ho sentito dire: «A me Nixon piace». Eppure è stato un flop.
La vita è dura, devi guardarla nell’insieme. Alcuni miei film hanno avuto successo, altri no. Dipende da dove tira il vento e se in quel momento hai fortuna o meno. La meditazione mi ha molto influenzato nel modo di vedere le cose, mi ha reso più consapevole, peccato non l’abbia praticata quando ero giovane… Ho iniziato nel 1993, e anche se a volte può essere molto frustrante, se sei regolare diventa un modo di vivere. E poi parte di te.

Oltre a suo padre, chi ha contato per la sua ispirazione?
Mia madre. E anche per me questa è una scoperta recente. Se rivedrà Alexander lo capirà. Quando uscì, nel 2004, mi costrinsero a stare sotto le tre ore e a tempi di lavoro strettissimi. Così, già nel 2007, iniziai a rimetterci mano. La nuova versione che uscirà è quello che avevo in mente. Ho rimesso mano a tutto il girato che avevo e ho proposto un viaggio completamente nuovo, di 3 ore e 26 minuti, nell’anima di un uomo, dalla nascita alla morte. Di un uomo che si è dovuto spingere fino alla fine del mondo per risolvere i conflitti con i suoi genitori.

Sua madre come Olimpia interpretata da Angelina Jolie…
Una donna fortissima, proprio così. I miei genitori lo sono stati entrambi, nonostante le loro incomprensioni. Penso che sia stato un bene, però: se uno dei due fosse stato dominante non ci sarebbe stato quel conflitto, quella frizione interna tra padre e madre, dentro di me, capace di scatenare una battaglia che è diventata il mio motore. Ero figlio unico e, come tutti, ho dovuto sopportare molte più emozioni di quante ne debba gestire normalmente un figlio. Tutto è molto più impegnativo quando sei da solo e la tua famiglia va inesorabilmente in pezzi.

La separazione è dolorosa. Come ha protetto i suoi figli dalla fine dei suoi matrimoni?
Sono stato sposato la prima volta per sette anni, la seconda per tredici e ora lo sono da diciotto (con la coreana Sun-Jung Jung, ndr). In pratica, quindi, è come se fossi sposato da sempre. Sono padre di tre figli, ho avuto i miei alti e bassi e di sicuro sto ancora imparando molto sulle relazioni. Ma cerco di fare del mio meglio per tenere tutto insieme. Nonostante sia stato molto vicino a mio figlio Sean, lo abbia ascoltato e aiutato sempre, ha comunque sofferto molto la fine del mio primo matrimonio. Non ho potuto evitarglielo: lo ammetto.

È un giovane regista, esattamente come lei ai tempi.
È vero, non ha ancora 30 anni e sta cercando il suo primo successo, che io ho avuto proprio alla sua età. Io, però, non avevo contatti in questo settore, mentre Sean è cresciuto circondato dalla regia. Ma non sono sicuro sia un vantaggio, molto sinceramente. È molto pericoloso avere un padre come me: è come bere vino e restarne inebriati. Ed è facile perdersi. Gli auguro il meglio. E anche se non potrò fare carriera al suo posto, vorrei che si convincesse che non mi importa quello che fa, né che cosa diventerà. Per me conta solo l’amore. Quindi, anche se dovesse finire in prigione, come d’altronde è capitato anche a me, sarò lì insieme a lui e lo amerò per come è.

“Nella mia vita c’è stata così tanta follia, ma per fortuna è sempre uscita col lavoro”, ha detto.
Fare film mi ha calmato, rassicurato, ha fatto uscire tutta la rabbia che avevo dentro. Martin Scorsese era il mio professore di cinematografia all’università (tornato dal Vietnam, Stone si è iscritto alla New York University, ndr): era pieno di energia, appassionato. È stato molto importante per me. E un giorno mi ha detto: “Sei stato in Vietnam, sei pieno di rabbia? Mettila nelle tue immagini…”. Con gli anni sono maturato e ho imparato a trasformarla in un’emozione positiva, ma la rabbia serve, anche per cercare la verità che continua a cambiare mentre cresciamo. Così, piano piano, sono maturato e ho trasformato la mia rabbia in qualcosa di positivo e di bello. E se da giovane avevo davanti agli occhi soltanto la guerra, i crimini, la corruzione, la menzogna, ora ho antenne più sottili: adesso sono i rapporti con gli altri al centro della mia attenzione.

Un’ispirazione nuova…
Sarà che sono più vicino alla morte… (scoppia a ridere). Ma vorrei girare qualcosa alla Visconti, qualcosa di simile a Bellissima, per intenderci. Ho sempre trovato straordinaria la passione di quella madre, e la relazione tra padre, madre e figlio mi ha affascinato. E poi adoro la Magnani.

bilde

Stalin, Roosevelt e Churchill in una scena di The untold History of United States di Oliver Stone

In occasione della presentazione della versione per ragazzi del suo Untold History, edita da Atheneum Books e adattata da Susan Campbell Bartoletti, Olive Stone ha dichiarato: «Ho sempre pensato che ai giovani non piaccia la storia insegnata a scuola perché è stata eccessivamente “disneyficata” e resa insignificante dalle scuole americane, con gli Stati Uniti sempre rappresentati come fossero Biancaneve… Nel nostro racconto offriamo una versione più Dr. Jekyll e Mr. Hyde, con la Regina Cattiva che compie parecchie delle malefatte nel mondo. Alla fine ai ragazzi piacciono le storie horror».  (8 dicembre 2014)

 

Oliver stone Alexander

Il regista con la Jolie, interprete del suo Alexander

 

Qui la cover story per Panorama Icon con foto in esclusiva di Michelangelo Di Battista

Marzo 2014 © Riproduzione riservata

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